LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE TRA STORIE, DIRITTI E CULTURE
4 Ottobre 2024
Khost 1980. Il buio e la fatica si portano via le ultime parole stanche dei combattenti. Si sistemano per la notte, posando il fucile accanto a loro, accudendolo come un bambino. La cena (riso, yogurt e uva) offerta dal comandante Bul Bul è un miracolo, tra i buchi profondi delle bombe, gli echi di qualche assalto notturno, in quello sperduto villaggio diventato il suo quartier generale. “I russi sono già passati di qui, per questo è un posto sicuro -dice mentre sorride, con un sorriso che fa quasi luce-. Quando tornerai, l’anno prossimo, ti farò fare il giro dell’Afghanistan su un elicottero russo. Sarà bellissimo e non dovrai più camminare a piedi!”. Guardiamo insieme quel piccolo sogno. Nessuno di noi ci crede. “Davvero -insiste- in un paio di mesi prenderemo Khost”.
È per questo che siamo qui. La città è in fondo alla valle, la vediamo. Il bersaglio: l’aeroporto, con gli MI24, micidiali elicotteri russi da combattimento. Abbiamo passato la giornata a spiarne i movimenti. La notte seguente ci sarà battaglia. Bul Bul mi spiega i dettagli dell’assalto: “Da quella collina potrai vedere bene gli MI24 che saltano in aria”. Come per un programma di fuochi artificiali. Il comandante Bul Bul (il primo a sinistra nella fotografia di apertura scattata da Cristiana Cella nel 1980) fa parte in segreto del Fronte nazionale unito, una formazione che raggruppa laici, democratici, militanti di sinistra e islamici moderati. Combattono i russi ma anche i gruppi fondamentalisti -che si sono stabiliti a Peshawar, in Pakistan- e stanno diventando sempre più forti, terrorizzando la popolazione dei villaggi che attraversiamo.
Una guerra su due fronti, difficile da reggere con poche armi, soldati contadini senza esperienza militare e comandanti più abituati ai libri che ai fucili. Così, come altri militanti, Bul Bul sceglie di infiltrarsi in gruppi islamisti ben armati e numerosi, prendere il controllo di un piccolo esercito personale e aiutare altre formazioni che combattono con le sue stesse idee. È un capo rispettato e porta la sua guerra anche nelle menti delle persone. Una preziosa opportunità. Mostra loro il futuro dell’Afghanistan, libero, democratico, dove l’uguaglianza dei diritti di uomini e donne e di afghani di tutte le etnie sia la base per un futuro di pace. L’antidoto al veleno integralista, venuto da oltre confine, che comincia a circolare. Le sue previsioni sono lucide e puntuali, non c’è spazio per le illusioni.
“La guerra sarà lunga e sempre più violenta. Alla fine, i russi se ne andranno. Ma se, al posto loro, arriveranno i mujaheddin, sarà molto peggio. Sono come cani furiosi e fanatici, si azzanneranno tra loro portando alla rovina tutto il Paese”. Purtroppo è andata proprio così. Il doppio fronte di guerra si porterà via più di 60mila militanti laici, democratici e islamici moderati. In Afghanistan qualcuno li chiama ancora “i veri mujaheddin”, contrapponendoli ai jihadi, capi delle fazioni fondamentaliste. È all’interno di queste famiglie di combattenti che sono cresciuti gli uomini e le donne liberi che oggi contrastano i talebani in una impari lotta di resistenza.
Qualche mese prima del nostro incontro con Bul Bul, nella primavera del 1979, molto lontano dalle montagne afghane, negli uffici della Cia stava prendendo piede una nuova idea che sarebbe costata agli americani alcuni miliardi di dollari. Ai primi di marzo di quell’anno, l’agenzia d’intelligence statunitense trasmette le sue segretissime proposte al presidente Jimmy Carter per un sostegno ai ribelli afghani anticomunisti. Il piano rimane a lungo sospeso nell’incertezza. A seguito della rivoluzione khomeinista, gli Usa hanno perso il sostegno dell’Iran e l’idea di rivolgere contro l’Unione sovietica il fondamentalismo agguerrito che si presenta sulla scena afghana sembra allettante.
Le rivolte contro il Governo comunista a Kabul, intanto, diventano sempre più violente e vengono represse nel sangue. Il 3 luglio Carter autorizza l’operazione: la Cia avrebbe appoggiato i ribelli, ma senza l’invio diretto di armi per mettersi al riparo da eventuali rappresaglie russe. “Zbigniew Brzezinski, consigliere per la Sicurezza nazionale, aveva già tracciato le linee di una campagna americana diretta dalla Cia in Afghanistan che sarebbero rimaste in vigore per il decennio successivo”, scrive Steve Coll, all’epoca codirettore del Washington Post. A Natale è già chiaro che i ribelli vanno sostenuti, consigliati e soprattutto armati attraverso il servizio segreto pakistano e il suo governo, altrimenti non sarà possibile fermare i russi. È questa la nuova brillante mossa della Guerra fredda.
Nel gennaio 1998, in un’intervista al settimanale francese Nouvel Observateur, Brzezinski rivela: “Avevo spiegato al presidente che il nostro sostegno avrebbe prodotto un intervento militare russo in Afghanistan. Non abbiamo spinto l’Unione sovietica a intervenire ma abbiamo consapevolmente aumentato le probabilità che lo facessero. È stata un’eccellente idea attirare i russi nella trappola afghana. Il giorno in cui l’Armata rossa ha attraversato la frontiera ho scritto al presidente che avremmo avuto la possibilità di dare alla Russia il loro Vietnam”. Un vero “successo” per gli americani. L’inizio di una catastrofe, per la popolazione afghana, che durerà più di quarant’anni. Alla domanda del giornalista sulla sua responsabilità nell’avere sostenuto il terrorismo islamista Brzezinski risponde: “Che cos’è più importante per la storia del mondo? I talebani o la caduta dell’Impero sovietico? Qualche esaltato islamista o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra fredda?”. L’ipotesi dell’affermazione dell’islamismo integralista e del terrorismo sono sciocchezze, liquida deciso.
In molti hanno seguito la sua strada. Nessuno, nei decenni successivi, ha voluto prendere atto di questo pericolo, nessuno ha voluto fermare gli jihadisti. Anzi, i fondamentalisti islamici si sono confermati le migliori pedine del gioco dell’Occidente in Afghanistan e in altri Paesi. Così sui fanatici e feroci gruppi afghani pioveranno armi, denaro e consigli militari per i prossimi decenni. Il loro Islam fondamentalista e politico, ispirato all’ideologia wahabita saudita, la più estrema, si insinuerà nelle menti e nella vita di milioni di persone, cambiando profondamente la società afghana e soprattutto esiliando sempre di più le donne dalla vita sociale.
Quei warlords, divenuti ormai criminali di guerra, dopo le sanguinose gesta che li avevano visti protagonisti durante il conflitto civile sono rimasti al potere, sostenuti dagli invasori americani, fino all’agosto 2021, quando il Paese è stato consegnato ai loro rivali talebani. Di nuovo, il fondamentalismo islamico, che non è nato tra queste montagne, armato e sostenuto dall’Occidente ha vinto. Quell’idea della Cia, nel lontano 1979, ha fatto strada, mettendo in moto e accompagnando l’orrore. Con le conseguenze che tutti possiamo vedere e pochi vogliono guardare. Un popolo intero è chiuso in gabbia, la miseria uccide la popolazione, la paura fa parte della vita quotidiana di milioni di persone, ne corrode l’anima e la mente, la brutalità e l’ignoranza governano il Paese con leggi ottuse e paranoiche che seppelliscono le donne, ogni giorno il respiro è più corto. Tutto questo, forse, Bul Bul, comandante onesto e coraggioso, non lo aveva previsto.
Pubblicato su Altraeconomia n. 260
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.
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