End gender apartheid: voci di lotta e resistenza dall’Iran e dall’Afghanistan
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12 Ottobre 2024
La voce è suadente, carezzevole e parla inglese. Accompagna con cura le immagini, le culla.
Un gruppetto di talebani, lanciarazzi in spalla, turbante bianco e mascherina chirurgica, che trattiene a stento un’indomabile barba nera, puntano la ‘pistola’ alla fronte dei loro compaesani, per misurare la temperatura. Altri, armati solo della completa tenuta d’emergenza, nuova di zecca, camice, tuta, mascherina e guanti, distribuiscono kit di disinfezione alla popolazione, opuscoli con le regole da seguire, materiale sanitario, eseguono test, mentre in secondo piano passano le ambulanze. La voce, in una surreale atmosfera pacata, elenca lentamente tutto quello che la Commissione Sanità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa e farà, per proteggere la popolazione, casa per casa, villaggio per villaggio.
È uno dei tanti video, prodotti dai talebani, che circolano al tempo del Covid, in Aghanistan. Una nuova veste del gruppo, lontana dalle esposizioni gloriose consuete, sconosciuta per la popolazione. Sono riusciti a stupire, dopo 25 anni.
I migliori mujahiddin- proclamano i talebani-hanno lasciato i campi di battaglia per trasformarsi in personale sanitario. Assicurano i cittadini che il governo dell’Emirato ha la pandemia sotto controllo. I rimpatriati dall’Iran, che si muovono nelle loro province, sono sottoposti a test. Matrimoni, funerali, riunioni sono vietati, compresa la preghiera in moschea. Ognuno preghi Allah per conto suo, mangi cibo halal e vegetali con vitamina C che saranno distribuiti alla popolazione. Incoraggia i credenti, che fanno le abluzioni prima di ognuna delle cinque preghiere giornaliere, ad usare, nell’occasione, anche il sapone. Si vedono uomini di tutte le età, delle donne nemmeno l’ombra, naturalmente, seduti in un cortile, che partecipano a un seminario informativo sul virus, ascoltano seri le raccomandazioni, e intascano mascherine e sapone. Ringraziano compiti. Ringrazia anche il Ministero della Salute, seppure con riserva. I talebani proclamano di garantire un passaggio sicuro nelle province sotto il loro controllo, al personale sanitario governativo e della Croce Rossa e di avere istituito centri per la quarantena dei contagiati.
Questo è il messaggio che deve passare: la Commissione si occupa della popolazione e della lotta comune al Corona virus. E se ne occupa meglio del Governo.
Il virus fornisce ai talebani un ottimo teatro per la propaganda: legittimare se stessi come governanti del paese e delegittimare il Governo di Kabul. Basta solo mostrarsi un po’ meno incompetenti. Non ci vuole molto. La campagna di prevenzione viene lanciata a fine marzo dalla provincia di Jowzjan e Logar e continua la sua strada. Si moltiplicano i video e gli inviti ai meetings. Ma non tutti si lasciano incantare. Una messinscena , dicono alcuni. In realtà del virus non sanno niente, proclamano altri. I mezzi di soccorso sono bloccati sulle strade controllate dai talebani. C’è chi ha verificato sul campo e ha scoperto che il misuratore di temperatura è fatto di legno e plastica. Finto.
“Se vogliono davvero far funzionare la campagna antivirus e salvare le persone, dice Mirwais, abitante del Nangarhar, per prima cosa devono smettere di spararci addosso e aderire al cessate il fuoco.”
Ma qui i talebani non ci sentono. Il cessate il fuoco per superare la crisi, proposto da Governo e Nazioni Unite, è rifiutato dai talebani. La guerriglia continua, almeno contro le forze governative. Gli attentati aumentano, come gli attacchi ai presidi sanitari. Secondo UNAMA, nella prima ondata Covid, dal 11 marzo al 23 maggio 2020, ci sono stati più di 15 attacchi mirati agli operatori sanitari.
Il Ministero ha fatto presente che, in pieno conflitto armato, non è possibile alcun contrasto al virus. Ma i talebani portano avanti la loro doppia immagine, senza scomporsi, terroristi e crocerossini. Fucile e termometro.
Entrambe utili a sfruttare la pandemia per i propri fini. I talebani hanno capacità tecnologiche, dimestichezza con internet e social media, e curano la propria immagine con perizia. Con immagini accattivanti e promesse si conquistano seguaci. Ma anche con l’ordine sociale e amministrativo. Ci tengono a mostrarsi capaci di governare, del resto l’hanno già fatto. E governare meglio di Kabul. A questo aspetto i talebani lavorano da tempo. Lo sanno fare. Sia nei distretti che controllano direttamente sia in quelli in cui gestiscono il potere in una sorta di ‘governo ombra’. Le tasse, le bollette dell’elettricità, le rate scolastiche si pagano ai talebani. Tasse che, spesso, sono vere e proprie estorsioni.
“Ogni distretto è diverso, il potere è distribuito a macchia di leopardo fin nei più piccoli villaggi. Una continua contrattazione. I talebani hanno diverse strategie per gestirlo – dice Narghez di Rawa- Sostanzialmente tre. O controllano direttamente e apertamente il territorio, o c’è la guerra aperta con le autorità governative, o accettano i governatori nominati da Kabul, completamente esautorati, ‘governatori fantasma’, e gli fanno fare quello che vogliono, governando attraverso di loro.”
Purtroppo, l’ordine talebano, con le sue aberranti regole, precise, basate sul Corano e non discutibili, è apprezzato da una parte della popolazione. Maschile, di sicuro. Per le donne è e sarà lo stesso inferno degli anni ’90.
C’è un’ipotesi o meglio una speranza: che un disastro o una calamità naturale possano favorire la pace, tutti uniti contro il comune nemico, smettiamo di ucciderci. Ma è stata quasi sempre delusa. Sono pochissimi nel mondo i casi in cui questa logica ha funzionato. L’Afghanistan non è tra questi.
Qualcosa di buono sembra che il Covid l’abbia fatto. Ha decapitato la dirigenza talebana.
Secondo diverse fonti, Hibatullah Akunzada si è ammalato ed è morto di Covid. Nessuna conferma ufficiale ma il capo talebano non si è più visto e c’è un nuovo leader in ascesa. Una poltrona non di tutto riposo. I talebani sono un movimento composito, con interessi e padroni diversi e contrastanti. Non è facile farsi accettare e tenere insieme le diverse fazioni, due soprattutto: Rete Haqqani , vicina ad al Qaeda e all’Isi (Servizi segreti pakistani), e la shura di Quetta.
Nel maggio 2016, quando l’allora dirigente Mansour, è ucciso da un drone americano, lo scettro passa ad Akunzada, un mullah, uno studioso, esperto di testi sacri, della giustizia islamica, responsabile delle fatwa emanate dal gruppo. Era stato il vice di Mansour insieme a Sirajuddin Haqqani. Una volta al potere, sceglie con cura i suoi luogotenenti: lo stesso Haqqani, comandante della potente rete, e Muhammad Yakoub, giovane figlio del mullah Omar. Entrambe le fazioni sono soddisfatte. Ma ecco che il virus si porta via anche il secondo di Akunzada, Sirajuddin Haqqani. Malato, morto o troppo debole per il comando, non si può dire con certezza ma, anche lui, sembra fuorigioco.
Così il Covid spiana la strada all’ambizioso Yakoub che non vedeva l’ora di emergere. Un documento della Nato lo vede già al comando entro quest’anno. Il giovane leader, capo della Commissione militare talebana, amico del Pakistan, dovrà mantenere il favore dei membri della shura di Quetta, di cui fa parte, e tenere a bada la rete Haqqani.
Finora si è mostrato favorevole agli accordi di pace. Ha al suo fianco mullah Baradar, vicino al padre, negoziatore capo a Doha con gli Usa. Ma le fazioni interne non sono sempre d’accordo. I più radicali, contrari ai colloqui, emigrano verso Daesh. E lui dovrà frenare l’emorragia. L’intensificarsi degli attacchi di questi ultimi mesi, potrebbero servire anche ad accontentare gli estremisti.
Pare che Yakoub possa contare anche sull’appoggio dell’Arabia Saudita, impegnata a contrastare, all’interno della galassia talebana, gli uomini filoiraniani, contrari agli accordi. A sentire le testimonianze, il giovane leader, non sembra ancora molto popolare. Fino al 2015 non era nessuno. Un figlio di papà, insomma, all’ombra del grande carisma del mitico fondatore Omar. Su questa base fa strada. Ha soldi per fidelizzare i seguaci. Entra nella shura di Quetta e diventa capo della Commissione militare di più della metà delle province afghane.
Nell’ambiente dell’intelligence afghana viene descritto come un giovane uomo molto furbo, legittimato dalla famiglia e molto centrato su se stesso. Poco consapevole della realtà afghana, avendo vissuto sempre in Pakistan. Addestrato alla guerriglia da un gruppo terrorista pakistano responsabile di attentati contro obiettivi indiani in Afghanistan e in Kashmir. Sembrerebbe quindi una pedina sicura per il Governo pakistano. Ma nonostante le critiche, non va sottovalutato affatto.
Ha capacità diplomatiche e militari e, poi, Yakoub si occupa di soldi. Tanti. Le finanze talebane sono prospere. Il capitale ammonta circa a un miliardo e 6 di dollari l’anno. E Yakoub si impegna ad espanderlo ulteriormente, nei suoi principali settori: traffico di droga, minerali preziosi, estorsioni e donazioni.
Vedremo se riuscirà a sfuggire al virus e alle numerose insidie del destino di un capo.
Nel frattempo, a Doha, i negoziati in corso tra il governo afgano e i Taliban sono arrivati a un punto di svolta. Se fino ad ora, dal 12 settembre, le discussioni vertevano esclusivamente sulle regole procedurali che costituiscono la base legale dello svolgimento delle future negoziazioni, a inizio dicembre le due parti sono arrivate ad un accordo. Certo, trovare un punto di incontro sulle regole del gioco è stato un passo importante, ma quella che si apre ora è una finestra di discussione su temi pungenti e fonte di grande disaccordo: i diritti delle donne, l’istruzione, un cessate il fuoco permanente. Il 5 gennaio inizia il confronto, sempre a Doha, perché i talebani si sono rifiutati di spostare i colloqui in Afghanistan.
Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa. Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.
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