Kabul, per chi come noi del CISDA vi si reca ogni anno, si presenta sempre allo stesso modo: caotica, polverosa, con un traffico privo di regole, le fogne a cielo aperto, tossicodipendenti a ogni angolo, attraversata da un’umanità ferita, che fatica per fare qualsiasi cosa, che esce di casa la mattina senza sapere se la sera tornerà. Ancora restano dentro la città almeno 3 campi profughi; in quello che abbiamo avuto modo di visitare, che è lì da 12 anni, vivono 7000 persone nelle case di fango o nelle tende, senza acqua né luce, dove decine di bambini malvestiti e senza scarpe giocano nel fango e nelle fogne a cielo aperto.
Persone a cui il governo non ha mai dato alcuna risposta e a cui è stato chiesto di andarsene, senza offrire alcuna alternativa.
Gli attentati sono continui; anche durante la nostra breve permanenza ce ne sono stati due ai danni della comunità hazara, che stava festeggiando il Nawroz. Anche festeggiare il capodanno, in Afghanistan, è diventato un atto rivoluzionario, che talebani, Daesh e altri gruppi di terroristi ritengono sia giusto punire con le bombe.
E gli attentati producono molte più vittime civili di quante il governo normalmente dichiari pubblicamente, anche grazie a media completamente asserviti: il numero viene solitamente diviso per quattro, per far apparire la situazione del paese meno grave di quanto sia, per far credere che tutto sta andando in direzione di una risoluzione pacifica.
E vengono nascoste anche le perdite delle truppe afghane, che hanno raggiunto, in questo colpevole silenzio, il numero di 45.000 soltanto nello scorso anno.
A Kabul, prima dei quarant’anni di guerre che l’hanno attraversata, abitavano un milione e mezzo di persone, ora gli abitanti sono sette milioni. Scappano dai combattimenti che non cessano in ogni provincia del paese, cercano qualcosa da fare per sfamare la famiglia, un riparo.
È stato un inverno gelido, che non è ancora finito – dal fango che ricopre le strade emergono ancora mucchi di neve ghiacciati e la temperatura notturna scende alcuni gradi sotto lo zero – e le persone prive di mezzi (la gran parte) hanno bruciato qualsiasi cosa per scaldarsi, rendendo l’aria ancora più irrespirabile del solito.
Il nostro viaggio di solidarietà comincia con una visita all’orfanotrofio di AFCECO, che ha deciso di dare a 25 nuovi bambini e bambine che provengono da contesti di estrema povertà, violenza e da ogni parte del paese la possibilità di crescere in un ambiente sicuro, in cui l’istruzione e la salute siano messe al primo posto, dove si lavora per superare le divisioni etniche e linguistiche. Le bambine e le ragazze provano un attan, il ballo tradizionale afghano, nei loro costumi colorati; molte delle nuove arrivate sono prese dalla danza, mentre alcune, più timide, osservano in disparte. Tutte aspettano il rientro delle ragazze di Zohra, la prima orchestra afghana tutta femminile formatasi proprio all’orfanotrofio Mehan, in Svezia e Inghilterra per un tour di concerti.