Dove sono le donne afghane?
25 Novembre 2024
Kabul, per chi come noi del CISDA vi si reca ogni anno, si presenta sempre allo stesso modo: caotica, polverosa, con un traffico privo di regole, le fogne a cielo aperto, tossicodipendenti a ogni angolo, attraversata da un’umanità ferita, che fatica per fare qualsiasi cosa, che esce di casa la mattina senza sapere se la sera tornerà. Ancora restano dentro la città almeno 3 campi profughi; in quello che abbiamo avuto modo di visitare, che è lì da 12 anni, vivono 7000 persone nelle case di fango o nelle tende, senza acqua né luce, dove decine di bambini malvestiti e senza scarpe giocano nel fango e nelle fogne a cielo aperto.
Persone a cui il governo non ha mai dato alcuna risposta e a cui è stato chiesto di andarsene, senza offrire alcuna alternativa.
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ToggleGli attentati sono continui; anche durante la nostra breve permanenza ce ne sono stati due ai danni della comunità hazara, che stava festeggiando il Nawroz. Anche festeggiare il capodanno, in Afghanistan, è diventato un atto rivoluzionario, che talebani, Daesh e altri gruppi di terroristi ritengono sia giusto punire con le bombe.
E gli attentati producono molte più vittime civili di quante il governo normalmente dichiari pubblicamente, anche grazie a media completamente asserviti: il numero viene solitamente diviso per quattro, per far apparire la situazione del paese meno grave di quanto sia, per far credere che tutto sta andando in direzione di una risoluzione pacifica.
E vengono nascoste anche le perdite delle truppe afghane, che hanno raggiunto, in questo colpevole silenzio, il numero di 45.000 soltanto nello scorso anno.
A Kabul, prima dei quarant’anni di guerre che l’hanno attraversata, abitavano un milione e mezzo di persone, ora gli abitanti sono sette milioni. Scappano dai combattimenti che non cessano in ogni provincia del paese, cercano qualcosa da fare per sfamare la famiglia, un riparo.
È stato un inverno gelido, che non è ancora finito – dal fango che ricopre le strade emergono ancora mucchi di neve ghiacciati e la temperatura notturna scende alcuni gradi sotto lo zero – e le persone prive di mezzi (la gran parte) hanno bruciato qualsiasi cosa per scaldarsi, rendendo l’aria ancora più irrespirabile del solito.
Il nostro viaggio di solidarietà comincia con una visita all’orfanotrofio di AFCECO, che ha deciso di dare a 25 nuovi bambini e bambine che provengono da contesti di estrema povertà, violenza e da ogni parte del paese la possibilità di crescere in un ambiente sicuro, in cui l’istruzione e la salute siano messe al primo posto, dove si lavora per superare le divisioni etniche e linguistiche. Le bambine e le ragazze provano un attan, il ballo tradizionale afghano, nei loro costumi colorati; molte delle nuove arrivate sono prese dalla danza, mentre alcune, più timide, osservano in disparte. Tutte aspettano il rientro delle ragazze di Zohra, la prima orchestra afghana tutta femminile formatasi proprio all’orfanotrofio Mehan, in Svezia e Inghilterra per un tour di concerti.
La situazione politica è ben diversa da come viene dipinta dai nostri media, ce la raccontano tutti i nostri interlocutori e interlocutrici: Malalai Joya, Bilquis Roshan, una senatrice di Farah che è stata eletta nelle due precedenti elezioni e che ha avuto una valanga di voti anche nella tornata elettorale dello scorso ottobre, le compagne di Rawa, Selay Ghaffar insieme ai compagni e alle compagne di Hambastagi.
Le elezioni parlamentari dello scorso ottobre non hanno portato a nulla: si sono tenute come sempre all’insegna dei brogli e dei ricatti, in un paese in guerra permanente e occupato dagli USA da quasi vent’anni, e in 15 provincie (l’equivalente delle nostre regioni) non sono stati in grado di nominare gli eletti, con il risultato che il nuovo parlamento, che doveva aprire i lavori il 12 marzo, non verrà varato. E il vecchio parlamento non è più in carica. Un buco legislativo di mesi, considerando che vorrebbero ripetere le elezioni parlamentari a luglio, quando gli afghani dovrebbero tornare alle urne per eleggere il nuovo presidente.
“Il problema”, ci dice Bilquis, “è che i governi occidentali in Afghanistan non hanno mai voluto né un governo né un parlamento forti e indipendenti e hanno interesse a mantenere il paese instabile, per poter continuare a fare i loro interessi, con la scusa della sicurezza”.
Infatti, più o meno dietro le quinte, gli USA continuano a tirare le fila dei loro burattini e presto decideranno chi sarà il nuovo presidente, che dovrà essere, naturalmente, asservito ai loro voleri… Gli USA, ci dicono tutti, hanno creato un governo mafioso e servo, grazie a cui riescono controllare un territorio per loro fondamentale dal punto di vista strategico e per le sue risorse minerarie.
Nessuno, nel paese, prende sul serio le “trattative di pace” con talebani, che non sono un gruppo monolitico come un tempo, ma divisi per bande: tra queste, c’è chi tratta con gli USA, chi con i russi, chi con gli iraniani, chi con il Pakistan, chi con la Cina. I sauditi hanno avviato dei progetti milionari a Farah e a Herat; un modo per tenere sotto controllo da vicino l’Iran, loro nemico giurato. Un altro tassello di questo scacchiere di guerra senza fine.
“Le trattative con i talebani sono una situazione ancora più pericolosa della guerra”, ci dice Malalai, ancora costretta in clandestinità, “perché potrebbe portare a nuove guerre civili; inoltre sull’altare della cosiddetta ‘pace’ verranno sacrificati i diritti umani e i diritti delle donne, in maniera legale. Una falsa pace senza giustizia, che non porterà ad alcun esito positivo”.
Con Hambastagi abbiamo partecipato a un evento di piazza per commemorare Farkhunda, barbaramente uccisa 4 anni fa davanti a una moschea nel centro di Kabul con l’accusa falsa di aver bruciato una copia del Corano. La partecipazione è alta, anche se la polizia, con il pretesto della sicurezza, impedisce a molti accedere alla zona in cui si svolge l’evento.
Abbiamo parlato con Najla Rahil, l’avvocata di Farkhunda che fa parte dell’associazione indipendente degli avvocati afghani. Il caso in questo momento è stato chiuso con la condanna a soli 16 anni di due persone, che non sono le principali responsabili dell’omicidio; a quanto pare, i 3 veri responsabili sono stati liberati, altri sono scappati. Najla ha chiesto un processo di appello, che difficilmente verrà concesso. Il processo sarà riaperto solo se verranno catturati i fuggiaschi, ma le speranze non sono molte.
Hambastagi ha ora 43.000 iscritti in tutte le provincie del paese, un numero davvero considerevole, se si pensa alle condizioni in cui sono costretti a lavorare: hanno un comitato politico, uno organizzativo, una commissione donne (a cui partecipano i maschi, anche se le donne tengono per sé degli spazi autonomi), una commissione di insegnanti. A ciascuno è chiesto di contribuire economicamente alla vita del partito e ciascuno deve mettersi al servizio della sua comunità, nell’ambito delle sue competenze; insegnanti, medici, architetti, fotografi, musicisti, ingegneri… tutti devono impegnarsi nel lavoro di base.
Parlano di voler fare una rivoluzione, specificando che per loro non significa rivoluzione armata “perché”, dicono, “la gente è stanca di guerra”. Rivoluzione per loro è usare un linguaggio diretto, che definisca i criminali di guerra, i corrotti, i trafficanti di droga per quello che sono e non persone “che hanno fatto degli errori”. Rivoluzione è anche portare scuole, cultura, consapevolezza politica tra le persone, per potersi unire all’opposizione nel paese. Rivoluzione è denuncia dei crimini e dell’occupazione, che fanno puntualmente con le loro iniziative pubbliche.
Selay Ghaffar, la portavoce, che spesso viene chiamata in televisione per confrontarsi con i peggiori figuri del paese, è seguitissima e molto amata; dopo l’evento per Farkhunda aveva 10 giornalisti intorno a sé e la sera è stata chiamata a fare delle dichiarazioni in una trasmissione. La sua vita è difficile, e le misure di sicurezza intorno a lei sono strettissime, ma ha deciso che vale la pena rischiare anche la vita per poter cambiare le cose e certamente non si lascerà intimidire dalle minacce.
Il nostro viaggio si chiude in un villaggio nel sud est del paese, dove, grazie alla volontà dei capi tribù locali e alla solidarietà internazionale stanno arrivando famiglie da diverse provincie per trovare un luogo in cui vivere, dove è sorta una scuola per 150 bambini e 40 donne che si stanno alfabetizzando e dove abbiamo posto la prima pietra per una clinica che offrirà assistenza sanitaria gratuita e parti sicuri per le donne.
La dimostrazione tangibile di come con poco sia possibile fare molto.
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