LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE TRA STORIE, DIRITTI E CULTURE
4 Ottobre 2024
Report della delegazione che è andata in Kurdistan dall’8 al 14 marzo 2015.
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ToggleMuharram Erbey: avvocato, ha fatto parte di una associazione per i diritti umani, è ora candidato dell’HDP.
Nel 2009 Erbey viene arrestato dal governo turco secondo la legge anti-terrorismo con l’accusa di far parte dell’Unione delle Comunità Kurde (KCK), un fronte del PKK. Erbey resta in carcere per quattro anni e mezzo, prima di essere liberato, nell’aprile 2014.
Erbey ci accoglie nella sua casa a Diyarbakir, città natale. Durante gli studi in legge a Istanbul, negli anni ’90, Erbey entra a far parte del partito di opposizione e comincia ad avvicinarsi alla cultura e lingua curda. Viene arrestato e torturato per una settimana – in quanto appartenente ai movimenti di opposizione.
Inizia a lavorare come avvocato nel 1996, ma nel ’98 viene nuovamente arrestato con l’accusa di aver partecipato all’organizzazione del Newroz, il capodanno curdo. Nel 2000 inizia a collaborare con l’Associazione per i Diritti Umani (IHD), diventando vice presidente della stessa nel 2007. Da sempre sotto sorveglianza del governo, Erbey e l’IHD si occupano di diritti umani delle fasce più discriminate dal governo turco, in particolare dei diritti del popolo curdo. L’IHD si offre come mediatore tra il popolo curdo e l’allora primo ministro, nella speranza di avviare dei processi di pace tra le due parti. Erbey si occupa inoltre dei desaparecidos, le migliaia di prigionieri politici e attivisti arrestati e fatti scomparire dal governo turco. Tra le attività dell’IHD, oltre al sostegno legale alle Saturday Mothers, il comitato di donne, madri e parenti degli scomparsi (che la seconda delegazione incontrerà il 15 marzo a Istanbul), vi è il riconoscimento dei resti emersi con il ritrovamento delle numerose fosse comuni. Erbey denuncia la pratica delle autorità turche ma anche curde, lo sperpero di denaro per le spese militari e il sempre più grande divario tra la classe politica e il popolo. Erbey diventa dunque un personaggio scomodo per il governo, che spia e monitora ogni suo spostamento.
Il 24 dicembre 2009 Erbey viene arrestato con l’accusa di far parte del PKK. Tuttavia, ci spiega, lui non è mai stato sostenitore della lotta armata, tanto da non aver mai impugnato un’arma. Davanti ai giudici, Erbey dichiara di non aver mai alzato la voce con nessuno, tantomeno un’arma da fuoco.
Venne accusato di lavorare per l’IHD, ritenuta un’associazione affiliata al KJK, ma nessuna prova tangibile è mai stata trovata. Insieme a lui vengono arrestate altre 10.000 persone.
Erbey rimane in carcere per 4 anni e mezzo, dopo quella che lui definisce un’operazione fascista a scopo intimidatorio.
Erbey parla degli anni in carcere come di una seconda rinascita: legge centinaia di libri, dedica le lunghe giornate in cella allo studio delle dinamiche sociali; scrive articoli e pubblica un romanzo (The tower of sinners trd.). Viene liberato nell’aprile 2014, e riprende subito la sua attività di avvocato per i diritti umani e attivista a Diyarbakir.
Erbey si è inoltre candidato per le prossime elezioni parlamentari di giugno 2015, con il partito HDP. Erbey è fiducioso e pensa che l’HDP non avrà problemi a raggiungere la soglia di sbarramento alle prossime elezioni.
In merito al recente assedio di Kobane, Erbey sottolinea la storica resistenza del popolo curdo – e in particolare, delle donne curde – che hanno saputo far fronte ai brutali attacchi delle forze ISIS, tra le quali, denuncia Erbey, vi sono moltissimi combattenti turchi. E mentre l’Iraq e la Siria, incoraggiati a unirsi alla resistenza del popolo curdo, si sono tirati indietro, le donne curde non hanno esitato a farsi avanti. Il mondo si è finalmente accorto della battaglia dei curdi e delle varie minoranze etniche-religione per la libertà e per il riconoscimento dei loro diritti nel territorio turco e siriano. Continua Erbey: “Questo è esattamente il progetto di Ocalan, in forte contrasto con il piano mono-culturale del partito di Erdogan, AKP, principale sostenitore dell’ISIS. Erdogan era convinto che la resistenza curda ne sarebbe uscita sconfitta, ma si è dovuto ricredere. Tuttavia, dinnanzi alle condizioni avanzate da Ocalan nei negoziati di pace, il governo turco continua a rifiutare ogni soluzione pacifica”. Erbey sottolinea come nei dieci punti proposti da Ocalan non ci sia alcuna richiesta di privilegi per il popolo curdo, ma semmai il riconoscimento dei diritti umani di questo popolo e di tutte le minoranze presenti nel territorio turco.
Conclude Erbey: “Ho fiducia in questo processo di transizione democratica. Non ho mai ritenuto la guerra una soluzione valida. Se oggi siamo in grado di pronunciare la parola ‘curdo’ senza essere arrestati, è grazie alla battaglia di Ocalan, che ha saputo porre le basi per un dialogo democratico con il governo turco, da sempre contrario ad ogni soluzione pacifica della questione”.
Passiamo da un check point della polizia turca, che presidia la zona, ma appena si entra nella piazza la presenza della polizia non viene più percepita e lascia il posto ai volti di migliaia di donne festanti, colorate, sorridenti e danzanti.
Per noi è il primo giorno di visita e ci sentiamo molto bene accolte da tutte: baci, danze, segni di vittoria, sorrisi. Ai comizi si alternano momenti di musica e danze.
Le donne della prima delegazione ci raccontano che la marcia dei giorni precedenti è stata molto emozionante perché a ridosso del confine con la Siria, dove le donne del Rojava, dall’altra parte del filo spinato, potevano vedere e salutare le donne che si trovavano nel territorio turco.
Abbiamo parlato con due avvocate e due attivisti per i diritti umani che lavorano soprattutto sui casi di violenza nei confronti delle donne.
L’associazione è nata nel 1988; nel 1996 è arrivata ad Ankara e ora hanno 28 uffici nel paese.
Istruiscono una pratica quando una donna denuncia violenza. Iniziano indagando sul caso che poi seguono anche in tribunale. Cercano di istituire commissioni per far pressione sulle autorità, affinché vengano implementate misure contro la violenza sulle donne. Organizzazione: hanno donne che si occupano di violenza, si occupano dei bambini, cercano gli avvocati, danno supporto psicologico alle donne che si rivolgono a loro e lavorano anche con altre organizzazioni.
Lavorano anche con un’associazione nazionale di avvocati e con le autorità locali (nella fattispecie il comune).
Accompagnano le donne in tribunale e fanno in modo che la procedura legale sia condotta nel modo corretto perché spesso è viziata da scorrettezze.- Gli uomini spesso dichiarano che le loro reazioni violente siano state provocate dalle donne (per esempio, se la donna aveva vestiti attillati). In questi casi, se il giudice decide che l’uomo ha ragione, sentenze di 20 anni possono essere portate a 2 anni.
– La sentenza può essere ridotta anche per buona condotta dell’uomo nel processo. Fino al 2005 la legge sanciva che se lo stupratore era disposto a sposare la donna che aveva stuprato veniva prosciolto. Ora la legge è cambiata. Quando in parlamento si discutono leggi sulla violenza contro le donne Insan Haklari Dernegi fa lobbying presso le istituzioni. In Turchia le autorità stanno prescrivendo alle donne di vestirsi in modo casto.
Il precedente primo ministro ha detto che uomini e donne non dovrebbero vivere insieme se non sposati e ha chiesto che nelle scuole le classi siano divise tra maschi e femmine. Chi vive insieme viene multato. Queste prescrizioni non vengono tramutate in legge ma questi comportamenti vengono considerati immorali e sanzionati. Insan ha fatto il possibile per cambiare questa sorta di apartheid sessuale. La separazione nelle scuole non è ancora operativa ma è in discussione e il governo vorrebbe tramutarla in legge.
Per essere presenti ai processi per violenza contro le donne devono chiedere un permesso a dispetto di due leggi che consentirebbero la loro presenza, una locale e una internazionale (la convenzione di Istanbul). Le violenze sulle donne sono anche fomentate a livello istituzionale; nella società è aumentata la percezione sul fatto che le donne non sono uguali agli uomini. C’è una situazione di odio contro le donne. Ci danno qualche informazione sui dati: ultimi mesi del 2014 nel Kurdistan
Sono numeri che hanno messo insieme dai loro dati e da quelli di altre associazioni che se ne occupano e con cui lavorano e dai media. In tutta la Turchia
Da parte delle forze di sicurezza:
Donne esposte a violenza domestica
Nella loro comunità: 9 morte, 8 ferite, 6 stuprate, 6 esposte a violenza domestica 25 donne si sono suicidate e 4 hanno cercato di farlo.
Morte in Kurdistan
La situazione in Turchia è peggiorata del 100% da quando c’è il governo ora in carica; tutto ciò che fa il governo peggiora la situazione delle donne. Di fatto i numeri sono molto peggiori perché il 90% delle donne non ha il coraggio di denunciare, soprattutto per vergogna; molti sono i casi di suicidio. Insan organizza dei seminari per far acquisire alle donne consapevolezza e indirizzarle ad altre organizzazioni che le possono aiutare. Insan lavora anche con le prigioniere politiche per fare in modo che non vengano abusate in prigione, ci sono stati molti casi. Non sa quante prigioniere politiche siano in carcere; a Diyarbakir hanno 151 casi.
Xagi ci dice che sono 40 anni che il popolo curdo lotta e fino agli anni ‘90 non è stato possibile fare politica se non con la guerriglia, sulle montagne, dove si formò una fazione di donne legata al partito (ndr: PKK).
Il Free women’s movement è nato nel 2003, nelle zone curde lavora con l’HDP ma anche con l’HDK: chi anima il movimento sono le donne curde della Turchia, ma lavorano anche con altre donne. Vogliono:
Gestiscono case per le donne maltrattate. In Turchia la violenza nei confronti delle donne è molto diffusa e molte situazioni di violenza vengono accettate dalla società: sono comuni i delitti d’onore e i matrimoni forzati.
Nelle zone curde le donne hanno avuto più possibilità di emanciparsi e la situazione è migliore. Le donne curde si sposano molto giovani, ma nell’ovest del paese c’è più violenza. Vorrebbero coalizzarsi con realtà femministe nei paesi di tutto il mondo. Hanno organizzato un congresso con tante organizzazioni e vogliono creare una coalizione. Kobane ha cambiato molto la percezione della situazione curda, in Rojava c’è un processo di democratizzazione che dura da tre anni, ma in tutto il Kurdistan la riconquista di Kobane ha dato una forte spinta ai movimenti.
Campo profughi Yazidi a Diyarbakir incontriamo Muzeyyen (coordinatrice del campo) e Yelit (giovane organizzatrice del campo con padre guerrigliero del PKK ucciso). Nel campo, che appare molto accogliente e bene organizzato, ci sono i profughi yazidi di Shengal (Iraq) cui l’Isis ad agosto 2014 ha devastato e saccheggiato i villaggi e rapito molte donne e bambini. Muzeyyen e Yelit ci parlano di alcune famiglie che non possiamo vedere; una di loro ha avuto tutte le figlie la madre rapite dall’Isis e anche alcuni bambini di altre famiglie hanno fatto la stessa fine. Non è possibile parlare con i bambini, molti sono traumatizzati e non vogliono raccontare nulla. Sono venuti molti giornalisti europei, e questi profughi avevano sperato che raccontando le loro storie sarebbero stati aiutati ad andare in Europa. Non è andata così e ora sono più restii a parlare. Muzeyyen è stata qui per sette mesi, è venuta soprattutto per aiutare le donne; è un’attivista per i diritti delle donne da molto tempo. I primi quattro mesi sono stati difficili perché hanno dovuto far fronte a molti problemi: tecnici, logistici, economici, psicologici. Ora le cose vanno molto meglio. Il campo è abbastanza lontano dalla città e ha reso complicato il trasporto delle persone. Tutti i finanziamenti per il campo vengono da 5 amministrazioni locali (curde), in particolare quella di Diyarbakir, che mandano dottori, sicurezza, psicologi pagati; il governo centrale non ha mandato grandi aiuti. I volontari vengono da ogni parte e cambiano continuamente. Questo campo esiste dal 26 agosto 2014 e all’inizio c’erano 7800 persone che nei primi tempi dormivano anche sotto gli alberi. Poi, con l’arrivo dell’inverno, molte persone sono state spostate in campi più piccoli in zone limitrofe; al momento ci sono circa 3580 persone.
Hanno un ambulatorio e una lavanderia, c’è distribuzione di cibo e da un mese e mezzo le famiglie possono cucinare da sé con un fornello dato in dotazione a ciascuna famiglia e per loro è molto meglio.
Ci sono circa 11 persone per famiglia e ogni famiglia ha due tende; c’è l’acqua e ogni tenda ha l’elettricità. Nel campo c’è la scuola per i bambini. Alcune volte i bambini vengono portati in città per svolgere altre attività. Dopo i primi quattro mesi occorsi per organizzare il campo hanno iniziato a stabilire una relazione con le donne, ascoltando le loro storie; sono stati organizzati 5 punti di incontro e ascolto; le donne avevano paura di parlare perché i loro uomini non volevano che prendessero parte agli incontri. Via via si sono accorte che la loro oppressione veniva più da una società patriarcale che dalla religione. Per aumentare la partecipazione delle donne, le operatrici del campo hanno deciso di cambiare la strategia e sono andate a parlare direttamente con i capi tribù per dire che le donne avevano bisogno di parlare per superare i traumi e dovevano essere autorizzate a partecipare agli incontri, che duravano 4 ore al giorno. Hanno ottenuto un buon risultato e quest’anno, la prima volta, le donne yazide hanno celebrato l’8 marzo; per loro è stata una specie di rivoluzione. Sono stati organizzati per loro un cinema all’aperto e uno spettacolo teatrale. In Rojava la resistenza delle donne è stata il risultato di 40 anni di lotte, ma gli yazidi non hanno la stessa storia. Le operatrici hanno spiegato alle donne di essere soggetti portatori di diritti e insegnato loro a opporsi agli islamisti. Alcune donne, soprattutto le più anziane, hanno capito e dicevano alle altre che dovevano sollevarsi contro il sistema patriarcale e chiedere i loro diritti sia agli uomini sia allo stato. Questi profughi non vogliono tornare a Shengal e non vogliono rimanere in Turchia perché non si fidano del governo turco. Vorrebbero andare in Europa perché pensano che i governi della regione non li aiuteranno.
Durante la conversazione ci dicono che stanno arrivando dei giornalisti e vediamo del movimento nel campo: una specie di corteo fatto soprattutto da bambini, con tanto di striscioni. Decidiamo di seguirli.
Nel punto di raccolta ci sono circa 2000 persone e diversi giornalisti e fotografi. Scopriamo il motivo della protesta: una famiglia che sperava di recuperare il suo bambino rapito dall’Isis è stata costretta a cucinare il suo corpicino e a mangiarlo. Fatichiamo a crederlo, una barbarie che supera qualsiasi più orrida fantasia.
Le sue figlie sono state portate via dall’Isis e minacciate di essere sgozzate. Le hanno date a dei leader e hanno detto ai familiari che se le volevano indietro dovevano pagare 4 milioni di dollari. Hanno preso tutti i loro beni e distrutto la casa. Una delle ragazze aveva un cellulare ed è riuscita a chiamare la famiglia, ha detto che erano state comprate da un leader, messe a dormire su un pavimento e che avrebbe preferito morire piuttosto che essere lì (ndr: i volontari che ci traducevano hanno detto che essendo la madre non era stata informata precisamente di tutta la storia). Poi hanno separato le ragazze tra loro, portate in posti diversi; in qualche caso qualcuna di loro è riuscita a chiamare la famiglia. Nessuna di loro è tornata. Sembra che per 2 di loro ci sia stata la possibilità di scappare, per intervento di qualcuno che conoscevano, ma le ragazze avevano paura di essere scoperte e uccise. Non sapevano più chi fosse amico o nemico e avevano molta paura. L’onore delle sue figlie è più importante di ciò che aveva di materiale. Chiediamo se l’Isis ha usato violenza nei loro confronti.
La donna con cui parliamo non lo sa, crede che siano vicino a Mosul, non sa che cosa è successo veramente, non sa come siano state trattate né se sono state forzate al matrimonio. Non ha notizie precise sulla loro sorte. Vorrebbe un intervento delle nazioni per cercare di salvare le sue figlie. Una delle sue figlie aveva 27 anni, si era sposata da poco una aveva 4 bambini che sono stati rapiti insieme a lei.
Andiamo a visitare la Casa delle Donne di Diyarbakir, dove quotidianamente si tengono lezioni per le donne del campo profughi degli yazidi. Arriviamo verso sera, e la casa purtroppo è vuota. Si trova in una stradina del centro storico di Dyarbakir; un luogo che sentiamo subito molto accogliente, il cortiletto con la fontana, una piccola cucina, scale e scalette che vanno verso le stanze per le riunioni, le aule e la biblioteca.
Ci spiegano che, come la casa delle donne di Milano, la loro casa è sostenuta dalle tessere e dalle donazioni volontarie delle socie.
Nel tardo pomeriggio partiamo per Urfa, la città a 50 km dal confine dove pernotteremo.
Evrim (Women’s for peace initiative di Istanbul, coordinatrice del centro culturale che gestisce gli aiuti ai profughi e a Kobane)
Al centro culturale di Suruc ci accoglie Evrim, giovane volontaria della Women’s for Peace initiative di Istanbul che con altri e altre giovani organizza gli aiuti per gli sfollati nei campi gestiti dalla municipalità. Ci dà un rapporto con i dati degli sfollati accolti al momento nei campi. Dopo la liberazione di Kobane molti sfollati vogliono rientrare e i numeri cambiano di giorno in giorno. Tutti coloro con cui parliamo si mostrano preoccupati per il rientro degli sfollati perché Kobane è distrutta all’80 per cento, non c’è acqua né elettricità e nelle strade ci sono ancora molti cadaveri che potrebbero portare a un’epidemia.
Nel centro incontriamo anche Fayza, che fa parte del Consiglio legislativo di Kobane. Ci viene incontro, si presenta e ci racconta. “La guerra in corso a Kobane non è la nostra guerra ma una guerra contro il terrorismo ; tutti i democratici e tutti coloro che dichiarano di essere contro l’Isis dovrebbero essere al nostro fianco o dovrebbero sostenerci. Anche tutte le donne militanti loro dovrebbero essere qua perché le donne curde stanno combattendo il più grande nemico delle donne. I fanatici dell’Isis vogliono riportarci indietro di 1500 anni. Noi donne curde del Rojava abbiamo conquistato un ruolo importante in tutti gli aspetti della vita, da quella militare a quella politica a quella sociale. Nella nostra zona stiamo cercando di applicare un modello democratico, abbiamo creato dei cantoni e in questi viviamo secondo principi democratici. Tutti gli abitanti dei nostri cantoni condividono questo modello di gestione siano essi curdi, cristiani o arabi. Come donne stiamo conquistando i nostri diritti e gli incarichi politici e amministrativi sono ripartiti equamente fra uomini e donne ed è la prima volta che si verifica una cosa del genere: uomini e donne stanno testando insieme un novo modello di governo , basato sulle elezioni dal basso di consigli locali e di una assemblea legislativa.
Le decisioni vengono prese a maggioranza con il metodo dell’assemblea e dentro le comunità la libertà di associazione è incentivata, per rendere la rappresentanza più ampia possibile. In questo modello di gestione sono previsti dei partiti politici e l’autorganizzazione, in modo che le decisioni vengano prese il più possibile in autonomia. Le donne sono organizzate in associazioni all’interno delle quali vengono fatte le proposte e prese decisioni che le riguardano; questa modalità decisionale si applica in tutti gli ambiti e nei tre cantoni.
Nel cantone di Cizre vivono circa 2 milioni e mezzo di persone, in quello di Kobane 500.000 e in quello di Afrin 1.300.00. Il nostro modello di autogoverno è applicato in tutti e tre i cantoni. Ora siamo divisi perché l’Isis ha ridotto le nostre possibilità di comunicare tra noi; se non fosse stato per l’Isis sarebbe un unico territorio e non ci sarebbe questa divisione, siamo stati costretti a farla. Stiamo cercando di mettere in pratica l’autogoverno anche nei campi profughi, sebbene il governo turco si opponga. Nei nostri campi autogestiti impariamo la nostra lingua abbiamo istituito consigli e case delle donne, abbiamo le nostre scuole. Anche la vita nei campi in ogni suo aspetto politico e sociale è gestita secondo i principi del nostro modello democratico; ogni campo elegge un’assemblea e dei rappresentanti. A Kobane ero una delle rappresentanti del consiglio legislativo e ogni decisione veniva pres a all’interno del consiglio. A causa della guerra questo meccanismo si è interrotto ma appena possibile lo riavvieremo. Al momento le truppe di autodifesa curde stanno proseguendo su due fronti allo scopo di ripristinare la continuità territoriale e permettere a questo modello chiamato con federalismo democratico di fortificarsi. La nostra gente è dovuta scappare non ha più una casa e abbiamo costruito i campi e c’è moltissimo lavoro da fare, per questo sono qui. A Kobane la situazione è differente, lì si combatte per portare avanti una battaglia sul piano politico, militare e culturale.
Entriamo nel Municipio di Suruc e ci fanno accomodare nel suo ufficio: Zuhal è andata al funerale di un martire e poi in ospedale, a visitare dei feriti. Kobane è liberata ma si combatte ancora in 300 villaggi. Ha 34 anni, sette tra fratelli e sorelle e anni di militanza nel BDP (il partito curdo in Turchia) alle spalle. È stata eletta un anno fa, insieme a un uomo. Anche a Suruc, cittadina confinante con il Rojava, si applicano le regole del patto sociale che vuole un uomo e una donna nei posti chiave delle amministrazioni. In Turchia è un problema, perché questo sistema elettorale è in contrasto con le leggi, ma in una città completamente curda riescono a gestirlo. Ci dice che è difficile affermare il potere delle donne, ora ha solo 5 donne che lavorano nella municipalità e sta insistendo per assumerne altre.
Ci chiede di chiamare “sfollati” e non profughi le persone che sono arrivate a Suruc da Kobane perché, dice, sono la nostra gente, spesso si tratta delle stesse famiglie.
Il comune ha organizzato delle cucine per gli sfollati che ricevono due pasti caldi al giorno e hanno una panetteria. Molti degli sfollati sono stati ospitati nelle case dei villaggi vicino. Il BDP ha organizzato un’unità di crisi insieme alla gente di Kobane.
Gli aiuti arrivano sia da volontari turchi che europei. Il governo turco dice di aver aiutato 200.000 sfollati ma nel campo allestito dal governo, che ha una capacità di 45.000 persone, ci sono solo 15.000 sfollati. Hanno organizzato scuole e case delle donne anche nei campi e i medici e gli insegnanti hanno continui incontri con gli sfollati.
Cya ha 27 anno ed è un’insegnante di Diyarbakir; è a Suruc da sei mesi ed era andata per fermarsi una settimana. Ci racconta come organizzano il lavoro per gli sfollati, hanno bisogno di molte cose (farmaci, cibo, soldi per fare gli acquisti).
Molta gente è traumatizzata e stanno cercando di affrontare anche la situazione dal punto di vista psicologico. Ci racconta dei profughi che stanno rientrando, e ci dice che finora gli unici aiuti ricevuti sono arrivati dalla rete informale. Sua sorella era una combattente, ha perso la vita a 21 anni e combatteva da tre anni; gli attacchi dell’Isis sono cominciati molto prima di quando sono uscite le notizie sui giornali. Le chiediamo se lei andrebbe a combattere e risponde che lo farebbe senza esitare se fosse necessario ma che la loro guerra non è solo sul campo e ogni contributo è necessario. Quella che fanno è una battaglia necessaria non solo militare, ma politica e culturale.
È uno dei sei campi gestito dalla municipalità di Suruc; uno spazio dentro la città, molto prossimo al magazzino di cui Cya è responsabile. Nel momento in cui lo visitiamo è abitato da 900 persone di cui 474 bambini e ragazzi fino ai 17 anni. Appena entriamo veniamo accolti da molti bambini che appaiono sereni, nonostante i traumi sicuramente subiti durante i bombardamenti di Kobane. Il campo è bene organizzato, ogni fila di tende ha un suo responsabile, eletto dagli altri abitanti, c’è la scuola, dove si insegna in lingua curda; le tende hanno l’elettricità e la distribuzione di pasti caldi avviene due volte al giorno. Mentre siamo lì i volontari stanno smontando alcune tende, che serviranno agli sfollati che stanno rientrando a Kobane.
Tentiamo di entrare a Kobane, la situazione dei permessi è confusa e pare che alla frontiera le autorità turche fermino persone e camion di aiuti. Ci dicono che a volte i camion di aiuti vengono sequestrati dai turchi. Mem, uno dei volontari del centro culturale, ci accompagna a Misentere, un villaggio di case di fango quasi a un paio di chilometri dal confine con Kobane. Questo villaggio, come i tanti appoggiati sul confine con la Siria, ha fornito aiuto e appoggio logistico a coloro che scappavano dalla guerra e accoglie 12 famiglie di Kobane. A Misentere è stato costruito un memoriale per i martiri ed è stata aperta una biblioteca a disposizione di tutti gli abitanti del villaggio. Il pomeriggio, dopo molte insistenze, riusciamo a farci accompagnare al confine; tentiamo di passare, chiedendo il permesso alla polizia di frontiera turca, ma ci viene negato. Kobane è subito il posto di frontiera e ciò che appare oltre le reti ci dà la misura della distruzione. Oltre l’80 per cento della città è in briciole, non c’è elettricità, non c’è acqua e i miliziani Isis sono scappati lasciandosi dietro migliaia di mine e bombe inesplose. La città è ancora piena di cadaveri non rimossi, cosa che crea il rischio di gravi epidemie.
Decidiamo di provare a visitare il campo profughi gestito da AFAD, organizzazione umanitaria del governo turco. Un’enorme distesa di tende capace di ospitare fino a 45.000 persone; al momento i rifugiati accolti qui sono circa 15.000 ma, ci dicono, presto aumenteranno. Il campo è presidiato da un gran numero di forze di sicurezza e circondato da reti di filo spinat o; dobbiamo insistere un po’ per poter accedere. Alla fine ci lasciano entrare ma, ci dicono, non è possibile visitare le tende dei profughi. Veniamo accompagnate nel tendone della “sala stampa”, super riscaldato e pieno di fotografie che mostrano i profughi e i funzionari governativi che li accolgono “a braccia aperte”. Ci mostrano un video che mi riporta al post terremoto dell’Aquila, quando Berlusconi si faceva filmare nelle casette assegnate ai terremotati.
Il campo è certamente pulito bene organizzato, ogni tenda è dotata di elettricità, c’è acqua, i profughi ricevono 87 lire turche al mese per acquistare beni nel supermercato del campo, hanno a disposizione le lavatrici e dei bagni moderni. I profughi sono autorizzati a uscire dal campo dopo essere stati controllati e i loro parenti possono andare a trovarli. Ci sono le scuole e, ci dicono, gli insegnanti sono di Kobane, ma insegnano solo in arabo e turco; la lingua curda non è contemplata. La nostra visita finisce nell’ufficio del responsabile del campo; ci chiede che cosa ne pensiamo. Una di noi risponde che dovrebbero essere gli abitanti del campo a rispondere; così, dopo una decina di minuti, compare alla porta un signore anziano, pare sia un insegnante di Kobane e con fare concitato ci dice che lì c’è democrazia, che il campo è perfetto, che il governo è stato molto generoso con i rifugiati, che stanno benissimo. Andiamo e mi resta la netta impressione di aver visto da vicino una abile mossa propagandistica del governo Turco che da una parte non lascia passare gli aiuti per Kobane dal posto di frontiera e dall’altra si mostra generosa con i profughi scappati dalla guerra.
Sabahat Tuncel parlamentare e copresidente dell’HDP
Nata nel 1975 è stata un’attivista per i diritti umani e ora è parlamentare; ha iniziato la sua carriera politica nel 1998, con l’HADEP (Party of Pepole’s Democracy). Nel 2006 è stata incarcerata per otto mesi e mezzo con l’accusa di essere affiliata al PKK. Dalla prigione ha deciso di candidarsi alle elezioni ed è stata eletta a Istanbul con 93.000 voti; l’elezione è valsa la sua scarcerazione, primo e unico caso nella storia turca. È stata rieletta in parlamento anche nelle successive elezioni (2011). Le chiediamo se l’HDP (un “ombrello” di partiti e associazioni curdo-turche), che si presenta come partito alle prossime elezioni di giugno, riuscirà a superare l’alta soglia di sbarramento (10%). Ci risponde che ci sono ottime possibilità di farcela e se le sue previsioni saranno confermate la sua parte politica avrà circa 70 parlamentari contro i 35 attuali. Nelle passate elezioni i piccoli partiti si avevano presentato candidati indipendenti, per avere maggiori possibilità di avere dei parlamentari. Lei non si ripresenterà perché dopo due mandati ritiene sia giusto lasciare il posto ad altri. Ci parla dell’opzione militare scelta in Rojava, contro l’Isis e del coinvolgimento delle forze occidentali nel conflitto. È consapevole che l’Isis è stata creata e finanziata dagli USA ma le forze curde in campo (YPG e YPJ) avevano poche alternative per riuscire a sconfiggerli; così hanno deciso di attuare una sorta di alleanza tattica sul campo, segnalando ai bombardieri della coalizione le postazioni Isis sul terreno. Non contempla la possibilità di una coalizione vincolante con le forze occidentali perché, dice, “sappiamo bene che se vengono qui lo fanno solo per tutelare i loro interessi”. È intenzionata a battersi perché i prigionieri politici, di cui molti del PKK, vengano liberati; questa è una delle 10 condizioni poste da Ocalan per procedere con il disarmo e avviare un vero processo di pace.
Chiediamo come hanno preso parte alla rivolta di Gezi Park: loro hanno messo una tenda di femministe, nella quale si tenevano workshop partecipati sulle questioni di genere, sulla pace e sulla violenza nei quali ha parlato anche Shebabat Tuncel. La polizia aveva dichiarato che una donna velata era stata offesa e picchiata dai manifestanti e loro l’avevano difesa. Il primo ministro Erdogan con questa operazione voleva dividere le donne tra religiose e non religiose e noi abbiamo fatto di tutto per contrastare questo tentativo di divisione. Abbiamo cercato di far capire che eravamo contro le politiche del governo non contro chi vuole professare liberamente una religione. E abbiamo cercato di far capire ai manifestanti che non dovevano assalire le donne che indossavano il velo.
La tenda femminista è stata lì fino alla fine della rivolta. Ci siamo battute contro le violenze degli agenti nei confronti delle donne arrestate. Le perquisivano facendole spogliare e le provocavano. Hanno organizzato una protesta contro le violenze della polizia che ha visto la partecipazione di molte donne indipendenti, di sinistra, appartenenti a vari gruppi. Quando Gezi park è stato sgomberato dalla polizia, nelle zone della città si sono formati dei gruppi che si riunivano in assemblea nel parco. E molta gente ha partecipato, comprese le donne di diverse organizzazioni. Hanno anche occupato delle case; sono o ccupazioni miste, non solo di donne e sono esperienze che vanno avanti ancora. Nei loro workshop hanno paragonato i fatti di Gezi con ciò che succedeva nelle regioni curde da 30 anni. La televisione non ha mai fatto vedere ciò che succedeva durante i momenti peggiori della rivolta di Gezi così come non ha mai raccontato nulla della condizione e delle sofferenze del popolo curdo; e così abbiamo cominciato a capire che cosa significa e ha significato questo silenzio sulla condizione dei curdi e su quello che hanno passato. La questione curda è stata sempre vista attraverso la lente del nazionalismo turco. La gente in questa parte della Turchia non ha mai capito che cosa succedeva e si domandava perché i curdi qui aumentavano. Qui a Gezi hanno fatto come con i curdi. Hanno presentato la situazione facendo credere che “ci sono brave persone che voglio difendere il parco e cattivi che se ne approfittano per creare casino”. Hanno gestito la propaganda come con i curdi, cercando di dividerli tra bravi e cattivi. I pacifisti qui hanno fatto in modo di mettere in luce queste analogie e le persone qui hanno capito.
Una donna è venuta a Gezi con la bandiera turca e ha detto che lì non si poteva parlare della questione curda perché eravamo in Turchia. Sabahat le ha risposto che quella era la storia attraverso cui erano passati e la donna alla fine si è convinta e ha capito. La gente è entrata in contatto per la prima volta con i curdi a Gezi; erano lì a danzare 24 ore al giorno. Si fermavano solo quando la polizia attaccava. I curdi erano insieme a tutti gli altri e sono stati accettati. Chiediamo che cosa pensano del militarismo delle donne curde; non hanno pareri univoci ma tre diverse posizioni: chi pensa che non dovrebbero prendere le armi, chi pensa che fanno bene a difendersi e chi pensa che le armi sulle donne sono “carine”. Hanno organizzato un forum delle donne dopo Gezi e invitato le madri per la pace (ndr: le madri con figli morti durante la guerriglia) e le Saturday’s Mothers (ndr: quelle con i figli scomparsi dopo un arresto). Il forum è stato interessante perché vi hann o partecipato anche nazionalisti della media borghesia, con cui sono riuscite a confrontarsi. Dopo Gezi la situazione è molto cambiata ma Kobane ha dato un’altra possibilità. È facile odiare l’Isis e vedere le sue atrocità. Il risultato è che le persone hanno guardato ai curdi in modo diverso. YPG E YPJ si sono legittimati come persone che si difendevano da una minaccia; si è parlato dell’autodifesa dei curdi in un altro modo. In Turchia, dopo qu esta storia, i curdi non sono più considerati terroristi. E anche se non è così facile risolvere una questione del genere, si è aperto uno spiraglio.
Molte donne curde sono il prodotto delle loro lotte, sono diventate attiviste femministe e per i diritti umani. Quando c’è una guerra le donne vengono prima coinvolte e poi rimandate nelle loro case. Le donne curde hanno detto che non volevano tornare a casa e nel movimento politico curdo hanno la possibilità di non tornare a casa.
E per quanto riguarda l’aspetto militare: le armi vanno messe in un contesto particolare che è quello dell’autodifesa. Qui in Turchia 5 donne al giorno vengono uccise dai loro mariti o parenti. Molte donne stanno dicendo che vorrebbero difendersi. Come donne per la pace abbiamo delle difficoltà a pensare alle donne armate; ma quello che è successo a Kobane è arrivato in un momento in cui il processo di pace è a un crocevia e la gente che vive a Kobane è la stessa gente di Suruc e molti curdi in Siria sono gli stessi che hanno combattuto in Turchia. Molti di loro sono parenti di curdi che vivono in Turchia. Di fatto lo stato turco ha detto allo stesso tempo di volere il processo di pace e che i curdi erano nemici. Ciò che è successo a Kobane per i curdi è parte del processo di pace. Noi cerchiamo di capire e di dare voce alle prospettive di entrambe le parti e ciò deve avvenire attraverso il riconoscimento reciproco. Se i turchi continuano a ignorare le domande dell’altra parte non è pace, è dominazione. Noi ora ci diamo da fare per g li sfollati. Molti curdi in Siria non hanno mai avuto la cittadinanza. Il sostegno che diamo agli sfollati di Suruc è il nostro modo di dire che vogliamo la pace. Abbiamo fatto un progetto e una campagna di sostegno per gli sfollati di Suruc. Ho incontrato le donne del PKK nei luoghi nei quali vivono; non abbiamo parlato di quello che significano le armi ma abbiamo cercato di discutere la questione per quella che è, e di trovare delle soluzioni. Nukhet ci consegna un rapporto molto dettagliato sulle donne nel processo di pace; è il frutto di un lavoro partito dalla loro fondazione, nel 2009. Donne di diverse organizzazioni hanno discusso di ciò che le donne hanno passato durante la guerra e iniziato a lavorare sul significato della parola pace.
Cicek è una donna di 40 anni, di cui 12 passati in prigione. Il suo partito ora è confluito nell’HDP di cui la loro fondatrice, Figen Yüksekdağ, è ora vicepresidente. Non ci dice il motivo della prima incarcerazione, durata dieci anni. È stata accusata di essere una delle responsabili della rivolta di Gezi Park e per questo ha scontato altri due anni. Ora è in libertà vigilata e aspetta una sentenza, che potrebbe riportarla in prigione per 20 anni. Le chiediamo delle condizioni in carcere e ci dice che la condizione detentiva l’ha fatta crescere sia politicamente sia come donna. Anche lei confida che l’HDP superi la soglia di sbarramento; non ha voluto candidarsi, nonostante una elezione potrebbe gar antirle la libertà. Siamo colpite dalla sua timidezza e semplicità.
Seblan Arcan: Associazione diritti umani e madri per la pace
Seblan lavora da 20 anni in questa associazione che si occupa persone scomparse in carcere o in custodia e ha iniziato la protesta delle Saturday’s Mothers. È l’unica donna ancora coinvolta dopo 20 anni anche se non ha nessuno scomparso tra i suoi familiari. La loro lotta è un’espressione della resistenza delle madri contro la mentalità patriarcale dello stato. Le Saturday’s Mothers non seguono la strada che è stata tracciata per loro dalla società controllata dai maschi; hanno iniziato chiedendo dove fossero finite le molte le persone scomparse in carcere o in custodia e sono riuscite a prevenire e fermare queste pratiche. Hanno cominciato la protesta quando c’erano centinaia di persone che scomparivano, negli anni ’90; dopo il 2000 queste pratiche si sono fermate.
Nel frattempo però sono scomparse 1200 persone; erano tutti civili, alcuni attivisti per i diritti umani. Alcuni che cercavano di scoprire la verità sono a loro volta scomparsi. Ora vogliono che vengano ritrovati i resti degli scomparsi e chiedono giustizia. Sono stati ritrovati i resti di circa 100 persone, non c’è nessun sopravvissuto. Vogliono che la Turchia si democratizzi oltre a chiedere giustizia in tribunale; finora nessuno ha avuto giustizia. Vogliono che vengano presi e condannati i responsabili. In Turchia le investigazioni sono chiuse e le autorità hanno dichiarato che la polizia non ha responsabilità: alcune delle alte sfere del governo sono responsabili e per questo non vogliono che le investigazioni vadano avanti. Il responsabile della sparizione di 13 persone era un altro grado dell’esercito ma è stato prosciolto, anche se c’erano molti testimoni. In Turchia c’è una tradizione di impunità quando il responsabile è lo stato. Se un cittadino ordinario uccide prende l’ergastolo ma se un poliziotto uccide un manifestante non viene punito. Questo è in violazione della legge turca e delle leggi internazionali che la Turchia ha firmato. Ma anche se lo stato ha dovuto sospendere la pratica di far sparire le persone in custodia o in carcere, da quando Erdogan è al potere molti sono morti durante le dimostrazioni. Questo il suo un cambio di politica, non si muore in carcere ma in strada. Più di 10 persone sono morte durante le proteste di Gezi park. Il “processo di pace” non ha migliorato le cose dal loro punto di vista. Partecipare a una manifestazione è ora più pericoloso che mai. Non pensano sia possibile parlare di pace se le persone vengono uccise per strada e se la giustizia per chi è scomparso non è ancora stata fatta. Per avere la pace lo stato deve fare i conti con i suoi crimini del passato e i responsabili devono essere condannati. Ci sono molti prigionieri politici malati che dovrebbero essere liberati e questo non succede, anche contro la legge turca. C’è una donna di 75 anni che è in galera perché ha cercato suo figlio tra i guerriglieri. Sono critici riguardo al “processo di pace”, perché lo stato vuole solo che i guerriglieri depongano le armi. Ma per perché i guerriglieri disarmino è necessaria una seria democratizzazione dello stato. Sono andati sulle montagne perché non c’era democrazia e senza democrazia non possono scendere dalle montagne. Andiamo insieme alla protesta delle Saturday’s Mothers, tutte in cerchio, con le foto dei loro cari. Ogni sabato commemorano un figlio con testimonianze e poesie in un momento carico di emozione.
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