di Eleonora De Pascalis (CISDA)
A Jinwar, in Rojava, Siria del nord, un pugnale di luce dirada l’oscurità di un’abitazione spoglia, i suoi tappeti tradizionali, e il cibo disposto in tavola. La quotidianità catturata dalla videocamera incornicia le ore dedite al lavoro, il gioco dei bambini, e alcuni volti dai tratti europei, la musica di una chitarra, e racconta la messa in opera di una comunità libera e autogestita dalle donne. Jinwar, che in lingua locale significa terra delle donne, nasce dal bisogno di concretizzare il cambiamento che le sue fondatrici immaginavano fin dal 2016, a cui sono seguiti due anni di gestazione e progettazione prima dell’ufficiale inaugurazione il 25 Novembre 2018, nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Jinwar – Free Women’s Village Rojava è il cortometraggio che documenta la vita e la sopravvivenza autonoma dell’eco-villaggio costruito nella Siria del nord, in Rojava. Questa piccola oasi è aperta a chiunque desideri approdarvi per conoscere e comprendere l’esperimento di una comunità fondata dalle donne, autosufficiente, ecologica, che protegge e afferma i diritti dell’uguaglianza e della convivenza pacifica senza alcuna differenza di genere o nazionalità.
Non è l’unica prova a testimonianza del coraggio e della determinazione delle donne curde, vittime nel loro paese, tra le mura domestiche, dove il patriarcato ne depreda con violenza diritti e libertà. Quando fuggono alla ricerca di una vita diversa, lo ricordiamo, scelgono di difendere la loro patria dall’Isis arruolandosi nell’esercito femminile delle YPJ, Unità di Protezione delle Donne. Scelgono, ancora, di ricostruire, accogliere le donne rimaste vedove e senza futuro, erigere nuovi ponti interpersonali laddove la sicurezza è stata smantellata dai continui soprusi di una vita domestica oppressiva e maschilista.
Il documentario mostra una quotidianità essenziale, ma piena: i figli giocano sulla terra arida del Kurdistan sollevando polveroni fitti e giallastri, le donne cucinano insieme, costruiscono le abitazioni, cuociono il pane, curano l’orto, conversano tra loro, insegnano e imparano nuove discipline o ne approfondiscono di antiche come la medicina naturale. Gli unici uomini sono i loro figli maschi, che hanno portato con loro. Fatima, la donna di Jinwar che racconta alla telecamera, si definisce madre, compagna, sorella, delle altre donne che hanno ricevuto asilo nel villaggio. La loro convivenza si rifrange nei nostri occhi occidentali sotto forma di vita semplice, ma Jinwar è molto di più.
Ad oggi il villaggio conta un gran numero di abitazioni, oltre 30, aule in cui insegnare e imparare, un centro di medicina naturale che ha lo scopo di curare e rispondere alle domande delle donne, appezzamenti di terra adibiti all’agricoltura e all’allevamento, negozi in cui vendere l’eccesso della produzione, l’amministrazione, e dove richiedere il cibo di cui si ha necessità. A Sifa Jin, il centro di medicina naturale, lavorano due dottoresse che aiutano nella creazione di medicinali naturali e alla comprensione dei malesseri fisici, spesso legati alla drammatica situazione familiare da cui le donne scappano per trovare rifugio e una nuova vita al villaggio. La produzione agricola e l’allevamento rifiutano le dinamiche di profitto tipiche delle società capitalistiche, sono sostenibili per la salvaguardia del territorio e coprono il fabbisogno dell’intero villaggio.
Il fulcro dell’intero progetto ruota attorno alla possibilità, per le donne rimaste vedove o fuggite dalla guerra, di ricominciare una vita diversa, libera di prendere forma sulla base delle loro scelte, delle possibilità che quotidianamente si presentano loro davanti. Jinwar appare come un’oasi, perché la messa in pratica è ben più sorprendente e istruttiva della teoria, più stimolante, e trova una sua dimensione nella limitazione per gli uomini di stabilirsi a lungo termine. Gli ingressi sono controllati e non è permesso loro restare per la notte, ma il contributo di chi vuole aiutare è ben accetto nelle faccende più gravose, ma necessarie alla sopravvivenza del villaggio stesso come la costruzione delle sue abitazioni e strutture. I ragazzi, i figli delle donne, al contrario, sono educati alla comprensione del mondo femminile, al rispetto, divenendo depositari della morale e dell’etica trasmessa e testimoniata dalle madri, dalle amiche, dalle compagne di Jinwar.
La novità del progetto è un paradigma molto più vasto di quanto appaia ed è rivoluzionario in un paese come il Rojava. La possibilità di attingere nuovamente, e liberamente, alle tradizioni popolari, alla produzione di artigianato, all’educazione dei bambini, secondo una visione compassionevole, fondata sull’uguaglianza dei diritti e sulla convivenza pacifica con la natura e gli esseri umani, rigenera i caratteri di un linguaggio che, finalmente, è libero di prendere forma dai pensieri, dai desideri, dalle condivisioni quotidiane. Quello che Jinwar permette alle coscienze femminili, o maschili che siano, è l’uso critico della lingua comunitaria, che non può che essere riccamente eterogenea perché condivisa senza riserve. Quella del potere patriarcale, e di qualunque altro ha lo scopo di prevaricare sull’altro da sé, è violenta e confinante, pecca di censura, fino ad annientare ogni possibile riflessione critica, ogni possibile tentativo di realizzazione personale. Il linguaggio di Jinwar, invece, è articolato dal desiderio dell’individuo, alimentato dalla sua stessa libertà di scelta, pensiero, atto, desiderio. Così, la comunità acquista la forma che più le aggrada, di cui ha più necessità, senza che nessun altro dall’esterno possa imporle potere di definizione o confinamento. Ed è, perciò, una forma autenticamente genuina di società che si auto rigenera nella diversità.
Il cuore del progetto di Jinwar batte nel ricordo delle passate e recenti battaglie impugnate da molte altre attiviste per la liberazione e i diritti delle donne con lo scopo di riconsegnare alle coscienze femminili quello che è stato loro tolto con la violenza. Lo ripete a gran voce, da anni, l’attivista afgana Malalai Joya, ne ha fatto un programma politico Selay Ghaffar, portavoce del Partito Afghano della Solidarietà (Hambastagi). Entrambe, protagoniste della lotta contro il potere talebano, hanno appoggiato le rivoluzioni in Rojava e tratto nuova forza dall’esempio delle sue milizie femminili scese in guerra contro l’Isis. L’alfabetizzazione, la cultura, l’impegno politico, la lotta alla corruzione e alle violenze impunite, sono alcuni dei passi necessari, già in parte intrapresi e percorsi dalle donne dell’Afghanistan come del Kurdistan, e del Rojava in particolare. La donna, al centro di se stessa e del mondo, indipendente e capace di costruire nuovi legami, più saldi e giusti, assume le sfumature dei colori della propria terra e al tempo stesso delle donne di qualunque altro paese stiano subendo violenza in questo momento e nei tempi futuri. Senza alcuna distinzione, la loro lotta e il loro sacrifico riguardano ognuno di noi.
La quotidianità di una donna libera a Jinwar è diventata documentario ed è narrazione esemplare, stimolante, per tutti. Ha il fascino inesauribile di una buona storia di cui si vorrebbe conoscere sempre di più, di ognuna di loro e del villaggio, con la speranza che non possa finire mai ma di attecchire oltre confine, nella quotidianità di ognuno. Ha il fascino reale, concreto, di una rivoluzione più vicina di quanto si creda.