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Finché avrò voce

Malalai Joya è una donna afgana che non ha mai conosciuto la pace. È nata infatti sotto l’occupazione russa.
Dopo la caduta dei Talebani è stata eletta parlamentare.
Malalai ha dedicato la vita ad alzare la voce contro l’oppressione delle donne afgane e contro i signori della guerra. Per questo è stata espulsa illecitamente dal Parlamento.
È oggetto di continue minacce di morte e vive una vita blindata. Per tutto questo è costretta a indossare quel burka contro cui ha da sempre lottato.

Malalai era ancora tra le braccia della mamma quando i russi hanno invaso l’Afghanistan. E aveva solo quattro anni quando la sua famiglia si è rifugiata in Pakistan. Poi sono venuti la guerra civile negli anni Novanta, la presa del potere dei talebani, la “guerra al terrore” degli americani. Quando, dopo il crollo del regime talebano, Malalai ha la possibilità di entrare a far parte dei delegati della Loya Jirga, il gran consiglio afgano che dovrebbe governare il nuovo corso, si ritrova in realtà seduta a fianco degli aguzzini di sempre. Lo sgomento non dura che un attimo. Si alza. Chiede la parola. E proprio lei, una donna, dice le verità che nessuno aveva mai detto. “La legittimità e la legalità di questa assemblea” esordisce risoluta “vengono messe in dubbio dalla presenza dei criminali che hanno ridotto il nostro Paese in questo stato. Sono le persone più contrarie alle donne. Dovrebbero essere condotti davanti a tribunali nazionali e internazionali. Se anche potrà perdonarli il nostro popolo afgano dai piedi scalzi, la nostra storia non li perdonerà mai”. In aula scoppia il putiferio. Dal giorno del suo intervento, Malalai è oggetto di continue minacce di morte e di continui tentativi di attentati. È stata infine espulsa illecitamente dal parlamento dove è stata eletta. Ormai vive una vita blindata, cambia casa ogni giorno, è costretta a girare con il burqa, proprio lei che lo combatte da sempre. La sua storia e quella tormentata del suo Paese si intrecciano.

Finché avrò voce. La mia lotta contro i signori della guerra e l’oppressione delle donne afghane

di Malalai Joya

Piemme Edizioni, 2011, pp. 2011

Il grande gioco

Che le sorti del mondo dipendano da ciò che avviene in quella vasta zona che oggi chiamiamo Turkmenistan, Tagikistan o Afghanistan è una percezione antica, oggi confermata quotidianamente da guerre, trame e agguati. Una storia, dunque, quanto mai utile da conoscere.

«… grande affresco storico sul Grande Gioco, come lo chiamò Kipling, che impegnò inglesi e russi, per buona parte dell’Ottocento, in Afghanistan, in Iran e nelle steppe dell’Asia centrale. Mentre il grande impero moscovita scivolava verso i mari caldi inghiottendo ogni giorno, mediamente, 150 chilometri quadrati, la Gran Bretagna cercava di estendere verso nord i suoi possedimenti indiani. Vecchia storia? Acqua passata? Chi darà un’occhiata alla carta geografica constaterà che i grandi attori hanno cambiato volto e nome, ma i territori contesi o discussi sono sempre gli stessi. In queste affascinanti “mille e una notte” della diplomazia imperialista il lettore troverà l’antefatto di molti avvenimenti degli scorsi anni in Afghanistan e in Iran» – Sergio Romano

«Una delle letture più appassionanti … Non bisogna lasciarsi spaventare dal fatto che siano oltre 600 pagine. Non dirò che lo si legge di un fiato, ma lo si centellina per sere e sere come se fosse un grande romanzo d’avventure, popolato di straordinari personaggi storicamente esistiti e di cui non sapevamo nulla» – Umberto Eco

Davanti al palazzo dell’emiro di Buchara, due uomini in cenci sono inginocchiati nella polvere. A poca distanza, due fosse scavate di fresco, e tutt’intorno una folla sgomenta, che assiste in un silenzio irreale. Non è certo insolito che l’emiro faccia pubblico sfoggio di crudeltà, ma è la prima volta che il suo talento sanguinario si esercita su due bianchi, e per di più servitori di Sua Maestà britannica. La scena non è stata scritta da Kipling, anche se di lì a poco la contesa fra russi e inglesi per i luoghi che oggi chiamiamo Turkmenistan, Tagikistan o Afghanistan avrebbe trovato, nelle pagine di Kim, un nome destinato a durare: Grande Gioco. È invece realmente accaduta una mattina di giugno del 1842, dando inizio a una vicenda che in questo celebre libro Peter Hopkirk ricostruisce nella sua fase più avventurosa, allorché gli ufficiali dei servizi segreti zarista e vittoriano valicavano passi fino allora inaccessibili, cartografavano valli inesplorate, raccoglievano informazioni dalle carovane di passaggio sulla Via della Seta, tramavano complesse alleanze con i khan della regione, rischiando a ogni mossa, come i loro epigoni attuali, di ridestare da un sonno millenario quelli che Chatwin chiama «i giganti addormentati dell’Asia centrale». Che le sorti del mondo dipendano da ciò che avviene in quella vasta zona è una percezione antica, oggi confermata quotidianamente da guerre, trame e agguati. Una storia, dunque, quanto mai utile da conoscere. Ma va aggiunto che nella fase raccontata nel Grande Gioco quella storia era anche il romanzesco allo stato puro – e sarà un intensissimo piacere per chi la ascolta. Molte sono le memorie e i documenti che ne compongono il mosaico, ma occorreva un maestro come Peter Hopkirk per farci seguire in tutte le sue ramificazioni questo strepitoso romanzo a puntate

Il grande gioco. I servizi segreti in Asia centrale

di Peter Hopkirk

Adelphi, 2010, pp. 624

Il voto femminile in Afghanistan

L’intervento internazionale in Afghanistan ha poi liberato le donne afghane? La domanda è ovviamente retorica: i media ci mandano in continuazione immagini della guerra in Afghanistan, le notizie sulle perdite subite dalle truppe internazionali nelle varie zone del paese e sulla possibilità di aumentare il contingente militare internazionale. Il silenzio sembra caduto sul mondo delle donne e soprattutto su una reale possibile loro partecipazione alla vita politica e, quindi, sui cambiamenti nella situazione dei diritti.

Il voto femminile in Afghanistan è un attento studio sulla situazione delle donne in Afghanistan con particolare riguardo al voto femminile in questo paese. Il libro, che si apre con una introduzione storica sul ruolo delle donne nell’evoluzione politica e sociale del paese, analizza i diritti e il ruolo politico delle donne oggi nella Repubblica Islamica dell’Afghanistan. L’autrice ha utilizzato varie fonti per la sua ricerca: da interviste a donne ed esperti afghani, a progetti sull’alfabetizzazione, sulle politiche di genere, sui diritti umani, a visite ai campi profughi. Questo ampio e articolato “lavoro sul campo” ha consentito all’autrice di far emergere la necessità del rispetto per i fondamentali diritti umani e delle donne in un contesto dominato da una forte cultura patriarcale e tribale.

Il voto femminile in Afghanistan

di Simona Cataldi
Edup, 2009, pp. 129

Ripensando l’Afghanistan

Il documentario mostra la situazione disastrosa delle vittime civili dei bombardamenti aerei NATO: donne, uomini e bambini mutilati e uccisi, persone costrette a vivere in situazioni tragiche, case distrutte, bambini e anziani che muoiono di fame e di malattie. Una testimonianza cruda ed estremamente veritiera sulle contraddizioni di quella che viene definita una “missione di pace”, o una “guerra giusta” per “portare la democrazia in Afghanistan”.

Scheda tecnica

Regia Robert Greenwald

Produzione: Brave New Foundation.

Paese:Afghanistan, 2009, col., 12’,

Lingua: pashtu, dari, inglese, con sottotitoli italiani.

Afghanistan Como un espacio vacio di Marc Herold

Per più di cinque lunghi anni il popolo afghano ha sofferto sotto l’invasione e l’occupazione statunitense. Migliaia di civili hanno perso la vita, spazzati via dalle armi statunitensi. Marc W. Herold ha mostrato la sua simpatia e il suo sostegno al popolo afghano attraverso il suo progetto più significativo e straordinario, che è quello di raccogliere i dati sulle morti civili e pubblicarli sul web come rivelazione al mondo. Il professor Herold è la sponda splendente della società americana. Mentre il governo degli Stati Uniti esporta bombe, distruzione e terroristi in Afghanistan, dedica tutte le sue energie e sforzi per esporre al mondo la vacuità delle dichiarazioni ufficiali sulla democrazia e la liberazione dell’Afghanistan nelle bocche degli Stati Uniti e dei media. Il professor Herold indica che gli Stati Uniti non hanno alcun interesse né per la democrazia né per i diritti umani in Afghanistan e lo ha dimostrato con il suo progetto senza precedenti, il Víc Memorial.

Afghanistan Como un espacio vacio

di Marc Herold

Foca (in spagnolo), 2007, pp. 320