Skip to main content

Autore: Patrizia Fabbri

Clinica mobile nelle aree rurali

Le severe limitazioni imposte dai talebani, che vietano alle donne di viaggiare a più di 77 km da casa senza un tutore maschio, hanno fatto sì che molte donne dei distretti più remoti siano state scoraggiate dal cercare assistenza per i loro problemi di salute. Molte hanno manifestato sintomi significativi di disturbi da stress post-traumatico, depressione e ansia. Quasi la metà delle donne visitate riferiva ai medici della morte di uno o più membri della famiglia uccisi in guerra. Anche le condizioni economiche di estrema povertà di queste persone sono state riconosciute come uno dei principali motivi della richiesta di assistenza in questa provincia.

In seguito alle pesanti minacce dei talebani ai medici e personale sanitario della clinica “Hamoon Health Center”, di Farah, l’associazione afghana che lo gestiva ha deciso di chiuderla e di sostituirla con una clinica mobile e un team di medici che può raggiungere la popolazione dei villaggi più sperduti.

Le caratteristiche del progetto

Questo nuovo progetto propone un team mobile che andrà nelle aree rurali del Paese e fornirà servizi medici di base alle persone, con particolare attenzione ai bambini con malnutrizione e alle donne incinte.

L’équipe sanitaria mobile visiterà anche le aree colpite dai disastri naturali.

Con l’improvviso cambio di governo, la già instabile situazione finanziaria della popolazione è ulteriormente peggiorata. Attualmente le persone non hanno accesso a una corretta alimentazione, all’istruzione e ai farmaci.

Il progetto mira a fornire assistenza medica di emergenza a persone bisognose in varie province dell’Afghanistan, con particolare attenzione alle donne e ai bambini che non possono ottenere assistenza medica nelle loro zone di abitazione. Inoltre, in casi particolari le donne saranno trasferite, a spese del progetto, dalle aree remote del paese a Kabul per essere visitate da medici o ricoverate in ospedale.

Complessivamente, il progetto sosterrà almeno 20.000 persone nella Provincia di Farah. Il team di progetto creerà un piano e selezionerà le aree più bisognose della provincia, poi l’unità mobile visiterà l’area individuata con le attrezzature necessarie e fornirà i servizi medici alle persone.

Infine, l’Unità sanitaria si avvarrà del personale necessario:

  • un manager per supervisionare e gestire le attività del progetto e fornire rapporti al donatore
  • due medici, un uomo e una donna, per interagire facilmente con pazienti sia donne che uomini. Verrà assunta una ginecologa per prestare un’attenzione particolare alle donne incinte o con problemi ginecologici
  • un infermiere, per assistere i medici, dare istruzioni di base ai pazienti mentre i medici li visiteranno, fare iniezioni, assistere i bambini malnutriti
  • un farmacista, che aiuterà a somministrare le medicine ai pazienti prestando maggiore attenzione a spiegare l’uso del farmaco poiché la maggior parte dei pazienti è analfabeta
  • tre membri di personale di supporto – un impiegato, un addetto alla logistica e una guardia per supportare l’equipe durante le visite nei villaggi.

Passo dopo passo nel silenzio dolente. Report dalla clinica mobile Hamoon

Nella terza settimana di maggio 2025, il team sanitario mobile di Hamoon ha intrapreso un viaggio che non solo ha attraversato la geografia, ma ha anche toccato i confini del dolore, dell’abbandono e del bisogno.

Un viaggio di oltre sei ore: da Kabul a Jalalabad e poi nel cuore del distretto di Dara-eNoor, verso un villaggio chiamato Janshegal; un luogo lontano e dimenticato, incastonato tra le aspre montagne della provincia di Nangarhar. Questo tortuoso sentiero montano che attraversa il pericoloso passo di Mahipar testimoniava a ogni curva anni di negligenza governativa; una distanza che sulla mappa potrebbe essere solo di pochi chilometri, ma in realtà è un muro tra le persone indigenti e povere e i servizi essenziali di base di cui non hanno mai beneficiato. Il villaggio di Janshegal, come un’isola isolata tra i meandri della montagna, privo di strade ben servite e veicoli adeguati, rimane privo delle più elementari strutture sanitarie, educative e di sostentamento.

Non c’è né una clinica né una scuola. Nessuna istituzione governativa o non governativa ascolta il grido silenzioso di queste persone. Il centro sanitario di base più vicino si trova a 5 chilometri di distanza, ma non è né adeguatamente funzionante né facilmente accessibile per la gente del posto. Donne e bambini di questo villaggio sono privati ​​dei loro diritti umani più elementari, come l’accesso all’assistenza sanitaria, un’alimentazione adeguata e acqua a sufficienza, per non parlare dell’educazione alla dignità umana. Gli uomini sono per lo più migranti che lavorano a giornata o disoccupati nel villaggio.

La vita ricade pesantemente sulle spalle delle donne che, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche, portano il peso con la schiena curva e il cuore saldo: dalla cura dei bambini e degli anziani della famiglia alla cucina, alla raccolta della legna da ardere, al trasporto dell’acqua e ad altre faccende quotidiane, oltre al duro lavoro nei campi e nell’agricoltura. Nella zona che abbiamo visitato, tutto parlava di lontananza e isolamento, ma una volta messo piede lì, ci siamo resi conto che l’isolamento non era solo geografico; era come se queste persone fossero state cancellate anche dalla memoria del mondo. Gli abitanti erano montanari, le cui case semplici e primitive erano costruite con le proprie mani, utilizzando pietra e legno raccolti dalle montagne e dalle foreste circostanti.

La deforestazione incontrollata e il contrabbando di legname in Pakistan non rappresentano solo un problema ambientale, ma anche una sofferenza per la popolazione locale, contro la quale il governo non ha fatto alcuno sforzo per intervenire. In questa zona, la pianura è considerata un tesoro e, oltre alla coltivazione, gli abitanti del villaggio la usano per raduni e varie cerimonie. Erano le 10 del mattino e il calore del sole gravava pesantemente sul pendio della montagna. Abbiamo visto gruppi di donne tornare dai campi: falci in mano, piedi impolverati, schiene curve sotto il peso della tristezza e di un dolore silenzioso. I loro sguardi mescolavano la stanchezza a una domanda silenziosa: “Siete venuti per restare?”. Non vedevano un medico da molto tempo, non avevano accesso alle medicine e nessuno a cui chiedere aiuto.

Si installa la clinica mobile

Quando il nostro team è arrivato a Janshegal, la prima sfida è stata trovare un’area pianeggiante dove allestire la tenda medica. Ovunque guardassimo, vedevamo case di pietra o ripidi pendii che rendevano difficile stare in piedi per qualche minuto. Dopo esserci consultati con gli anziani del villaggio, abbiamo deciso di esplorare diversi punti per trovare un posto adatto alla postazione della squadra; un luogo dove donne malate e bambini deboli potessero aspettare senza timore di cadere o di prendere un’insolazione.

Ne abbiamo valutate tre: uno vicino alle case, ma stretto e scivoloso; un altro con più alberi, ma più ripido e pericoloso; e il terzo, che alla fine abbiamo scelto, era una parte della montagna naturalmente terrazzata. Da un lato si affacciava sulla valle, e dall’altro si appoggiava alla montagna; gli altri due lati erano circondati da alberi ad alto fusto che fornivano un’ombra limitata ma rilassante.

Mentre scaricavamo l’attrezzatura e montavamo la tenda, la preoccupazione si è insinuata nei nostri cuori: questo caldo di mezzogiorno, questo sole cocente orientale, avrebbe potuto mettere a dura prova i corpi fragili di bambini e donne incinte e causare nuove malattie. Soprattutto nelle regioni montuose, la luce del sole è più diretta e l’aria più pesante. Eravamo preoccupati, così abbiamo cercato di creare ombra e di installare alcuni angoli al riposo. Ma ciò che ci ha insegnato una grande lezione è stata la reazione della gente del posto. Calmi e sorridenti, hanno ascoltato le nostre preoccupazioni, e un uomo anziano con voce stanca ma decisa ha detto: “Non abbiamo problemi con il caldo; dalla mattina alla sera, ogni giorno, lavoriamo sotto questo sole. Questo caldo è parte della nostra vita, non una minaccia”.

I pazienti aspettano fiduciosi

Le donne con il viso bruciato dal sole, le mani callose e il corpo stanco si sono sedute una alla volta. I bambini erano in braccio alle madri o giocavano tra i cespugli. Alcuni occhi erano pieni di paura e alienazione, altri ci guardavano con curiosità. Alcune donne all’inizio non hanno osato avvicinarsi ai medici. A causa della minaccia di un’improvvisa presenza della polizia religiosa (Amr bil Maroof), abbiamo preparato due tavoli separati per i medici uomini e donne. Nei primi momenti, la gente si è radunata da ogni parte; alcuni con i bambini in braccio, altri sostenevano i genitori anziani. Volti bruciati dal sole, ma ancora luminosi di speranza. In quei momenti, la nostra presenza non era solo una visita medica per loro, ma una finestra su un mondo dove forse qualcuno sente ancora, vede e porge una mano.

La prima paziente è stata Bibi, una donna di mezza età con pressione bassa e gravi sintomi di affaticamento, portata dal marito nella nostra tenda. Quando l’abbiamo visitata, ha mormorato di non aver preso medicine da anni e, nonostante la grave debolezza, saliva ancora ogni giorno in montagna per raccogliere i prodotti agricoli. Ha detto di avere sei figli e che suo marito è disoccupato. Era il simbolo di una donna divisa tra un corpo stanco e la maternità a tempo pieno, ma non ancora sconfitta. Le abbiamo prescritto sieri e farmaci e le abbiamo dato consigli nutrizionali che lei stessa sapeva essere impossibili da seguire perché diceva: “Non abbiamo sempre nemmeno il pane secco”.

Un altro uomo anziano di nome Kaka, con le mani tremanti e gli occhi pieni di dolore, è stato aiutato a farsi strada tra la folla. Al suo arrivo, aveva le lacrime agli occhi. Ci ha raccontato dei suoi due figli piccoli, che avevano prestato servizio nell’esercito governativo durante la repubblica e che erano stati uccisi, e di un terzo figlio, scomparso durante la migrazione. Aveva la pressione alta e i sintomi di una profonda depressione erano evidenti nel suo comportamento. Quando gli abbiamo prescritto delle medicine, disse con voce roca: “Le medicine potrebbero abbassarmi la pressione, ma che ne sarà di questo cuore…?”.

Una bambina di nome Maryam è entrata con uno shock nervoso e forti palpitazioni con segni di ansia cronica e disturbi psicologici. Le abbiamo parlato con gentilezza, le abbiamo somministrato i farmaci necessari e consigliato alla famiglia di offrirle un ambiente tranquillo. Il momento in cui un piccolo sorriso è apparso sulle sue labbra è stato forse una delle ricompense più silenziose e profonde del nostro viaggio.

In un altro angolo, un bambino si era nascosto dietro la tenda. Quando ci ci siamo avvicinati, abbiamo visto che aveva paura degli abiti bianchi e degli strumenti medici. Lo abbiamo calmato dolcemente con carezze e sorrisi. La paura del bambino è stato per noi un amaro promemoria: bambini che crescono non con ricordi di gioco e gioia, ma con ricordi di dolore, isolamento, abbandono e povertà.

Una giovane donna si è presentata dal medico e, dopo averle prescritto dei farmaci, il medico le ha prescritto di attaccarle immediatamente una flebo alla mano. La vista del poco sangue l’ha fatta svenire. L’équipe sanitaria si è radunata intorno a lei e il medico ha riesaminato attentamente le sue condizioni, scoprendo che, a causa di problemi ginecologici durante la gravidanza, soffriva di anemia, emorragie e grave debolezza fisica. A causa dell’affollamento, abbiamo chiesto che venisse riportata a casa per proteggerla dalla polvere e dal caldo. L’anziana madre l’ha portata in spalla e si è spostata rapidamente dalla cima della montagna alla mezza montagna dove si trovava la sua casa. Vedere questa scena è stato sorprendente ed emozionante per il nostro team, insieme alla sensazione che queste donne, a causa della mancanza di strutture, siano diventate così tenaci e laboriose. La dottoressa ha sistemato la paziente nella stanza e le ha avviato la flebo. Un’infermiera è rimasta con lei mentre la dottoressa tornava al punto di ritrovo dei pazienti. Al termine delle operazioni, abbiamo visitato di nuovo la donna e, constatando che si sentiva meglio, ci hanno offerto dell’acqua di sorgente fresca in segno di gratitudine.

Quel giorno, oltre 200 persone del posto sono state visitate e curate. Tra le malattie più comuni c’erano problemi digestivi, infezioni cutanee, anemia, disturbi ormonali, pressione sanguigna, mal di testa cronici, malattie respiratorie e dolori muscolari e scheletrici. Abbiamo prescritto farmaci a tutti i pazienti, distribuito i medicinali necessari e fornito anche consigli su igiene personale, alimentazione e cura dei bambini.

Il momento di lasciare il villaggio

Alla fine della giornata, quando il sole è scomparso dietro le montagne e il canto degli uccelli si sentiva in lontananza, gli abitanti del villaggio ci hanno salutato. Alcuni con le lacrime, altri con un sorriso, altri solo con uno sguardo. In quegli sguardi, c’era qualcosa che ci è rimasto impresso: un desiderio di ritorno, la speranza che noi tornassimo e una gratitudine inesprimibile a parole.

Sebbene la nostra missione sia stata breve, quel giorno rimase impresso nei cuori e nelle menti di tutti i membri del team. Ci siamo resi conto che l’assistenza sanitaria non consiste semplicemente nel curare un paziente: è la garanzia per il paziente di essere ascoltato, visto e non dimenticato. Con il cuore colmo di esperienza e consapevolezza, e con la certezza che la nostra presenza, con il vostro aiuto, sia una luce nell’oscurità, siamo tornati a casa.

Questo viaggio non sarebbe stato possibile senza il sostegno finanziario e umano di CISDA. Mentre ce ne andavamo, lo stesso anziano che ci aveva avvicinato per primo ci ha detto: “La montagna è sempre qui; se tornerete, i nostri cuori saranno più caldi di questo sole“.

Scuole in Afghanistan

Nell’Aprile 2022 i Talebani hanno vietato l’accesso ai corsi della scuola secondaria alle ragazze nella quasi totalità dei distretti. Queste restrizioni escludono milioni di ragazze dall’istruzione secondaria.

Le nostre associazioni cercano di far fronte a questa situazione e la raccolta fondi è destinata a questo scopo.

Per ovvii motivi di sicurezza non possiamo essere molto precise su questa attività, ma cerchiamo comunque di raccontare alcune delle attività svolte.

Storie di vita quotidiana nel Centro Educativo sostenuto da CISDA

La regione nella quale si trova il Centro educativo sostenuto da CISDA si trova in una regione montuosa, caratterizzata da un territorio aspro, valli fertili e altitudini elevate. Il clima è generalmente freddo, soprattutto in inverno, con frequenti nevicate. Le estati sono miti, il che la rende una piacevole meta di fuga durante i mesi più caldi in altre parti del paese.

Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 ha cambiato drasticamente la vita in tutto l’Afghanistan e anche quest’area ha dovuto affrontare sfide particolari.

Come in molte parti dell’Afghanistan, alle ragazze oltre la sesta elementare è vietato frequentare la scuola. Si tratta di una grave battuta d’arresto, l’area vantava uno dei tassi di alfabetizzazione e frequenza scolastica femminile più alti prima del ritorno dei talebani.

L’Università rimane aperta agli uomini, ma alle donne è stato vietato l’accesso all’istruzione superiore a livello nazionale alla fine del 2022, stroncando i sogni di molte giovani donne della provincia. Molti insegnanti ed educatori, soprattutto donne, sono stati rimossi dai loro incarichi o costretti a smettere di lavorare.

 

Il Centro educativo sostenuto da CISDA

Il Centro Educativo sostenuto da CISDA è diventato molto apprezzato dalla comunità locale grazie ai suoi insegnanti dedicati ed esperti, nonché all’offerta di servizi gratuiti.

In passato, si sono tenuti diversi incontri per celebrare diverse ricorrenze e gli studenti hanno partecipato attivamente all’organizzazione e alla realizzazione di questi eventi. Questi incontri hanno avuto un impatto significativo. Tuttavia, purtroppo, a causa delle rigide politiche del regime talebano negli ultimi tempi, il numero degli eventi è stato ridotto.

Vengono organizzate riunioni settimanali con il personale per migliorare il lavoro quotidiano al centro cercando di parlare dei progressi di ogni singolo bambino. Una volta al mese si tiene una riunione con i genitori in cui si discutono problemi e progressi dei bambini e delle bambine che frequentano i corsi; il riscontro dei genitori è molto positivo.

Un giorno alla settimana viene organizzata la visione di film, la lettura di poesie e presentazione di famosi poeti persiani, la lettura e discussione di articoli su importanti argomenti sociali, culturali e storici.

Il controllo dei Talebani sul Centro

Quest’anno, il Dipartimento dell’Istruzione della zona ha convocato più volte i funzionari di diversi centri educativi, imponendo loro norme molto severe; di conseguenza, molti centri educativi sono stati costretti a chiudere. Una volta alla settimana, inviano una notifica scritta o una delegazione va a valutare il centro; queste interruzioni complicano la gestione del Centro.

Il 12 settembre 2024, il Capo del Dipartimento dell’Istruzione dell’area ha riunito tutti i funzionari delle scuole private e dei centri educativi per una riunione. La riunione ha affrontato diversi punti:

  1. Tutte le scuole private non sono più autorizzate a offrire corsi, in particolare corsi di alfabetizzazione.
  2. Tutti i centri e le scuole private devono avere classi separate, anche dalla terza elementare in su.
  3. Un insegnante del genere appropriato deve essere assunto per ogni classe.
  4. Le scuole e i centri privati ​​devono informare il Ministero dell’Istruzione in merito al loro processo di assunzione, in particolare le scuole private, in modo che i registri di insegnamento degli insegnanti siano conservati.
  5. Un insegnante pubblico non può insegnare in una scuola privata.
  6. Le insegnanti donne dovrebbero avere la priorità nelle assunzioni e i loro stipendi dovrebbero essere aumentati.
  7. Gli insegnanti non dovrebbero essere licenziati arbitrariamente o senza un valido motivo, in particolare le insegnanti donne.
  8. Le studentesse devono indossare l’hijab riconosciuto. In caso di reclami o di disonore a una ragazza, il Dipartimento provvederà personalmente alla chiusura della scuola/centro educativo e ad intraprendere azioni legali.
  9. I centri educativi possono operare solo nell’ambito delle loro licenze. Ad esempio, se un centro è autorizzato a offrire corsi di lingua, non può offrire corsi in scienze o oratoria.
  10. Nessuna scuola o centro privato è autorizzato a offrire corsi di alfabetizzazione.
  11. Le scuole private non sono autorizzate ad ammettere studenti di età superiore alla settima elementare.
  12. Le scuole private non devono suonare o cantare l’inno nazionale durante il programma mattutino; al suo posto, dovrebbe essere eseguita una recita di versetti religiosi.

“Nonostante tutte queste restrizioni, stiamo facendo ogni sforzo per garantire che il nostro centro progredisca bene e che possiamo continuare ad aiutare le persone povere e bisognose di questa zona”, ci dicono gli organizzatori.

Alcune storie degli studenti del Centro

 

Le storie che ci mandano dal Centro sono racconti di dolore, sofferenza e povertà e dove il Centro Educativo rappresenta un piccolo spiraglio di speranza.

G. è uno degli studenti più laboriosi del Centro Educativo, proviene da una famiglia povera e vulnerabile, è orfano di padre e ora vive con la madre malata e quattro fratelli. G. trascorre il tempo a prendersi cura della madre malata e a svolgere le faccende domestiche. Dice: “Non abbiamo una sorella, quindi tutte le responsabilità ricadono su di me”. Quattro anni fa, G. ha dovuto abbandonare la scuola a causa di difficoltà economiche e problemi familiari. Tuttavia, quest’anno, incoraggiato dal direttore del Centro, è tornato a scuola e attualmente sta proseguendo gli studi dalla quarta elementare; anche il fratello minore studia in una scuola costruita da donatori stranieri per orfani. La famiglia vive in condizioni estremamente difficili: ci sono state molte notti e giorni in cui hanno sofferto la fame e sono sopravvissuti solo con patate e acqua bollita. Nonostante la loro resilienza, G. è ora profondamente preoccupato per la salute della madre e di uno dei fratelli e ha disperatamente bisogno di aiuto per portarli in ospedale e farli curare.

F. è una ragazza di 19 anni che ha perso entrambi i genitori diversi anni fa e vive con la famiglia di uno dei fratelli. Condivide la sua storia di vita con un dolore silenzioso e una profonda resilienza: “Siamo quattro sorelle e due fratelli. La mia sorella maggiore è disabile, fino a qualche anno fa era registrata presso il Ministero per i Martiri e i Disabili e riceveva un certo sostegno. Tuttavia, quando l’Emirato Islamico è salito al potere, questo sostegno è stato completamente interrotto. Uno dei miei fratelli ci ha abbandonati dopo la morte dei nostri genitori e da allora non è più tornato”. Ora, F. e le sue sorelle vivono con il fratello minore, R., che è l’unico che cerca di sostenerle: lavora come bracciante giornaliero; ogni mattina si reca al mercato sperando di trovare lavoro e spesso torna a casa a mani vuote. Nonostante la sua giovane età, R. porta sulle spalle l’intero peso della famiglia. F. aggiunge con dolore: “A volte la pressione della povertà e della disoccupazione diventa così opprimente che mio fratello scappa di casa per un po’, solo per sfuggire al dolore”. La famiglia di F. è intrappolata in un ciclo di povertà e vulnerabilità, senza un reddito fisso o un sostegno esterno. La loro storia è un grido d’aiuto, una richiesta di compassione, opportunità e la possibilità di vivere con dignità.

All’inizio della scorsa estate, la madre di K., uno degli studenti del Centro Educativo, si è recata personalmente al centro con una richiesta umile. Ha condiviso la dolorosa storia della sua famiglia e ha chiesto sostegno affinché suo figlio potesse continuare gli studi. Ha detto: “Il padre di K. soffre di una malattia grave e incurabile. Mio figlio ama profondamente studiare presso il vostro centro ed è molto desideroso di continuare. Chiedo sinceramente il vostro aiuto affinché non debba abbandonare gli studi”. Ha poi aggiunto: “Ho due figlie. Prima della malattia del padre, anche loro frequentavano le lezioni presso il centro. Ma dopo che si è ammalato, non ho più potuto permettermi di mandarle. Avevamo una casa, ma sono stata costretta a venderla per coprire le spese mediche di mio marito. I miei figli sono ancora molto piccoli. Il più grande è K., che ha 14 anni e attualmente frequenta la prima media in una scuola pubblica. Sono profondamente preoccupata per i miei figli: potrebbero soffrire la fame o essere privati ​​del loro futuro”.

O., una bambina di 12 anni e una delle studentesse del Centro Educativo, racconta la sua storia: “Vivo in una famiglia di otto persone. Mio padre è l’unico a portare a casa il pane. Tutti noi dipendiamo dal reddito di nostro padre. Mia madre è analfabeta e nessuno di noi è in grado di lavorare per sostenere la famiglia. Continua: “Mio padre riesce a malapena a guadagnare più di 100 afghani al giorno. Se facciamo colazione, non abbiamo cibo per cena. Prima che i talebani prendessero il potere, almeno potevamo avere pane, tè e a volte patate. Ma dal loro arrivo, ci è stato portato via tutto. Siamo vivi, ma non possiamo andare a scuola e non riusciamo nemmeno a trovare lavoro. Frequento il corso da oltre un anno, studio inglese e continuo la mia formazione. Voglio ringraziare lo staff di questo corso per averci dato un senso di speranza.”

H., una delle studentesse del Centro, una volta andò con sua madre a trovare il direttore del centro: “Prima ancora che la madre potesse iniziare a parlare, un nodo le si formò in gola. Le lacrime le salirono agli occhi. Il dolore della povertà era chiaramente visibile sui volti della madre e della figlia”, racconta la nostra referente del Centro. Dopo un lungo, doloroso silenzio, la madre di H. finalmente parlò: “Egregio Signore, ho quattro figli. Due di loro frequentano il vostro centro, gli altri due sono ancora molto piccoli e restano a casa. Ma il loro padre, a causa dell’estrema povertà e della disoccupazione di lunga durata, è diventato tossicodipendente. Sono passati quasi nove mesi, quasi un anno da quando è scomparso. Non sappiamo dove sia. Sono rimasta sola con questi piccoli.” Con voce tremante continuò: “Negli ultimi due mesi, io, i miei figli abbiamo digiunato durante il Ramadan. Siamo andati porta a porta, raccogliendo zakat e fitr. Siamo riusciti a radunare 3.000 afghani, che usavamo solo per sopravvivere. Ma ora non ci è rimasto niente”.

V., una studentessa del Centro Educativo, racconta con coraggio le difficoltà che lei e la sua famiglia hanno dovuto affrontare: “Eravamo molto piccoli quando mio padre, che aveva prestato servizio come soldato semplice nel precedente governo, fu ucciso dai talebani. Mia madre si assunse il peso di crescerci”. Continua con voce sofferente: “Abbiamo affrontato innumerevoli difficoltà. I ​​miei zii ci hanno costretti a lasciare la nostra casa. Ora mia madre soffre di danni ai nervi e di ipertensione a causa dello stress e del trauma che ha subito. Esce e chiede l’elemosina alla gente solo per portare qualcosa a casa. Io aiuto a gestire le nostre piccole spese come posso. Attualmente sto imparando l’inglese in questo corso e sono molto grata per tutto il supporto che mi avete fornito. In passato, non potevamo andare da nessuna parte per mancanza di soldi. Ma quest’anno siamo migliorati tantissimo.”

B. è una delle studentesse più motivate del Centro Educativo. Condivide le dolorose realtà della sua vita con silenziosa forza: “Sono la figlia maggiore in famiglia. Siamo in otto, cinque sorelle e un fratello. Ero in terza media quando i talebani arrivarono e chiusero le porte della scuola alle ragazze. Mio padre era un semplice bracciante durante il periodo della Repubblica: andava in piazza ogni giorno, trovando qualsiasi lavoro possibile solo per portare a casa un po’ di cibo per noi. Ma negli ultimi due anni non c’è stato lavoro. Mio padre è stato costretto ad andare a lavorare nelle miniere di carbone. Ha lavorato lì per sei mesi, ma poi si è infortunato e tutti i soldi che aveva guadagnato sono stati utilizzati per le sue cure. Per fortuna, con l’aiuto di Dio, ora è di nuovo in piedi, ma non può ancora lavorare. Ora io e mia madre andiamo al mercato a comprare vestiti, che cuciamo di giorno e fino a tarda notte, giusto per guadagnare qualcosa e mettere da mangiare in tavola. Prima possedevamo una piccola casa, ma l’abbiamo venduta per pagare le cure di mio padre. Ora viviamo in una stanza in affitto e da tre mesi non riusciamo a pagare l’affitto. Il padrone di casa viene ogni giorno minacciando di sfrattarci. B. conclude con un appello silenzioso: “Siamo persi. Non sappiamo più cosa fare. Che Dio abbia pietà di noi.”

L. racconta la sua storia con silenziosa resilienza: “Siamo una famiglia di dieci persone. Mio padre è diventato vecchio e debole, non può più lavorare. La maggior parte dei membri della nostra famiglia sono donne e non abbiamo una fonte di reddito stabile.” Continua: “Durante il precedente governo, mio ​​padre lavorava come custode presso un ente pubblico, ma quando il governo è cambiato, i talebani lo hanno licenziato. Da allora, è disoccupato e ogni mattina va in piazza sperando di trovare lavoro, ma torna a mani vuote, portando con sé solo tristezza e stanchezza. Giorno dopo giorno, il dolore e la pressione della vita sono diventati così pesanti che hanno iniziato a incidere sulla sua salute mentale. Mio padre ora non sta bene psicologicamente”.

P., una ragazza cresciuta in mezzo alle difficoltà, racconta la sua storia: “Ero solo una bambina, molto piccola quando ho perso mia madre. Dopo la sua morte, Mio padre mi lasciò con mia nonna e se ne andò, sposò un’altra donna e non tornò mai più. Io e mia nonna andammo a vivere a casa di mio zio e da quel giorno in poi la vita divenne piena di dolore e difficoltà. Ogni giorno uscivo con mia nonna, lavando i panni o lavorando come donna delle pulizie nelle case della gente per sopravvivere. Ma ora mia nonna è invecchiata e malata. Non può più lavorare. Le sue gambe le fanno costantemente male ed è cagionevole di salute. Siamo lasciati soli con infinite difficoltà. Anche trovare abbastanza da mangiare è una sfida quotidiana. Al momento, siamo registrati solo presso l’ufficio dell’Ayatollah Sistani. Ogni tre mesi ci danno un sacco di farina, una bottiglia da cinque litri di olio da cucina e un po’ di sale e zucchero. Questo è tutto l’aiuto che riceviamo. Andavo a scuola. Mi piaceva molto. Ma ho dovuto lasciare. Non potevo continuare. Speravo che un giorno avrei potuto terminare la mia formazione e magari trovare un lavoro. Cercherò di sfruttare ogni opportunità per imparare in questo centro e raggiungere i miei obiettivi”.

 

Per motivi di sicurezza sono stati tolti dal resoconto tutti gli elementi che potrebbero contribuire a identificarlo, ma ci sembra importante rendere note le attività del Centro e le difficoltà che i suoi studenti e insegnanti devono quotidianamente affrontare.

Shot the Voice of Freedom

Con il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nel 2021, i talebani hanno imposto un regime di terrore particolarmente brutale nei confronti delle donne. Mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari, gruppi di donne lottano per i propri diritti. Il documentario già selezionato a diversi festival internazionali tra cui IDFA, è la storia di due sorelle che decidono di lottare contro la perdita dei loro diritti fondamentali, tra cui il diritto all’istruzione, al lavoro, a vestirsi liberamente e perfino a camminare da sole, nella Kabul riconquistata dai Talebani.

“Shot the Voice of Freedom” è tratto dal libro “Fuorché il Silenzio”, che raccoglie le voci di trentasei donne afghane in lotta contro il regime dei Talebani, edito in Italia da Jouvence.

documentario diretto da Zainab Entezar

Afghanistan, 2024, 51 min

Nirvana

Nel 2021 il mondo si è dimenticato dell’Afghanistan, che ha abbandonato la sua popolazione nelle mani del regime talebano. Le ragazze afghane sono state abbandonate al loro destino, confinate nelle loro case e senza alcuna possibilità di vivere una vita degna. Dopo avere visto il padre decapitato dai talebani e senza alcuna possibilità di vivere una vita dignitosa, Nirvana inizia la sua fuga dall’Afghanistan.

Clicca qui per vedere il film

Scheda tecnica

  • Anno di uscita: 2024
  • Regia: Mohsen Rabiei
  • Sceneggiatura: Mohsen Rabiei
  • Protagonisti: Sadaf Noori, Muhammed Cangören, Seyed Asad Heydari
  • Durata: 2:19