Afghanistan: un paese a lungo martoriato dalle occupazioni straniere, dalle lotte intestine, dal governo fondamentalista. In questo inferno, una ragazza ha giurato sul cadavere di un’altra di combattere i soprusi e la violenza, in ogni loro forma. Zoya, questo è il suo nome, è la meno romantica e più vera delle eroine: nata nel 1978 a Kabul, è infatti una militante della Rawa, l’associazione rivoluzionaria delle donne afghane che ha sempre cercato di strappare la popolazione all’analfabetismo, alle malattie, alla morte. Questa è la sua testimonianza: il resoconto lucido, consapevole e sofferto delle sopraffazioni e degli abusi perpetrati per anni nel suo paese.
“Se non avessi conosciuto Zoya in un campo di profughi afghani in Pakistan, se non avessi incontrato tante militanti della Rawa (Revolutionary association of women of Afghanistan), se non avessi visto il lavoro da loro svolto nei campi o anche nelle scuole per i rifugiati a Islamabad o Peshawar, se non avessi visitato i loro orfanotrofi, se non avessi vissuto alcuni dei momenti che vengono raccontati nel libro Zoya la mia storia, difficilmente potrei ritenerlo una testimonianza vera”. (recensione di Giuliana Sgrena)
In brevi, scarni e lucidi racconti la tragedia di una guerra ramificata e incessante, il dramma delle mine, della miseria, dei signori della guerra. Ma anche, e forse soprattutto, la dignità dei pazienti, la dedizione di medici e infermieri afghani, le piccole storie di vita quotidiana. Una prosa essenziale come può esserlo quella di chi vive in prima persona gli avvenimenti. La testimonianza di un volontario in servizio presso la Croce Rossa Internazionale di Kabul.
Il libro di Peter Levi narra la storia di un viaggio e di un’amicizia nei primi anni Settanta al ritorno dall’Afghanistan. Le valli afghane non erano ancora state bruciate dal napalm dell’esercito sovietico, e i Buddha di Bamiyan non avevano conosciuto la follia integralista. Chatwin voleva completare i suoi appunti di etnologia sulla vita nomade delle popolazioni di quei luoghi e Levi, gesuita che avrebbe poi abbandonato la tonaca per amore, sognava di visitare i siti archeologici greci smarriti fra le montagne di una terra così lontana dalle rive del Mediterraneo. Quel viaggio, le loro riflessioni, le annotazioni, i monumenti che ammirarono ritornano in questo libro attraverso la penna di Levi e gli scatti fotografici di Chatwin.
Inserita in una lunga tradizione di movimenti popolari diretti in nome dell’Islam contro gli imperialisti stranieri, la Resistenza afghana riflette anche il revivalismo religioso che percorre oggi il mondo musulmano. L’islamismo sta così trasformando in profondità la società afghana traumatizzata dalla brutale occupazione sovietica. Il libro di Olivier Roy analizza l’evolversi dell’Islam politico in Afghanistan dedicando una parte specifica alla situazione del paese a partire dal 1985 sino ai recenti avvenimenti, all’interpretazione del movimento dei talibani e di al Qaida, al Grande Gioco delle potenze e degli interessi economici intorno all’Afghanistan, sino alle prospettive aperte all’intervento americano e dalla creazione del nuovo governo provvisorio entrato in funzione il 22 dicembre 2001.
“Afghanistan. C’è un aggettivo che, ormai da dieci anni, accompagna inesorabilmente il nome di questo Paese. L’aggettivo è: dimenticato. L’Afghanistan dimenticato. Un non luogo. Tre paia di occhi diversi, tre linguaggi diversi per raccontare, per incrinare anche di poco l’amnesia colpevole del mondo. Perché quel non luogo e quel non tempo sono colmi di vite umiliate, negate, mutilate. In questo libro abbiamo provato a raccogliere segni, parole e immagini. E forse, lo spero, anche il non detto, quello che non si può scrivere, disegnare o fotografare.” (Vauro). Con un’introduzione di Gino Strada. I diritti d’autore di questo libro sono destinati ad “Emergency”.
Un momento di grande commozione il XIX Congresso Nazionale del PSDI lo ha vissuto quando i due rappresentanti della resistenza afghana che seguono dalla prima giornata i nostri lavori, sono saliti alla tribuna per portare il messaggio del popolo afghano, messaggio che è stato letto nella sua madrelingua dalla dirigente delle donne rivoluzionarie afghane, Kamal Keshvar, delegati ed invitati in piedi hanno lungamente applaudito.
Da un testo tedesco del messaggio, il compagno Bemporad ha tradotto e letto per il congresso il messaggio della resistenza afghana che riproduciamo integralmente:
“Cari amici, in nome del popolo afghano, in nome del movimento della resistenza, in nome della libertà.
Salutiamo il Presidente e il Segretario del Partito, i delegati del congresso socialdemocratico e tutti i rappresentanti delle delegazioni straniere.
Attraverso la vostra calorosa accoglienza abbiamo compreso che noi abbiamo amici anche in Italia, che ci sostengono e attribuiscono il valore che merita alla guerra di resistenza del nostro popolo.
Vi ringraziamo di nuovo per la vostra cordiale accoglienza.
Cari amici, sono passati due anni dalla palese invasione dell’Unione Sovietica in Afghanistan. Il nostro popolo ha assunto con fermezza e senza piegarsi proseguendo eroicamente nelle condizioni di difficoltà il peso della guerra che continuano a condurre gli occupanti sovietici.
Gli invasori sovietici che si sono armati per conquistare il mondo vogliono utilizzare l’Afghanistan come un punto d’appoggio per ulteriori invasioni e per il controllo sulle più importanti regioni e sui mari di importanza strategica.
Essi hanno rafforzato la loro influenza sul governo iraniano e cercano di inserirsi nella situazione interna del Pakistan.
Per l’Unione Sovietica l’Afghanistan è molto importante perciò essa usa tutti i mezzi per annientare il nostro popolo per conseguire il suo scopo di dominare il mondo.
Quattro milioni di afghani hanno dovuto abbandonare la loro terra, centinaia di migliaia sono caduti.
L’Unione Sovietica non si limita ai bombardamenti ma impiega armi chimiche e biologiche.
Essa impiega due gas tossici “fosgan” “sarim” “sonion” che uccidono nello spazio da 8 a 48 ore.
Essi usano proiettili avvelenati “dum dum”. Recentemente l’Unione Sovietica ha usato una terribile arma che si chiama “Kalakof”.
Con questa arma sparano proiettili di due tipi, il primo tipo è avvelenato e il secondo è incendiario, brucia case, boschi, uomini e animali.
I delitti dell’Unione Sovietica in Afghanistan non hanno potuto annientare la volontà del popolo afghano di essere libero.
La resistenza divenuta ogni giorno più forte, incontra grande simpatia e solidarietà in campo internazionale.
La storia ha ben pochi esempi simili di una nazione che con scarsissimi mezzi combatte per la sua libertà contro la potenza più armata del mondo mettendo in grandi difficoltà una così grande potenza.
La stessa Unione Sovietica ammette che non aveva previsto che il popolo afghano fosse così combattivo.
Il popolo afghano non combatte solo per se stesso ma anche per la pace di tutti il mondo.
Noi combatteremo fino all’ultima goccia del nostro sangue per la nostra libertà e indipendenza. Libereremo l’Afghanistan, siamo sicuri della nostra vittoria.
Cari amici, sostenere il popolo afghano significa riconoscere che la nostra battaglia è per la libertà, l’indipendenza, la giustizia sociale e la pace nel mondo. Perciò rivolgiamo a tutti i presenti un appello perché aiutino il movimento afghano di liberazione materialmente e politicamente.
Viva la lotta di liberazione del popolo afghano!
Viva l’amicizia fra il popolo afghano e il popolo italiano!