The Hamoon Mobile Health Unit in a slum near Kabul
The Hamoon Mobile Health Unit provides essential health services to women and children.
We are publishing the latest report, which arrived yesterday, from the Afghan organization that manages the Unit relating to the intervention carried out in a shantytown self-built by internal refugees not far from Kabul, marginalized and abandoned by the de facto authorities.
The story testifies, once again, to the inhuman conditions faced by the population of Afghanistan.
The Hamoon Mobile Health Team provided essential medical services to women and children living in makeshift homes in Chahara-e-Sarsabzi, a marginalized and remote IDP camp near Kabul.
These families have faced years of war and adversity, losing their homes and seeking refuge in Kabul, only to encounter further poverty and hardship. They live in fragile, dark homes lacking basic amenities. When we approached this camp, it was unbelievable to find such conditions near the capital city where for twenty years, the United States spoke of democracy, women’s rights and reconstruction. Yet here, women and girls were lost amidst piles of garbage, their eyes full of pain and suffering.
Upon seeing our health team, people ran to us with joy. An elderly man asked with despair, “Have you lost your way?” Our doctors compassionately treated the desperate people in this camp. Each woman, girl, and child who received care was found to be suffering from severe infections, largely stemming from their involvement in garbage collection and sorting activities.
Beside the illness, most patients were malnourished and weak, suffering from inflammatory diseases and vitamin deficiencies due to lack of access to proper food and clean drinking water.
Habiba, a middle-aged woman, came to us seeking treatment for herself and her young daughter who were suffering from throat infections and diarrhea caused by their environment. “The pain and suffering of women never seem to end. After us, it will be our daughters who will suffer and die in poverty and hunger,” she lamented. “I lost my husband years ago, and I have two daughters aged 12 and 18, as well as a 15-year-old son. My son collects garbage nearby during the day and brings it home, where my daughters and I spend the entire day sorting through it, hoping to find leftover food to eat and plastics to sell. Every day, my daughters and I fall sick. No one can ever get used to eating leftover food from garbage; we are simply forced to do so,” she said tearfully, wiping away her tears.
One of our team members embraced her and provided the necessary vitamins and medications, though unfortunately, it could only alleviate a fraction of her pain and suffering.
Each patient had stories of years of war, suffering, and poverty that had plagued them. None of the children were attending school, and as child laborers, they had to solely fill their families’ stomachs. They could only lament their lost opportunities for schooling and education.
The health team spent the whole day with them, not only curing and distributing medicine and supplies but also listening to their pains and sorrows. In the end, people waved goodbye with kindness, pleading for us to visit again, as nobody else cares to help them; they have all been forgotten.
Pubblichiamo l’ultimo report, giunto ieri, dell’organizzazione afghana che gestisce l’Unità relativo all’intervento effettuato presso una baraccopoli auto costruita da rifugiati interni non lontano da Kabul, emarginati e abbandonati dalle autorità di fatto.
Il racconto testimonia, ancora una volta, le condizioni disumane in cui versa la popolazione dell’Afghanistan.
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Queste famiglie hanno dovuto sopportare anni di guerra ed avversità, hanno perso le proprie case e hanno cercato rifugio a Kabul, dove hanno trovato solo ulteriore miseria e deprivazione. Vivono in abitazioni precarie e buie, prive di servizi igienici.
Quando abbiamo raggiunto questo accampamento, è stato per noi incredibile trovare tali condizioni di vita vicino alla capitale, dove per 20 anni gli Stati Uniti hanno parlato di democrazia, diritti delle donne e ricostruzione. Perché qui donne e ragazze sono ancora scarti umani, smarrite tra cumuli di rifiuti, i loro occhi colmi di dolore e sofferenza.
Nel vedere arrivare il nostro team sanitario, la gente ci correva incontro con gioia. Un uomo anziano ci ha chiesto, incredulo: “Vi siete persi?”
I nostri medici, toccati nel profondo, hanno soccorso e curato gli abitanti disperati di questo accampamento. Abbiamo constatato che ogni donna, ragazza, bambino è affetto da gravi infezioni, in gran parte generate dall’esposizione all’ambiente: una discarica, nella quale i rifugiati sono costretti a cercare il proprio cibo e materiali da riciclare quale unica opportunità di sopravvivenza.
Oltre ad essere ammalati, molti pazienti soffrono di malnutrizione e sono molto deboli, con disturbi infiammatori e deficienze vitaminiche dovute alla mancanza di accesso a un cibo adatto ad esseri umani e all’acqua potabile.
Habiba, una donna di mezza età, è venuta da noi per chiedere un trattamento per lei e per sua figlia, sofferenti di infezioni alla gola e diarrea causate dal degrado ambientale: “La pena e la sofferenza delle donne sembrano non finire mai. Dopo di noi, saranno ancora le nostre figlie a dover soffrire per la povertà e morire di fame”, si è lamentata. ”Ho perso mio marito anni fa e ho due figlie, di 12 e di 18 anni, e un figlio di 15 anni. Mio figlio raccoglie rifiuti nelle vicinanze durante il giorno e li porta a casa, dove le mie figlie ed io trascorriamo l’intera giornata con le mani nella spazzatura, sperando di recuperare avanzi di cibo da mangiare e plastica da vendere. Tutti i giorni, ci ammaliamo. Nessuno si può mai abituare a mangiare scarti di cibo recuperati dalla spazzatura; noi siamo semplicemente obbligati a farlo.”
Una operatrice del nostro team ha abbracciato Habiba e le ha dato le vitamine e le medicine necessarie, ma questo può solo alleviare una minima parte della sua sofferenza, della sua pena.
Ogni paziente aveva storie da raccontare, di anni di guerra, dolore e miseria. Nessuno dei bambini sta frequentando una scuola, anzi in quanto bambini lavoratori sono loro gli unici che portano il cibo a casa per la famiglia. I bambini visitati hanno potuto solo esprimere il proprio dolore per la mancanza di opportunità di studio ed educazione.
Il team sanitario ha trascorso l’intera giornata con loro, non solo curando e distribuendo medicine ed altri generi di prima necessità, ma anche ascoltando il loro dolore, il racconto di ciò che gli tocca vivere.
Alla fine la gente ci ha salutati con calore, pregandoci di tornare dato che nessun altro si prende cura di loro, sono stati completamente dimenticati.
Fare finta che sia una cosa normale: è così che si accetta e si fa accettare quello che prima sembrava abominevole. Basta non parlarne, non nominarlo, parlare d’altro.
Parlare di banche, droga, aiuti… cose “normali”, quotidiane, di vita e così far dimenticare l’orrore che subiscono quotidianamente le donne in Afghanistan, sottoposte al regime fanatico dei talebani e della loro ideologia, così estrema e aberrante che persino altri regimi estremisti ne suggeriscono un limite. L’Afghanistan è scomparso nei telegiornali e dalla politica internazionale; nessuno ne parla più, come invece è accaduto dopo la presa di potere dei talebani, quando i paesi “donatori” piangevano la tragica situazione del popolo affamato e delle donne schiavizzate e regalavano soldi e parole scandalizzate, come avevano fatto nei venti anni di occupazione in cui avevano sostenuto governi così incapaci e corrotti da non avere credibilità nemmeno per loro.
La distratta condanna morale e le finte sanzioni economiche comminate al governo talebano – ogni mese l’Onu invia in Afghanistan 40 milioni di dollari – non sono state in grado di ammorbidire le leggi crudeli contro le donne e l’Onu oggi dichiara di nutrire preoccupazioni per i crimini nei confronti delle donne e della loro resistenza per poi tirare dritto sulla necessità impellente di aiutare la popolazione e contrastare il traffico di droga. Si sta cercando di ottenere la disponibilità dei talebani a dialogare con la cosiddetta comunità internazionale e far sì che gli interessi dell’Occidente in Afghanistan continuino a essere tutelati.
I talebani chiedono e l’Onu acconsente
In questo contesto, nei giorni scorsi ha avuto luogo la III Conferenza di Doha, un incontro internazionale che ha segnato una svolta nelle politiche occidentali verso quel paese: organizzata dall’Onu per normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche con le economie occidentali, che in realtà non si erano mai interrotte per alcuni paesi come Cina, India, Asia centrale, Russia, Iran.
La novità è stata la partecipazione diretta dei talebani, che nelle due precedenti Conferenze di Doha non avevano accettato di partecipare, grazie all’accoglimento delle loro condizioni, finora sempre escluse, che hanno imposto di invitare solo loro come rappresentanti del popolo afghano e di non affrontare il problema dell’oppressione e dell’esclusione sistematica delle donne dall’istruzione e dalla società.
Condizioni umilianti, non solo per le donne afghane ma anche per tutta la comunità democratica internazionale, ma accettate dall’Onu e da tutti gli stati partecipanti (seppure con il dissenso del Canada). Accettazione molto criticata da varie associazioni afghanedi donne, da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty e addirittura da Richard Bennett, “relatore speciale Onu sui diritti umani in Afghanistan, (che non ha partecipato all’incontro) e che sono costate all’Onu una grossa perdita di credibilità circa il suo ruolo di difensore dei diritti umani. Persino il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW) ha espresso profonda preoccupazione per l’esclusione di donne e ragazze dall’incontro di Doha.
La “prima volta” dei talebani… un passo verso il riconoscimento
Apparentemente questa conferenza non ha sortito risultati importanti. Non ci sono stati commenti ufficiali entusiasti alla conclusione dell’incontro, niente toni trionfalistici. Rosemary DiCarlo, sottosegretaria generale dell’Onu per gli affari politici e di pace, che ha presieduto il meeting a nome dell’Onu, ha fatto la sua conferenza stampa in tono minore, quasi in sordina.
Ha messo in evidenza che non c’è stato alcun riconoscimento ufficiale del governo de facto, che non sono state tolte le sanzioni, e che quindi i talebani non hanno ottenuto quanto avevano chiesto. Inoltre ha dichiarato di aver sostenuto in tutti i modi i diritti delle donne, sia direttamente nei colloqui con i talebani, sia attraverso gli incontri, avvenuti a meeting concluso, con le donne che hanno accettato di parlare con lei (alcune si sono rifiutate per protesta), ma senza alcun risultato.
Si potrebbe dire che l’incontro sia finito con un nulla di fatto, dato che né i talebani hanno ottenuto il riconoscimento internazionale del loro governo e la revoca delle sanzioni internazionali, né l’Onu ha ottenuto il mitigamento dei decreti contro i diritti delle donne.
Ma invece un risultato importante c’è stato: è proprio ciò che DiCarlo ha chiamato, soddisfatta e orgogliosa, “la prima volta” dei talebani, il loro primo contatto ufficiale con l’Onu, promettendo che sarà solo l’inizio…
Il vero successo è invece tutto dei talebani ed è costituito proprio dall’essere stati ammessi a un incontro con l’Onu per la prima volta e alle loro condizioni, che l’Onu ha accettato pur di averli a Doha, soprassedendo all’apartheid subito dalle donne e tanto stigmatizzato dall’Onu stesso. Questa “prima volta”, tanto contrastata dalle donne e dagli attivisti per i diritti umani, rappresentava un successo già prima che la conferenza avesse luogo, per il fatto stesso di essere auspicata e cercata dall’Onu.
Mentre l’Onu svende i loro diritti, le donne in Afghanistan sono ancor più represse
Bennett aveva ben espresso il sentire di tutti gli oppositori al governo de facto dell’Afghanistan e delle organizzazioni di donne, dichiarando che la rinuncia ai loro diritti era un prezzo troppo alto da pagare per avere in cambio la normalizzazione dei rapporti con i talebani e l’ingresso nella cosiddetta comunità internazionale.
Un altro importante riflesso di questa visibilità internazionale che i talebani hanno ottenuto nel sedersi al tavolo dell’Onu alle loro condizioni è tutto interno. Le donne che resistono e continuano a protestare a rischio della vita ora saranno ancor più duramente represse grazie a una legittimazione di fatto che la comunità interazione ha regalato a chi devasta diritti delle donne e del proprio popolo.
Ma come giustifica l’Onu questa svendita dei diritti delle donne?
DiCarlo ha spiegato che purtroppo i talebani non si vogliono sedere al tavolo delle trattative se ci sono le donne, quindi, l’Onu è stato costretto a lasciarle fuori dalla porta.
Questa frase, che fa passare questa scelta come un atto di realismo, in realtà dà per scontata la sconfitta della comunità internazionale nella difesa delle donne afghane, dimostra che ci si è già arresi al volere dei talebani, che non si vedono alternative.
Il vero messaggio che emerge da Doha3 sta nel dare per scontato che i talebani abbiano il controllo del paese, e nel riconoscere, di fatto, il loro governo, anche se lo si nega ufficialmente.
L’Onu si giustifica con la necessità di favorire lo sviluppo economico dell’Afghanistan al fine di aiutare il popolo affamato, come se bastasse dialogare con i talebani per convincerli ad avviare un “normale” processo di governo basato sui bisogni del popolo e non su quelli della sharia.
Ma non si vuole tener conto dei fatti: tutti gli aiuti finora inviati all’Afghanistan sono stati intercettati e taglieggiati dai talebani a beneficio dell’apparato statale e dei loro fedeli funzionari mentre poco o niente è arrivato nelle mani delle persone a cui erano destinati, a dimostrazione di quanto poco importi al governo talebano il benessere del suo popolo. Si è visto, per esempio, come si sono comportati in occasione dei terremoti e delle alluvioni che hanno distrutto interi territori e tolto tutto alla popolazione già stremata: come numerose fonti hanno riferito, il soccorso è stato nullo o tardivo perché la logica talebana è quella di considerare le catastrofi come fenomeni naturali mandati da dio e quindi da accettare come una fatalità.
Può quindi davvero bastare l’apertura di un dialogo con i talebani per condizionarli a cambiare la loro visione fondamentalista e teocratica e adottare una governance laica?
I soldi congelati da USA e paesi europei sono degli afghani NON dei talebani
I soldi della Banca centrale afghana congelati da USA e paesi europei (circa 9 miliardi di dollari), che l’Onu e diverse organizzazioni (anche italiane) chiedono di scongelare potrebbero certamente servire a dare ossigeno a una popolazione stremata da guerre e miseria, ma consegnare questi fondi ai talebani significherebbe darli a despoti che hanno a cuore solo il mantenimento del proprio apparato e dei propri sostenitori e che taglieggiano la popolazione con balzelli, tasse, ricatti (come ha ben dimostrato il report (Corruption And Kleptocracy In Afghanistan Under The Taliban)
Bisogna trovare forme più dirette di sostegno alla popolazione, e bisogna colpire il governo talebano per la sua responsabilità nell’imporre un sistema di oppressione di tutto il popolo e di apartheid di genere alle donne.
RAWA – Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) è una delle organizzazioni femminili afghane indipendenti più attive ed affermate in campo sociale sia in Afghanistan che in Pakistan tra i rifugiati afghani. RAWA è molto attiva anche nella sfera politica con la sua lotta contro il fondamentalismo e l’oscurantismo religioso, denunciando pubblicamente i signori della guerra che si trovano tuttora in alte cariche governative e le responsabilità degli Usa e dell’Occidente nell’aver costruito, finanziato e legittimato regimi fondati sulla violazione dei diritti delle donne, ignorando e sopprimendo qualsiasi movimento democratico di opposizione.
Fin dalla sua nascita il CISDA sostiene il lavoro politico e sociale dell’associazione organizzando delegazioni in Afghanistan, incontri di sensibilizzazione e conoscenza della realtà afghana con le rappresentanti di RAWA su tutto il territorio italiano e raccolte di fondi.
HAWCA – Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan è una delle organizzazioni non governative afghane più accreditate. Incoraggia la partecipazione attiva delle donne e dei giovani nei processi di ricostruzione e lavora in collaborazione con le istituzioni e le organizzazioni che operano per lo sviluppo del Paese. L’Associane aspira ad una società sicura in cui tutti gli afghani (uomini, donne, bambini, anziani), indipendentemente dallo loro razza, etnia, tribù, lingua e religione, ricevono uguale beneficio da processi di sviluppo e di lavoro collettivo finalizzati ad un mondo migliore.
Hambastagi – Partito della Solidarietà è ad oggi l’unico partito laico, democratico, interetnico e indipendente esistente in Afghanistan. Conta 30.000 iscritti provenienti dalle diverse etnie presenti nel paese di cui 10.000 sono donne. Il partito è inoltre rappresentato da comitati provinciali in 22 province su 34, ognuno con tre dirigenti, una donna e due uomini. Hambastagi è dotato di sedi nelle principali città, ma in alcuni luoghi i suoi membri, impossibilitati ad avere un ufficio, si riuniscono nelle case.
Il partito non riceve fondi pubblici, ma si auto-finanzia attraverso gli iscritti e i sostenitori. I paesi da cui riceve sostegno politico sono l’Italia, la Germania con Die Linke e la Svezia con il Partito della Sinistra.
Esiste inoltre un “Comitato per Hambastagi” la cui base si trova in Germania, fondato da persone afghane che risiedono nel paese.
Come e quando nasce l’organizzazione
Il partito, di ispirazione laica e democratica, nasce nel 2003 in vista delle elezioni presidenziali (2004).
Tuttavia, i suoi fondatori vengono da lontano e precisamente dalla lotta contro l’invasione sovietica, combattuta in gran parte all’interno di una coalizione formata dall’area religiosa degli islamici moderati e dall’area laica dei mujaheddin, entrambe unite contro il nemico comune. L’area laica era formata sia dauomini che da diverse donne che si riconoscevano negli ideali democratici e di sinistra (“mujaheddin del popolo”: partigiani laici della resistenza che non avevano nulla a che vedere con i jihadi, fondamentalisti islamici che combattevano in nome di Allah).
Il lavoro del partito
I membri di Hambastagi si battono contro ogni forma di fondamentalismo islamico, contro l’occupazione straniera e per una democrazia laica che garantisca diritti a tutti, specialmente alle donne. Lottano per un Afghanistan indipendente, democratico e indivisibile in cui poter vivere senza alcuna discriminazione etnica, razziale, religiosa, linguistica, di appartenenza a clan o a zone specifiche e dove si possa vivere in unità e sicurezza.
Essi credono in maniera estremamente profonda nella democrazia, sono laici, non vogliono assolutamente che i dettami islamici influenzino il discorso politico, si battono per la conquista dei diritti delle donne e promuovono i diritti umani. Tutto questo lavoro viene fatto organizzando incontri con la popolazione nelle città e nei villaggi, corsi di alfabetizzazione e manifestazioni
Il partito sta cercando di costruire una forte solidarietà internazionale e ha partecipato ad una Conferenza a Lahore con i partiti della sinistra pakistana. Attualmente è in contatto anche con i partiti della sinistra indiana.
Uno dei suoi principali obiettivi è quello di dar vita ad un’unica forza democratica, capace di intercettare e di integrare le diverse espressioni di dissenso, un partito dell’alternativa con una forte base sociale e in grado di incidere sulla politica afghana.
CISDA e HAMBASTAGI
Il principale sostegno che CISDA offre al partito è quello politico
Nel febbraio del 2011 ha organizzato incontri di attivisti di Hambastagi con partiti italiani, enti locali e associazioni.
Nell’ottobre del 2011 si è tenuta una riunione presso la Camera dei Deputati con il presidente dei parlamentari PD in commissione esteri On. Tempestini e con l’On. Delia Murer, organizzatrice dell’incontro.
Nel giugno del 2012 ha emesso un comunicato per denunciare la sospensione dal parlamento di Hambastagi.
Nel 2013 ha diffuso un ulteriore comunicato denunciando gli attacchi delle forze di sicurezza afghane durante una manifestazione del partito a Kabul.
Nel maggio del 2014 nella provincia del Badakshan una frana di dimensioni enormi ha ucciso almeno 350 persone con oltre 2 mila dispersi. In questa situazione disperata Hambastagi si è da subito attivata portando sul luogo team medici che sono stati in grado di raggiungere questa zona tra le più remote del Paese, nel nord-est, tra l’Hindu Kush e le montagne del Pamir che non ha visto l’aiuto di nessuno. CISDA ha sostenuto finanziariamente questa operazione di sostegno alla popolazione.