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Autore: Patrizia Fabbri

Comunicato stampa – 8 marzo 2024: CISDA a fianco delle donne afghane in lotta

Impedire che un’adolescente si lasci spegnere tra le mura di una casa-prigione; aiutare un’anziana a scrivere le sue prime parole in una stanza nascosta; sostenere tutte le avvocate, sarte, imprenditrici, panettiere, dottoresse, parrucchiere, insegnanti perché possano tornare a lavorare; scendere in piazza nonostante il terrore delle incarcerazioni arbitrarie. Tutto questo fanno le organizzazioni delle donne afghane che, in una clandestinità che porta luce e aria alle donne oppresse dell’Afghanistan dei talebani, continuano a lottare per affermare i propri diritti.

Lottare per e con le donne afghane, come fa CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane dal 1999, significa dar voce e non lasciare sole donne che si battono contro tutti i fondamentalismi; significa condividere la lotta di liberazione delle donne con tutti i movimenti femministi nel mondo; significa non abbassare la testa.

L’8 marzo non è una ricorrenza, l’8 marzo è uno dei 365 giorni in cui le donne subiscono violenze, soprusi, sopraffazioni, ingiustizie, ma è anche uno dei 365 giorni in cui le donne di tutto il mondo continuano a lottare.

In questo momento, in cui due guerre devastanti stanno provocando migliaia di morti, le donne sono ancora una volta le prede di una insensata e misogina violenza, oggetto di stupri e omicidi: essere vicine e far sentire la voce delle donne afghane significa essere vicine anche alle donne palestinesi, israeliane, iraniane, ucraine e alle donne di tutto il mondo.

Per questo il CISDA vuole far sentire la propria voce in quanto protagonista di questa lotta e perché la Giornata internazionale della donna non sia solo l’8 marzo, ma ogni giorno della nostra vita.

Una lotta che si rafforza nel ricordo di chi ha dato la vita per la giustizia e la libertà come Meena Keshwar Kamal, fondatrice di RAWA, assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987 della quale riportiamo la poesia più famosa.

Mai più tornerò sui miei passi

Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Un 8 marzo internazionalista

Arriviamo in mattinata, accompagnate in macchina al luogo dell’appuntamento, ed entriamo in una grande sala. Il luogo è lo stesso di sempre, già abbastanza gremito di donne e uomini, ma molte devono ancora arrivare. Chiacchierano, si abbracciano, parlano fra loro contente di rivedersi perché arrivano da tutto il paese. Anche noi salutiamo e abbracciamo le nostre compagne e facciamo conoscenza di nuove realtà. Più tardi tutte prendono posto. Inizia la manifestazione: sul palco si alternano diversi interventi di donne in rappresentanza delle varie province; tra un intervento e l’altro sullo schermo scorrono immagini di chiara denuncia. Musica e spettacoli teatrali si alternano agli interventi. Noi portiamo il saluto di tutto il Cisda e un sostegno alle loro lotte. Alla fine, si canta tutte insieme, canzoni di lotta come “Bella ciao” e “El pueblo unido”, ognuna nella propria lingua, la commozione è palpabile.

Sì, siamo alla celebrazione della giornata internazionale della donna, ma siamo a Kabul, è l’8 marzo, siamo assieme alle nostre compagne di Rawa e non ci sono solo loro. È il modo in cui riescono ad organizzarsi per quella giornata, così come per tutti gli 8 marzo a cui abbiamo partecipato, ovviamente sempre al chiuso perché, anche nei vent’anni di occupazione Nato, le manifestazioni sono sempre state pericolose per le nostre attiviste. I contenuti dei loro interventi sono sempre politici e chiaramente antigovernativi, per cui stare all’aperto per troppo tempo risulterebbe troppo rischioso per tutte.

Ecco, tutto questo non possiamo più farlo. Il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), di cui faccio parte e che da oltre 20 anni sostiene le attiviste in Afghanistan, non può più organizzare delegazioni in Afghanistan perché il paese è caduto nelle mani dei Talebani, quei Talebani per i quali nel 2001 abbiamo invaso il paese per liberarlo dal loro giogo e per sconfiggere il terrorismo di Isis.

Non possiamo per il momento tornarci, ma non smettiamo di tenere alta l’attenzione sulle condizioni in cui vivono le donne e sulla condizione del paese. Non possiamo permetterci di stare in silenzio; lo dobbiamo alle nostre attiviste che hanno deciso di rimanere lì per continuare la loro attività con le donne e per un cambiamento del paese. Lo fanno a rischio della propria vita, manifestando il loro dissenso, lavorando in clandestinità e continuando a denunciare, così come hanno fatto fin dalla loro nascita nella metà degli anni ’70.

Voglio condividere con voi la poesia più conosciuta di Meena Keshwar Kamal, fondatrice di RAWA, assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

Mai più tornerò sui miei passi

Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Nell’Afghanistan dei Talebani le donne sono sempre più invisibili

Eravamo sedute in mezzo al nulla, quattro anni fa, in un villaggio di polvere e fango dello stesso colore ocra delle montagne, nell’Ovest dell’Afghanistan, dove seguivamo un progetto per le donne. A pochi chilometri c’era una postazione talebana e a una trentina una dell’Isis Khorasan. Non si poteva restare più di due o tre ore nello stesso posto, per non lasciare loro il tempo di organizzare un attacco o un rapimento. Narges mi spiegava la geografia politica del suo Paese: una pelle di leopardo, dove ogni villaggio, ogni città, ogni angolo aveva il suo padrone in lotta con gli altri.

C’erano i distretti completamente in mano ai Talebani, altri contesi con le armi al governo, altri ancora formalmente in mano a Kabul, ma con un “esecutivo ombra” degli studenti coranici. E poi l’Isis Khorasan contro tutti. Una quantità di poteri diversi che esercitavano una pressione violenta e quotidiana sulla popolazione. Una vita in cui si poteva solo scegliere il male minore.

Oggi il palcoscenico si è svuotato: gli unici attori rimasti, i Talebani, governano nell’indifferenza del mondo. La guerra non c’è più, la delinquenza nemmeno, la produzione di droga diminuisce, è vietato portare armi e si può circolare anche di notte. Se ti comporti secondo le regole non hai problemi, ma se sei una donna puoi solo sparire.  Narges oggi vive a Kabul con la sua famiglia. Riesce a lavorare in un ufficio privato, segretamente, quasi sempre da casa. “Esco il meno possibile. Adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa”.

Perché? 

Narges: Gli agenti della polizia morale, uomini e donne, girano come cani affamati per le strade, in cerca delle loro prede. Fino a qualche tempo fa ti arrestavano se manifestavi o se l’hijab [il velo, ndr] non era in regola; adesso lo fanno anche se sei completamente coperta accanto al tuo mahram [l’accompagnatore di sesso maschile, ndr]. Lo fanno senza motivo. Perché? Non si sa e non si può sapere. Tutto è diventato arbitrario, casuale e imprevedibile. Non sai come proteggerti: ogni passo all’esterno costa un’ansia infinita.

Che cosa succede se ti arrestano?
Narges: Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più niente delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari.

Come mai questo ulteriore giro di vite?
Narges: La paura è la più forte delle restrizioni, il più economico sistema di controllo. Arriva ovunque e chiude i pochi spazi rimasti. Ho notato alcune cose negli ultimi anni. Da quando è diventato obbligatorio l’hijab, soprattutto qui a Kabul, le più giovani hanno iniziato a vestirsi in modo tradizionale, strettissimo.

Mi chiedevo il perché, poi ho capito: era l’unica concessione che avrebbero fatto ai nuovi governanti del Paese. Protette da un hijab perfetto potevano andare nei locali, nei ristoranti, passeggiavano con gli uomini, fumavano l’hookah, la pipa ad acqua, e si divertivano. Insopportabile per i Talebani, che hanno inasprito i divieti. Molte sono state arrestate, ma le guerriere della normalità non si sono arrese.

La vita delle donne è diversa nelle province?
Narges: Sì, molto. Gran parte del nostro Paese è stato “talebanizzato” molto prima del loro arrivo a Kabul. Nelle zone rurali, le donne non hanno mai avuto libertà, né diritti. Nei villaggi dell’Helmand, ad esempio, né le ragazze che incontro né le loro madri hanno mai frequentato la scuola. Durante i vent’anni di occupazione delle forze occidentali era possibile studiare, c’erano i servizi per il contrasto alla violenza, i rifugi e la possibilità di lavorare.

Ma tutto questo riguardava una parte limitata della società femminile. Se fossero stati cambiamenti strutturali, non sarebbe stato così facile spazzarli via in un giorno. Per noi che viviamo nelle città, che abbiamo studiato e avevamo un lavoro, l’arrivo a Kabul dei Talebani è stato uno shock ma nella gran parte del Paese non c’è stato alcun cambiamento. La situazione tragica dell’Afghanistan non è solo colpa dei Talebani, questa è una versione comoda per gli ex occupanti, ma è responsabilità di chi per vent’anni non ha fatto nulla.

Perché i Talebani odiano tanto le donne?
Narges: Sono uomini a cui è stato fatto il lavaggio del cervello molto in profondità e molto presto. I bambini nelle madrase vengono lasciati soli, lontani dalla famiglia, da sorelle, madri e zie. Non hanno alcun rapporto con le donne. Non sanno niente di loro se non quello che dice il mullah. Da adulti, sono a disagio, ne hanno paura e non sanno fare altro che opprimerle, diventano così uno strumento politico dell’Islam estremo.

Le donne che incontri hanno qualche speranza per il futuro?
Narges: No, nessuna. Tutti vogliono andarsene, lasciare il Paese. Affrontano qualsiasi pericolo per questo.

Che consenso ha il governo talebano?
Narges: Adesso molto poco. Nei vent’anni di occupazione la popolazione ha sofferto molto e ha sviluppato un profondo risentimento verso le forze straniere. Quando queste se ne sono andate, gli afghani erano pronti ad accettare i Talebani, ma adesso non ce la fanno più.

Con chiunque tu parli, anche con gli sconosciuti, il primo argomento di conversazione sono le critiche nei confronti degli attuali governanti. Farlo è molto pericoloso, ci sono spie ovunque, ma le persone si lasciano andare lo stesso. Sono esasperati, hanno fame e si impedisce alle madri di famiglia di nutrire i propri figli. I divieti per le donne, infatti, creano difficoltà a tutti.

I Talebani resteranno a lungo al governo?
Narges: Loro stessi non hanno speranza di durare molto. Molti si stanno preparando per quando perderanno il potere politico: avviano business, comprano case, preparano una sicurezza per il loro futuro. Mio marito, che è negli affari, lo vede ogni giorno.

Per ora sono stabili però. Che appoggi hanno?
Narges: Principalmente il denaro che gli arriva regolarmente dagli Stati Uniti, che faceva parte degli accordi di Doha. Senza questi soldi non ce la farebbero. Cercano di aumentare gli introiti con le tasse e cresce la corruzione: ma non basta. Non sarà mai abbastanza per sostenersi.

Quali altri sponsor hanno oltre agli Usa?
Narges: Il governo precedente dipendeva al 100% da Washington. Se altri Paesi volevano entrare nel “grande gioco” afghano dovevano rivolgersi ai ribelli. Allo stesso modo, anche oggi ci sono i Talebani iraniani, pakistani, russi. Ognuno ha le sue pedine. E questo non piace agli Stati Uniti: finché non avranno la sicurezza che i Talebani resteranno una forza mercenaria a loro leale continueranno a tenerli sulla corda. Trattano, dialogano ma ancora non vengono ufficialmente riconosciuti. La strada per Kabul è stata aperta all’interno di un piano prestabilito nel quale gli Usa devono mantenere la posizione preminente e limitare le influenze di altri Paesi.

Se gli americani volessero, quindi, potrebbero far cadere il governo talebano?
Narges: Hanno smantellato il governo di Ashraf Ghani in una settimana, potrebbero deporre questo in tre giorni.

E con chi potrebbero sostituirli? Con i vecchi signori della guerra, con un governo condiviso, con il giovane Ahmad Massud, il figlio di Ahmad Shah?
Narges: Potrebbero. Massud e gli altri sono in cerca di sponsor, ma non li trovano. Nessuno vuole sostenerli per ora. I signori della guerra aspettano pazientemente di ritornare in campo e riprendere gli affari. Sanno che non sono esclusi per sempre, ma aspetteranno a lungo. Nessuno ha interesse in questo momento a far cadere i Talebani, soprattutto agli americani non conviene: controllano i governanti di Kabul con il denaro e mantengono la loro influenza. Del nostro inferno non si vede la fine, ma le donne afghane sono molto forti. Abbiamo fatto una cura drastica a base di guerre, violenze, soprusi. Dobbiamo solo impegnarci a sopravvivere.

Pubblicato su Altreconomia 

Roshan Belqis

Nata nel 1973 nella provincia di Farah nel Sud-ovest dell’Afghanistan, Belqis Roshan è ancora una bambina quando le truppe sovietiche invadono il suo paese. Come milioni di altri afghani, la famiglia di Belqis Roshan è fuggita in Iran dove è diventata adulta per poi seguire la famiglia nel suo trasferimento in Pakistan dove la politica afghana studia in una scuola per rifugiati.

Dice di sé riferendosi a quel periodo: “Assistendo alla difficile situazione del popolo afghano, in particolare delle donne, sotto il governo brutale dei fondamentalisti misogini, ho cercato di trovare modi per acquisire consapevolezza politica e ho cercato di servire le donne sofferenti del mio paese”

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e della NATO nel 2001, Roshan torna a Farah e inizia a lavorare come direttrice di un centro sanitario femminile: “Per me – racconta – è stata una grande opportunità per entrare in contatto e prendermi cura di molte delle donne più povere e oppresse”.

Esortata da un gruppo di donne e da gente del posto, Roshan vince le elezioni del consiglio provinciale nel 2005 continuando a lavorare nel territorio a partecipando a conferenze internazionali in Corea e in Italia.  Nel 2009 vince nuovamente le elezioni del consiglio provinciale e va a Kabul come rappresentante del consiglio provinciale alla Mishrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento (Senato). Di quell’esperienza racconta: “Durante i miei quattro anni al Senato, volevo essere la voce delle donne afghane, essere onesta e coraggiosa e, conoscendo la vera natura dei signori della guerra, ho usato ogni modo possibile per smascherarli. Sfortunatamente, molti di coloro che sono oppressori e nemici del popolo erano membri del parlamento”.

Durante il periodo da senatrice, Roshan frequenta la Facoltà di legge all’Università di Kabul.

Nelle elezioni parlamentari del 2018 si candida, e vince, alla Wolesi Jirga (Camera Bassa del Parlamento) per la provincia di Farah: “Anche nella Wolesi Jirga, come nel caso precedente, ho protestato con forza contro i signori della guerra e, nonostante le continue minacce di morte che ho ricevuto, ho continuato a denunciare i crimini, la corruzione e i saccheggi dei governanti e dei parlamentari”, spiega.

Il 13 ottobre 2013, alla Loya Jirga (tradizionale Grande Assemblea) è stata l’unica rappresentante a opporsi alla firma di un patto di sicurezza con gli Stati Uniti e decide di lasciare l’Assemblea con lo slogan “Il patto con gli USA è un tradimento della nostra patria” dichiarando ai media che la presenza militare americana in Afghanistan rappresentava un pericolo per il futuro del nostro Paese. Ha sempre criticato le politiche USA/NATO attribuendo loro la tragedia che il Paese sta attraversando.

Roshan fa ancora sentire la sua voce durante la Loya Jirga del 7 agosto 2020, quando il governo fantoccio di Ashraf Ghani decide di liberare dalla prigione migliaia di pericolosi terroristi talebani: “Ho alzato nuovamente la voce per oppormi alla decisione. Ho definito l’’accordo’ con i talebani un ‘tradimento nazionale’ e ho avvertito che la liberazione di quei prigionieri avrebbe rafforzato i talebani e avrebbe portato a una situazione terribile per l’Afghanistan e il suo popolo. In questa occasione, mentre Ashraf Ghani parlava, mi sono alzata e in pochi secondi sono stata scaraventata a terra da una donna appartenente al personale di sicurezza all’interno della sala. Questo incidente ha avuto un’enorme copertura mediatica ed è stato condannato in tutto l’Afghanistan, mettendo in ombra l’intera Loya Jirga”.

Il suo nome è stato inserito nella lista nera dei talebani e dell’ISIS, ma Roshan non ha mai fatto marcia indietro: “Sia nei miei discorsi in parlamento che nei media locali avevo previsto i tragici eventi che l’Afghanistan si trova ad affrontare oggi. L’ho fatto perché conosco la vera natura di quei terroristi ed ero sicura che le politiche di promozione dei terroristi da parte dell’Occidente avrebbero portato l’Afghanistan verso catastrofi più profonde, soprattutto per le sue donne oppresse”.

L’arrivo al potere dei talebani ha fatto decidere al team che si occupava della sua sicurezza che Roshan non doveva più apparire in pubblico perché troppo rischioso. Successivamente è costretta a lasciare il paese: “Non avrei mai pensato di lasciare l’Afghanistan, il mio amato Paese, ma dall’agosto 2021, con la caduta del regime di Kabul, mi è stato impossibile continuare le mie attività e la mia vita è ad alto rischio. L’unica ragione per cui ho dovuto andarmene è stato per poter sopravvivere e continuare la mia missione, per far sentire in tutto il mondo la protesta del mio sfortunato popolo contro i talebani misogini”.

Belqis Roshan vive attualmente in Germania dove è presente una grande comunità di afghani, ma continua a portare in giro per il mondo la voce delle donne afghane.

Belqis Roshan
Un’altra immagine di Roshan durante la pandemia Covid
Belqis Roshan
Un famoso signore della guerra minaccia Roshan durante un talk show
Belqis Roshan
Belqis Roshan viene aggredita per aver pronunciato lo slogan “Il riscatto ai talebani selvaggi è un tradimento nazionale!” durante la Loya Jirga il 7 agosto 2020. Questa grande assemblea ha votato per il rilascio di 5000 prigionieri talebani.
Belqis Roshan
Intervento di Bilqis Roshan a una seduta del Parlamento nel 2020
Belqis Roshan
Proteste di Bilqis Roshan durante la Loya Jirga del 21 novembre 2013
Belqis Roshan
Durante la pandemia Roshan ha anche co-fondato il Comitato popolare contro il Covid 19 – Komak (che significa aiuto in dari), per assistere le persone colpite raccogliendo donazioni dai suoi sostenitori
Belqis Roshan
Bilqis Roshan durante la sessione del Parlamento nel 2021
Belqis Roshan
Dopo l’attacco a Roshan del 7 agosto 2020, si sono svolte manifestazioni in sua difesa

 

 

Collaborazione tra ANPI e CISDA

Il Coordinamento Nazionale Donne ANPI e il Coordinamento Italiano Sostegno alle Donne Afghane (CISDA) hanno siglato una lettera che sancisce la collaborazione tra le due organizzazioni con l’intento di rendere visibile l’attualità della resistenza delle donne afghane.

Ecco il testo della lettera, con la quale si invitano le sezioni locali e provinciali dell’ANPI a farsi promotrici di eventi in collaborazione con CISDA.

 

Lettera ANPI CISDA

Sartoria

Le donne sono confinate a casa, non possono lavorare né nei servizi pubblici (ad eccezione dei ruoli che non possono essere ricoperti da uomini in campo sanitario ed educativo) né in quelli privati. Nel gennaio 2022 la totalità delle famiglie con capofamiglia donna ha dovuto far fronte a una grave situazione economica e di disagio.

Il progetto Sartoria è stato organizzato per rendere le donne autonome lavorando da casa.

Oltre a fornire un corso per apprendere il mestiere, è stata data loro la possibilità di conoscere i temi della salute e del diritto delle donne al lavoro.

Il corso è iniziato nella città di Kabul ed è stato esteso ad altre 4 province.

Il progetto prevede l’acquisto di 80 macchine da cucire e relativo materiale (stoffe e filo) che al termine del corso verranno lasciate alle donne e serviranno al sostentamento delle famiglie.

Origine del progetto

A metà agosto 2021 i talebani hanno preso il controllo di tutte le province dell’Afghanistan e hanno promulgato le loro leggi e i loro regolamenti; per questo motivo il progetto del centro di assistenza legale per le donne vittime di violenza non ha potuto continuare in assenza di un quadro giuridico per la difesa delle donne. Inoltre, la maggior parte dei casi che sono stati esaminati erano casi di percosse e, secondo le leggi e i regolamenti talebani, è un diritto dell’uomo picchiare una donna se ritiene che faccia qualcosa di sbagliato.

Quando il team che lavorava al progetto si è consultato con le autorità talebane, è stato detto loro che ora non è consentito alcun progetto per le donne e che faranno sapere se in futuro le cose cambieranno.

Per lo stesso motivo, dopo aver aspettato per due mesi e non aver avuto notizie dal governo talebano, con il consenso dell’organizzazione donatrice, il progetto è stato trasformato in un centro per implementare la competenza delle donne ed è stata creata una classe di sartoria e confezionamento abiti al quale si sono iscritte 40 donne.

Obiettivo

Il progetto di sartoria e confezione di tessuti è stato organizzato per rendere le donne indipendenti grazie a guadagni ottenuti lavorando da casa. Questo obiettivo è stato scelto considerando la situazione attuale in Afghanistan, dove il lavoro per le donne è inesistente o molto limitato.

Attività di avanzamento del progetto

Il primo passaggio necessario è stato trovare una sede sicura, in cui le donne si potessero trovare per seguire il corso. L’opzione migliore è stata quella di trovare una sarta professionista disposta a permettere alle donne di andare a casa sua per imparare a confezionare i vestiti. Poiché i talebani non consentono di portare avanti progetti per le donne, il luogo doveva essere tenuto segreto.

Fortunatamente una delle associazioni che CISDA sostiene è riuscita a trovare una sarta professionista pronta a gestire il corso con le studentesse.

L’istruttrice di sartoria era disposta ad accettare il rischio e la sfida, perché sostiene che le donne debbano essere autosufficienti e contribuiscano al reddito della famiglia. Inoltre le condizioni economiche di tutte le persone stanno peggiorando ogni giorno di più e questi corsi possono aiutare molte famiglie a sostenersi e a ottenere un reddito adeguato e dignitoso.

Dopo aver assunto la sarta e affittato la sede, sono state acquistate le attrezzature e i materiali per il centro. Il progetto non poteva coinvolgere troppe donne perché avrebbe attirato l’attenzione e così ne sono state selezionate 40. Sono quindi state acquistate 40 macchine per cucire.

Dopo questo ulteriore passaggio sono state istruite le beneficiarie del progetto in modo che la notizia non si diffondesse e arrivasse alle autorità; la notizia è stata fatta circolare con l’aiuto di anziani locali e di persone colte, e le donne disposte a partecipare sono state ammesse nel centro.

Consapevolezza

Oltre a fornire alle donne il corso di sartoria, è stata organizzato un programma che verteva su questioni sanitarie e sul diritto delle donne al lavoro. Questi programmi di sensibilizzazione sono stati condotti su basi regolari affinché le donne venissero aggiornate sui loro diritti e sulla loro salute.