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Autore: Patrizia Fabbri

Storie di vita quotidiana nel Centro Educativo sostenuto da CISDA

La regione nella quale si trova il Centro educativo sostenuto da CISDA si trova in una regione montuosa, caratterizzata da un territorio aspro, valli fertili e altitudini elevate. Il clima è generalmente freddo, soprattutto in inverno, con frequenti nevicate. Le estati sono miti, il che la rende una piacevole meta di fuga durante i mesi più caldi in altre parti del paese.

Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 ha cambiato drasticamente la vita in tutto l’Afghanistan e anche quest’area ha dovuto affrontare sfide particolari.

Come in molte parti dell’Afghanistan, alle ragazze oltre la sesta elementare è vietato frequentare la scuola. Si tratta di una grave battuta d’arresto, l’area vantava uno dei tassi di alfabetizzazione e frequenza scolastica femminile più alti prima del ritorno dei talebani.

L’Università rimane aperta agli uomini, ma alle donne è stato vietato l’accesso all’istruzione superiore a livello nazionale alla fine del 2022, stroncando i sogni di molte giovani donne della provincia. Molti insegnanti ed educatori, soprattutto donne, sono stati rimossi dai loro incarichi o costretti a smettere di lavorare.

 

Il Centro educativo sostenuto da CISDA

Il Centro Educativo sostenuto da CISDA è diventato molto apprezzato dalla comunità locale grazie ai suoi insegnanti dedicati ed esperti, nonché all’offerta di servizi gratuiti.

In passato, si sono tenuti diversi incontri per celebrare diverse ricorrenze e gli studenti hanno partecipato attivamente all’organizzazione e alla realizzazione di questi eventi. Questi incontri hanno avuto un impatto significativo. Tuttavia, purtroppo, a causa delle rigide politiche del regime talebano negli ultimi tempi, il numero degli eventi è stato ridotto.

Vengono organizzate riunioni settimanali con il personale per migliorare il lavoro quotidiano al centro cercando di parlare dei progressi di ogni singolo bambino. Una volta al mese si tiene una riunione con i genitori in cui si discutono problemi e progressi dei bambini e delle bambine che frequentano i corsi; il riscontro dei genitori è molto positivo.

Un giorno alla settimana viene organizzata la visione di film, la lettura di poesie e presentazione di famosi poeti persiani, la lettura e discussione di articoli su importanti argomenti sociali, culturali e storici.

Il controllo dei Talebani sul Centro

Quest’anno, il Dipartimento dell’Istruzione della zona ha convocato più volte i funzionari di diversi centri educativi, imponendo loro norme molto severe; di conseguenza, molti centri educativi sono stati costretti a chiudere. Una volta alla settimana, inviano una notifica scritta o una delegazione va a valutare il centro; queste interruzioni complicano la gestione del Centro.

Il 12 settembre 2024, il Capo del Dipartimento dell’Istruzione dell’area ha riunito tutti i funzionari delle scuole private e dei centri educativi per una riunione. La riunione ha affrontato diversi punti:

  1. Tutte le scuole private non sono più autorizzate a offrire corsi, in particolare corsi di alfabetizzazione.
  2. Tutti i centri e le scuole private devono avere classi separate, anche dalla terza elementare in su.
  3. Un insegnante del genere appropriato deve essere assunto per ogni classe.
  4. Le scuole e i centri privati ​​devono informare il Ministero dell’Istruzione in merito al loro processo di assunzione, in particolare le scuole private, in modo che i registri di insegnamento degli insegnanti siano conservati.
  5. Un insegnante pubblico non può insegnare in una scuola privata.
  6. Le insegnanti donne dovrebbero avere la priorità nelle assunzioni e i loro stipendi dovrebbero essere aumentati.
  7. Gli insegnanti non dovrebbero essere licenziati arbitrariamente o senza un valido motivo, in particolare le insegnanti donne.
  8. Le studentesse devono indossare l’hijab riconosciuto. In caso di reclami o di disonore a una ragazza, il Dipartimento provvederà personalmente alla chiusura della scuola/centro educativo e ad intraprendere azioni legali.
  9. I centri educativi possono operare solo nell’ambito delle loro licenze. Ad esempio, se un centro è autorizzato a offrire corsi di lingua, non può offrire corsi in scienze o oratoria.
  10. Nessuna scuola o centro privato è autorizzato a offrire corsi di alfabetizzazione.
  11. Le scuole private non sono autorizzate ad ammettere studenti di età superiore alla settima elementare.
  12. Le scuole private non devono suonare o cantare l’inno nazionale durante il programma mattutino; al suo posto, dovrebbe essere eseguita una recita di versetti religiosi.

“Nonostante tutte queste restrizioni, stiamo facendo ogni sforzo per garantire che il nostro centro progredisca bene e che possiamo continuare ad aiutare le persone povere e bisognose di questa zona”, ci dicono gli organizzatori.

Alcune storie degli studenti del Centro

 

Le storie che ci mandano dal Centro sono racconti di dolore, sofferenza e povertà e dove il Centro Educativo rappresenta un piccolo spiraglio di speranza.

G. è uno degli studenti più laboriosi del Centro Educativo, proviene da una famiglia povera e vulnerabile, è orfano di padre e ora vive con la madre malata e quattro fratelli. G. trascorre il tempo a prendersi cura della madre malata e a svolgere le faccende domestiche. Dice: “Non abbiamo una sorella, quindi tutte le responsabilità ricadono su di me”. Quattro anni fa, G. ha dovuto abbandonare la scuola a causa di difficoltà economiche e problemi familiari. Tuttavia, quest’anno, incoraggiato dal direttore del Centro, è tornato a scuola e attualmente sta proseguendo gli studi dalla quarta elementare; anche il fratello minore studia in una scuola costruita da donatori stranieri per orfani. La famiglia vive in condizioni estremamente difficili: ci sono state molte notti e giorni in cui hanno sofferto la fame e sono sopravvissuti solo con patate e acqua bollita. Nonostante la loro resilienza, G. è ora profondamente preoccupato per la salute della madre e di uno dei fratelli e ha disperatamente bisogno di aiuto per portarli in ospedale e farli curare.

F. è una ragazza di 19 anni che ha perso entrambi i genitori diversi anni fa e vive con la famiglia di uno dei fratelli. Condivide la sua storia di vita con un dolore silenzioso e una profonda resilienza: “Siamo quattro sorelle e due fratelli. La mia sorella maggiore è disabile, fino a qualche anno fa era registrata presso il Ministero per i Martiri e i Disabili e riceveva un certo sostegno. Tuttavia, quando l’Emirato Islamico è salito al potere, questo sostegno è stato completamente interrotto. Uno dei miei fratelli ci ha abbandonati dopo la morte dei nostri genitori e da allora non è più tornato”. Ora, F. e le sue sorelle vivono con il fratello minore, R., che è l’unico che cerca di sostenerle: lavora come bracciante giornaliero; ogni mattina si reca al mercato sperando di trovare lavoro e spesso torna a casa a mani vuote. Nonostante la sua giovane età, R. porta sulle spalle l’intero peso della famiglia. F. aggiunge con dolore: “A volte la pressione della povertà e della disoccupazione diventa così opprimente che mio fratello scappa di casa per un po’, solo per sfuggire al dolore”. La famiglia di F. è intrappolata in un ciclo di povertà e vulnerabilità, senza un reddito fisso o un sostegno esterno. La loro storia è un grido d’aiuto, una richiesta di compassione, opportunità e la possibilità di vivere con dignità.

All’inizio della scorsa estate, la madre di K., uno degli studenti del Centro Educativo, si è recata personalmente al centro con una richiesta umile. Ha condiviso la dolorosa storia della sua famiglia e ha chiesto sostegno affinché suo figlio potesse continuare gli studi. Ha detto: “Il padre di K. soffre di una malattia grave e incurabile. Mio figlio ama profondamente studiare presso il vostro centro ed è molto desideroso di continuare. Chiedo sinceramente il vostro aiuto affinché non debba abbandonare gli studi”. Ha poi aggiunto: “Ho due figlie. Prima della malattia del padre, anche loro frequentavano le lezioni presso il centro. Ma dopo che si è ammalato, non ho più potuto permettermi di mandarle. Avevamo una casa, ma sono stata costretta a venderla per coprire le spese mediche di mio marito. I miei figli sono ancora molto piccoli. Il più grande è K., che ha 14 anni e attualmente frequenta la prima media in una scuola pubblica. Sono profondamente preoccupata per i miei figli: potrebbero soffrire la fame o essere privati ​​del loro futuro”.

O., una bambina di 12 anni e una delle studentesse del Centro Educativo, racconta la sua storia: “Vivo in una famiglia di otto persone. Mio padre è l’unico a portare a casa il pane. Tutti noi dipendiamo dal reddito di nostro padre. Mia madre è analfabeta e nessuno di noi è in grado di lavorare per sostenere la famiglia. Continua: “Mio padre riesce a malapena a guadagnare più di 100 afghani al giorno. Se facciamo colazione, non abbiamo cibo per cena. Prima che i talebani prendessero il potere, almeno potevamo avere pane, tè e a volte patate. Ma dal loro arrivo, ci è stato portato via tutto. Siamo vivi, ma non possiamo andare a scuola e non riusciamo nemmeno a trovare lavoro. Frequento il corso da oltre un anno, studio inglese e continuo la mia formazione. Voglio ringraziare lo staff di questo corso per averci dato un senso di speranza.”

H., una delle studentesse del Centro, una volta andò con sua madre a trovare il direttore del centro: “Prima ancora che la madre potesse iniziare a parlare, un nodo le si formò in gola. Le lacrime le salirono agli occhi. Il dolore della povertà era chiaramente visibile sui volti della madre e della figlia”, racconta la nostra referente del Centro. Dopo un lungo, doloroso silenzio, la madre di H. finalmente parlò: “Egregio Signore, ho quattro figli. Due di loro frequentano il vostro centro, gli altri due sono ancora molto piccoli e restano a casa. Ma il loro padre, a causa dell’estrema povertà e della disoccupazione di lunga durata, è diventato tossicodipendente. Sono passati quasi nove mesi, quasi un anno da quando è scomparso. Non sappiamo dove sia. Sono rimasta sola con questi piccoli.” Con voce tremante continuò: “Negli ultimi due mesi, io, i miei figli abbiamo digiunato durante il Ramadan. Siamo andati porta a porta, raccogliendo zakat e fitr. Siamo riusciti a radunare 3.000 afghani, che usavamo solo per sopravvivere. Ma ora non ci è rimasto niente”.

V., una studentessa del Centro Educativo, racconta con coraggio le difficoltà che lei e la sua famiglia hanno dovuto affrontare: “Eravamo molto piccoli quando mio padre, che aveva prestato servizio come soldato semplice nel precedente governo, fu ucciso dai talebani. Mia madre si assunse il peso di crescerci”. Continua con voce sofferente: “Abbiamo affrontato innumerevoli difficoltà. I ​​miei zii ci hanno costretti a lasciare la nostra casa. Ora mia madre soffre di danni ai nervi e di ipertensione a causa dello stress e del trauma che ha subito. Esce e chiede l’elemosina alla gente solo per portare qualcosa a casa. Io aiuto a gestire le nostre piccole spese come posso. Attualmente sto imparando l’inglese in questo corso e sono molto grata per tutto il supporto che mi avete fornito. In passato, non potevamo andare da nessuna parte per mancanza di soldi. Ma quest’anno siamo migliorati tantissimo.”

B. è una delle studentesse più motivate del Centro Educativo. Condivide le dolorose realtà della sua vita con silenziosa forza: “Sono la figlia maggiore in famiglia. Siamo in otto, cinque sorelle e un fratello. Ero in terza media quando i talebani arrivarono e chiusero le porte della scuola alle ragazze. Mio padre era un semplice bracciante durante il periodo della Repubblica: andava in piazza ogni giorno, trovando qualsiasi lavoro possibile solo per portare a casa un po’ di cibo per noi. Ma negli ultimi due anni non c’è stato lavoro. Mio padre è stato costretto ad andare a lavorare nelle miniere di carbone. Ha lavorato lì per sei mesi, ma poi si è infortunato e tutti i soldi che aveva guadagnato sono stati utilizzati per le sue cure. Per fortuna, con l’aiuto di Dio, ora è di nuovo in piedi, ma non può ancora lavorare. Ora io e mia madre andiamo al mercato a comprare vestiti, che cuciamo di giorno e fino a tarda notte, giusto per guadagnare qualcosa e mettere da mangiare in tavola. Prima possedevamo una piccola casa, ma l’abbiamo venduta per pagare le cure di mio padre. Ora viviamo in una stanza in affitto e da tre mesi non riusciamo a pagare l’affitto. Il padrone di casa viene ogni giorno minacciando di sfrattarci. B. conclude con un appello silenzioso: “Siamo persi. Non sappiamo più cosa fare. Che Dio abbia pietà di noi.”

L. racconta la sua storia con silenziosa resilienza: “Siamo una famiglia di dieci persone. Mio padre è diventato vecchio e debole, non può più lavorare. La maggior parte dei membri della nostra famiglia sono donne e non abbiamo una fonte di reddito stabile.” Continua: “Durante il precedente governo, mio ​​padre lavorava come custode presso un ente pubblico, ma quando il governo è cambiato, i talebani lo hanno licenziato. Da allora, è disoccupato e ogni mattina va in piazza sperando di trovare lavoro, ma torna a mani vuote, portando con sé solo tristezza e stanchezza. Giorno dopo giorno, il dolore e la pressione della vita sono diventati così pesanti che hanno iniziato a incidere sulla sua salute mentale. Mio padre ora non sta bene psicologicamente”.

P., una ragazza cresciuta in mezzo alle difficoltà, racconta la sua storia: “Ero solo una bambina, molto piccola quando ho perso mia madre. Dopo la sua morte, Mio padre mi lasciò con mia nonna e se ne andò, sposò un’altra donna e non tornò mai più. Io e mia nonna andammo a vivere a casa di mio zio e da quel giorno in poi la vita divenne piena di dolore e difficoltà. Ogni giorno uscivo con mia nonna, lavando i panni o lavorando come donna delle pulizie nelle case della gente per sopravvivere. Ma ora mia nonna è invecchiata e malata. Non può più lavorare. Le sue gambe le fanno costantemente male ed è cagionevole di salute. Siamo lasciati soli con infinite difficoltà. Anche trovare abbastanza da mangiare è una sfida quotidiana. Al momento, siamo registrati solo presso l’ufficio dell’Ayatollah Sistani. Ogni tre mesi ci danno un sacco di farina, una bottiglia da cinque litri di olio da cucina e un po’ di sale e zucchero. Questo è tutto l’aiuto che riceviamo. Andavo a scuola. Mi piaceva molto. Ma ho dovuto lasciare. Non potevo continuare. Speravo che un giorno avrei potuto terminare la mia formazione e magari trovare un lavoro. Cercherò di sfruttare ogni opportunità per imparare in questo centro e raggiungere i miei obiettivi”.

 

Per motivi di sicurezza sono stati tolti dal resoconto tutti gli elementi che potrebbero contribuire a identificarlo, ma ci sembra importante rendere note le attività del Centro e le difficoltà che i suoi studenti e insegnanti devono quotidianamente affrontare.

Shot the Voice of Freedom

Con il ritiro delle truppe statunitensi dall’Afghanistan nel 2021, i talebani hanno imposto un regime di terrore particolarmente brutale nei confronti delle donne. Mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari, gruppi di donne lottano per i propri diritti. Il documentario già selezionato a diversi festival internazionali tra cui IDFA, è la storia di due sorelle che decidono di lottare contro la perdita dei loro diritti fondamentali, tra cui il diritto all’istruzione, al lavoro, a vestirsi liberamente e perfino a camminare da sole, nella Kabul riconquistata dai Talebani.

“Shot the Voice of Freedom” è tratto dal libro “Fuorché il Silenzio”, che raccoglie le voci di trentasei donne afghane in lotta contro il regime dei Talebani, edito in Italia da Jouvence.

documentario diretto da Zainab Entezar

Afghanistan, 2024, 51 min

Nirvana

Nel 2021 il mondo si è dimenticato dell’Afghanistan, che ha abbandonato la sua popolazione nelle mani del regime talebano. Le ragazze afghane sono state abbandonate al loro destino, confinate nelle loro case e senza alcuna possibilità di vivere una vita degna. Dopo avere visto il padre decapitato dai talebani e senza alcuna possibilità di vivere una vita dignitosa, Nirvana inizia la sua fuga dall’Afghanistan.

Clicca qui per vedere il film

Scheda tecnica

  • Anno di uscita: 2024
  • Regia: Mohsen Rabiei
  • Sceneggiatura: Mohsen Rabiei
  • Protagonisti: Sadaf Noori, Muhammed Cangören, Seyed Asad Heydari
  • Durata: 2:19

At what point is the “creeping” recognition of the Taliban by the international community?

Almost a year has passed since the third Doha Conference organized by the UN in June 2024 to normalize relations between the international community and the de facto government of Afghanistan and officially reopen economic and political relations.

An event that had registered an important novelty in diplomatic relations: the direct participation of representatives of the Taliban government, invited for the first time to participate on an equal footing with the 25 countries that are part of it despite the lack of official recognition of its legitimacy.

A scandalous novelty, not only because this “first time” had marked a de facto acceptance of the Taliban government as the representative of the Afghan people despite its seizure of power not having occurred democratically, but above all because this presence was accepted in exchange for the exclusion of Afghan women and their rights from the issues discussed in the Conference, to allow the diktat of the Taliban who had set it as a condition for their participation. Acceptance that had been heavily criticized not only by women and human rights movements around the world but also by some representatives of the United Nations itself.

The conference ended without specific commitments but had established the negotiators’ willingness to continue with discussions on economic issues in preparation for other appointments and meetings.

What happened to these commitments, what was the follow-up to the Doha Conference? In recent months, almost nothing has appeared in the media to update us on the negotiations underway between the UN and the Taliban government, on the status of the process of recognition of their government and on the progress of the commitments made.

This lack of news is not to be attributed to the interruption of relations or the lack of developments in the dialogue, but to the choice to change strategy: it was in fact decided to remove visibility from the process of rapprochement with the Taliban managed by the UN and instead delegate the conduct of the talks and mediation proposals to the United Nations Assistance Mission in Afghanistan (Unama).

Was it perhaps the criticism of human rights and women’s associations or the Taliban’s refractory attitude to change that made the UN change course, perhaps to seek more coherent ways of defending the rights of the Afghan people? Unfortunately not, because the new format proposed and carried forward by Unama, called the “Mosaic Plan”, or Global Roadmap for Afghanistan, once again has the declared objective of normalizing relations with Afghanistan as soon as possible, to bring it back into the international community under the control of “these” Taliban and “this” government.

And to facilitate negotiations, it proposes an approach no longer aimed at conditioning the Taliban with preliminary issues of principle and requests for democratic openings, but instead separates the problems to address them one at a time – those that interest the Taliban right away, and those proposed by the international community in the future – so that it is easier, without the burden of burning and divisive issues, to reach agreements. In order to reduce the conflict, a strategy is proposed that separates “practical” problems, such as the fight against drug trafficking, the development of the private sector and economic cooperation – which the Taliban like – from “complex” ones, such as human and women’s rights and anti-terrorism. That is, the issues concerning rights and democracy are left in a generic and ambiguous formulation, to be addressed “gradually”, in the indefinite future “sooner or later” – Afghan women are resilient anyway.

With this strategy, the involvement of the Taliban in the dialogue no longer aims at a manifesto-event that gives visibility to the UN’s conciliatory intervention, but prefers a quiet, creeping process, made up of bilateral meetings or little more, that does not attract attention, in the hope that it will finally be possible to reach an agreement with the Taliban and do business with them without annoying critical interventions, those businesses that for now are only in the hands of the small and large regional powers that are jostling to get there first.

The aim of this process is intended to be “an Afghanistan at peace with itself and its neighbours, fully reintegrated into the international community and able to meet its international obligations”, says the Plan, based on the recommendations of the independent evaluation by Feridun Sinirlioglu and in application of the 2023 United Nations Security Council Resolution 2721.

Women’s and human rights groups have criticized this new plan. They argue that Unama is in fact facilitating the legitimization of the Taliban rather than defending the rights of the Afghan people and that this roadmap has not foreseen any role for women, civil society and real victims of the government.

In a joint statement, 54 social organizations, associations and activist groups denounced the acceptance of the Taliban as the main interlocutors and warned that the initiative grants the government concrete concessions while asking in return for little more than vague and unworkable promises. They also say that by making human rights an object of negotiation, Unama undermines their universality and inviolability, failing in the impartial and humanitarian mission of the United Nations that is its own.

The United Nations stressed that its commitment to the Taliban should not be misinterpreted as political recognition. Unama said the plan was still under review and that it wanted to involve in its management all interested parties, from the countries that are part of the Doha Process to other components that play a key role in the region, such as the G7, governments holding Afghan resources, the UN sanctions team and the so-called “non-Taliban” groups vaguely mentioned at the end of the plan. But Unama has refused to specify exactly which parties, outside of the Taliban, have been involved so far.

Meanwhile, the Taliban, happy to be at the center of diplomatic attention, are aiming high and responding to the Plan’s expectations by asking for the lifting of UN sanctions, currently imposed on over 130 members of the group and affiliated entities; the recovery of assets frozen by the US; the assumption of diplomatic representation abroad, that is, the seat at the UN, currently in the hands of representatives of the government of the previous Republic. In short, a real recognition of legitimacy.

In exchange, the Plan calls for global reforms, such as the formation of an inclusive government, respect for human rights and commitment to the fight against terrorism, but, by not providing for enforcement or inclusion mechanisms, these requests remain generic and empty. As the political opposition observes, “the Taliban’s demands are concrete and measurable: they want diplomatic legitimacy, access to foreign reserves and the lifting of sanctions. On the contrary, the expectations of the international community remain undefined”.

The “Mosaic Plan” claims to focus on mutual trust and demonstrating the benefits that cooperation can bring to governance and the Afghan people to achieve changes in Taliban politics. But how can there be cooperation with a fundamentalist government that believes that it is not its responsibility to provide for the needs of its citizens because it believes that the well-being and survival of the people come directly from God? How can one have confidence in a regime that is only concerned with obtaining obedience to what it claims to be the true religion through violence?

The Taliban government cannot be a credible interlocutor. There is no guarantee that the Afghan people can obtain respect for their human, economic and social rights from the Taliban. As women and democratic associations have rightly argued, “this plan must be stopped, our voices must be heard”.

Un piccolo rifugio per ripararsi dalla violenza domestica

La violenza domestica in Afghanistan ha raggiunto livelli allarmanti, soprattutto dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021. Le donne vittime di abusi si trovano in una situazione di estrema vulnerabilità, con accesso limitato o nullo a protezione legale, rifugi sicuri o supporto psicologico.

Il 46,1% delle donne afghane tra i 15 e i 49 anni ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner intimo nel corso della vita (United Nations Population Fund). Una ricerca pubblicata su PubMed evidenzia che le sopravvissute alla violenza domestica affrontano uno stigma significativo da parte di famiglie e comunità, spesso manifestato attraverso colpevolizzazione, vergogna e isolamento.

Come se ciò non bastasse, un rapporto delle Nazioni Unite ha documentato che le donne che denunciano violenze domestiche vengono spesso incarcerate se non hanno un parente maschio con cui vivere. Le donne che cercano aiuto rischiano di essere punite per “crimini morali”, come vivere da sole o tentare di fuggire da un marito violento. Inoltre, la legge islamica applicata dai talebani non distingue tra relazioni sessuali consensuali fuori dal matrimonio e stupro, trattando entrambi come “zina”, punibile con la lapidazione o la fustigazione.

Non sono più vietati i matrimoni forzati quindi le bambine vengono date in sposa ai miliziani a fronte di un compenso economico che consente alle famiglie di sopravvivere e di avere una bocca in meno da sfamare.

Assenza di protezioni legali

Il sistema giudiziario sotto i talebani è inaccessibile alla maggior parte delle donne. Il 79% delle donne intervistate in un rapporto congiunto IOM, Unama e UN Women ha riferito di non avere alcun contatto con servizi legali formali nell’ultimo anno. Molte cause vengono ignorate o respinte, specialmente se la donna non è accompagnata da un tutore maschio.

Le istituzioni che in passato offrivano assistenza legale gratuita, supporto psicologico e rifugi sono state smantellate. Le organizzazioni che gestivano centri di consulenza e rifugi, sono state costrette a chiudere o ridurre drasticamente le loro attività.

Lo stigma sociale impedisce alle donne di denunciare gli abusi. In molte comunità, la violenza domestica è considerata una questione privata, e le donne che cercano aiuto vengono spesso accusate di disonorare la famiglia.

La violenza fisica e psicologica e la mancanza di supporto, insieme alle limitazioni imposte alla vita delle donne afghane, hanno un impatto devastante su ragazze e donne adulte: secondo un’indagine di Afghan Witness, tra aprile 2022 e febbraio 2024 sono stati documentati 195 casi di suicidio femminile.

Il piccolo shelter sostenuto da CISDA

CISDA, nei suoi lunghi anni di attività, ha sostenuto la realizzazione e lo sviluppo di alcuni rifugi per donne vittime di violenza domestica.

Il progetto prevedeva una serie di interventi integrati finalizzati alla lotta alla violenza nei confronti delle donne, da un lato promuovendo il loro empowerment sociale, economico e legale e dall’altro l’affermazione della cultura dei diritti umani delle donne attraverso l’educazione alla legalità e il rafforzamento del sistema di giustizia.

Veniva fornita gratuitamente assistenza legale, psicologica e sanitaria quando necessario, e le donne erano supportate in tribunale per ottenere giustizia e un risarcimento per i crimini subiti. Le attività del progetto erano rafforzate sulla base delle relazioni stabilite con le organizzazioni di base, le ong locali già operanti sui temi dei diritti delle donne e con le istituzioni di riferimento.

Dall’agosto 2021 gli “Shelter” – Case rifugio per donne vittime di violenza – sono stati chiusi perché non era possibile garantire la sicurezza delle donne che si erano rifugiate negli shelter. Siamo però riuscite a sostenere ancora una piccola attività, con un “piccolo shelter sul quale, per ovvii motivi di sicurezza, non possiamo dare informazioni dettagliate.

Le donne e i bambini che vivono nel rifugio partecipano a programmi educativi organizzati, tra cui corsi di studio e formazione in attività di sartoria. Inoltre, vengono organizzate diverse attività ricreative, come attività sportive e celebrazioni speciali come la Giornata internazionale della donna (8 marzo) e gli anniversari della Giornata mondiale dell’infanzia.

Queste attivitàci ha scritto la nostra referente afghana che si occupa questo progetto – non solo contribuiscono a migliorare la loro qualità di vita, ma anche a ravvivare il loro spirito e la loro speranza. Una delle donne nel rifugio ha espresso la sua felicità di vivere qui e di vivere in un ambiente sereno. Ha anche notato che i suoi figli sono impegnati negli studi e spera di costruire un futuro luminoso e di successo per sé e la sua famiglia. Inoltre, una delle bambine ha detto che l’ambiente del rifugio è molto piacevole per lei ed è felice di poter studiare in un’atmosfera così solidale“.

Per queste donne e questi bambini è molto importante avere un posto sicuro dove vivere, aiutaci a continuare a sostenerlo: invia il tuo contributo nella modalità che più preferisci, qui puoi trovare tutte le informazioni su come fare.

Sartoria

Le donne sono confinate a casa, non possono lavorare né nei servizi pubblici (ad eccezione dei ruoli che non possono essere ricoperti da uomini in campo sanitario ed educativo) né in quelli privati. Nel gennaio 2022 la totalità delle famiglie con capofamiglia donna ha dovuto far fronte a una grave situazione economica e di disagio.

Il progetto Sartoria è stato organizzato per rendere le donne autonome lavorando da casa.

Oltre a fornire un corso per apprendere il mestiere, è stata data loro la possibilità di conoscere i temi della salute e del diritto delle donne al lavoro.

Il corso è iniziato nella città di Kabul ed è stato esteso ad altre 4 province.

Il progetto prevede l’acquisto di 80 macchine da cucire e relativo materiale (stoffe e filo) che al termine del corso verranno lasciate alle donne e serviranno al sostentamento delle famiglie.

Origine del progetto

A metà agosto 2021 i talebani hanno preso il controllo di tutte le province dell’Afghanistan e hanno promulgato le loro leggi e i loro regolamenti; per questo motivo il progetto del centro di assistenza legale per le donne vittime di violenza non ha potuto continuare in assenza di un quadro giuridico per la difesa delle donne. Inoltre, la maggior parte dei casi che sono stati esaminati erano casi di percosse e, secondo le leggi e i regolamenti talebani, è un diritto dell’uomo picchiare una donna se ritiene che faccia qualcosa di sbagliato.

Quando il team che lavorava al progetto si è consultato con le autorità talebane, è stato detto loro che ora non è consentito alcun progetto per le donne e che faranno sapere se in futuro le cose cambieranno.

Per lo stesso motivo, dopo aver aspettato per due mesi e non aver avuto notizie dal governo talebano, con il consenso dell’organizzazione donatrice, il progetto è stato trasformato in un centro per implementare la competenza delle donne ed è stata creata una classe di sartoria e confezionamento abiti al quale si sono iscritte 40 donne.

Obiettivo

Il progetto di sartoria e confezione di tessuti è stato organizzato per rendere le donne indipendenti grazie a guadagni ottenuti lavorando da casa. Questo obiettivo è stato scelto considerando la situazione attuale in Afghanistan, dove il lavoro per le donne è inesistente o molto limitato.

Attività di avanzamento del progetto

Il primo passaggio necessario è stato trovare una sede sicura, in cui le donne si potessero trovare per seguire il corso. L’opzione migliore è stata quella di trovare una sarta professionista disposta a permettere alle donne di andare a casa sua per imparare a confezionare i vestiti. Poiché i talebani non consentono di portare avanti progetti per le donne, il luogo doveva essere tenuto segreto.

Fortunatamente una delle associazioni che CISDA sostiene è riuscita a trovare una sarta professionista pronta a gestire il corso con le studentesse.

L’istruttrice di sartoria era disposta ad accettare il rischio e la sfida, perché sostiene che le donne debbano essere autosufficienti e contribuiscano al reddito della famiglia. Inoltre le condizioni economiche di tutte le persone stanno peggiorando ogni giorno di più e questi corsi possono aiutare molte famiglie a sostenersi e a ottenere un reddito adeguato e dignitoso.

Dopo aver assunto la sarta e affittato la sede, sono state acquistate le attrezzature e i materiali per il centro. Il progetto non poteva coinvolgere troppe donne perché avrebbe attirato l’attenzione e così ne sono state selezionate 40. Sono quindi state acquistate 40 macchine per cucire.

Dopo questo ulteriore passaggio sono state istruite le beneficiarie del progetto in modo che la notizia non si diffondesse e arrivasse alle autorità; la notizia è stata fatta circolare con l’aiuto di anziani locali e di persone colte, e le donne disposte a partecipare sono state ammesse nel centro.

Consapevolezza

Oltre a fornire alle donne il corso di sartoria, è stata organizzato un programma che verteva su questioni sanitarie e sul diritto delle donne al lavoro. Questi programmi di sensibilizzazione sono stati condotti su basi regolari affinché le donne venissero aggiornate sui loro diritti e sulla loro salute.