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Autore: Patrizia Fabbri

CISDA – Stop fondamentalismi. Stop Apartheid di genere

L’articolo è stato pubblicato su ANPI Oggi e Domani del dicembre 2024

Dopo quasi tre mesi è terminato il lungo periodo in Italia di Shakiba, militante di Rawa (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sostenuta da Cisda dal lontano 1999

La sua presenza in molteplici iniziative sul territorio, con ampia partecipazione ovunque, è stata molto preziosa per poter ascoltare dalla sua voce come vivono le donne in questo momento in Afghanistan ma soprattutto come le attiviste di Rawa, che sono rimaste nel paese, hanno deciso di continuare la lotta politica e di resistenza al regime talebano misogino e fondamentalista.

Sentire dalla sua voce cosa significa lottare e resistere, anche dalla clandestinità, in quel paese è stato molto importante; manifestare è molto pericoloso ma le donne non si fermano, per tutte loro può voler dire essere arrestate, torturate e avolte anche uccise come già successo.

Le costrizioni che i talebani hanno imposto alle donne sono molteplici; non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire sole ma devono essere accompagnate da un uomo, non possono far sentire la loro voce, le donne indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione; insomma qualsiasi cosa è loro preclusa, vivono in un regime di apartheid dimenticate un po’ da tutti ma non da chi vuole fare affari con i talebani a scapito dei diritti umani e riconoscendo così di fatto quel regime

Il paese vive una forte crisi umanitaria, non c’è lavoro, non ci sono soldi, si vive in uno stato di miseria, le inondazioni di quest’autunno hanno aggravato la situazione di interi villaggi che,  governate da talebani, non hanno ricevuto aiuti.

Noi continuiamo a sostenerle sia politicamente che con progetti che loro stesse hanno avviato;   attraverso raccolte fondi e progetti riusciamo ad inviare danaro per le loro attività, dalle scuole segrete per ragazze e donne, a piccoli shelter ecc. Aggiornamenti su tutto questo su www.cisda.it

Ora che Shakiba è tornata in Afghanistan spetta a noi di Cisda continuare ad essere la loro voce e tenere alta l’attenzione sulle condizione di apartheid che stanno vivendo le donne in quel paese

Cosa abbiamo fatto in questo ultimo periodo

Con la rete di associazioni con la quale collaboriamo in Italia e in Europa, abbiamo lanciato una campagna “STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENEREche vuole spingere il nostro Governo – in quanto membro delle Nazioni Unite e di Istituzioni Internazionali – a prendere posizione contro il governo di fatto dei Talebani e a sostenere la proposta di codificazione del reato di Gender Apartheid nei Trattati Internazionali.

Come prima azione della Campagna abbiamo avviato una PETIZIONE in occasione della giornata mondiale per i diritti umani: potete firmarla direttamente sul sito Cisda, sia individualmente che come Associazione, Enti, Partiti ecc. aiutandoci a sostenerla e a diffonderla.

Il CISDA, in collaborazione con alcune giuriste, ha inoltre redatto e inviato una proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU.

Il 2024 per le donne afghane. Il CISDA è sempre al loro fianco

NON dimenticare anche tu le donne afghane.

  1.  all’apartheid di genere come crimine contro l’umanità.
  2. NO al riconoscimento, giuridico o di fatto, del regime fondamentalista talebano.
  3.  al sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche.

Sono questi i 3 obiettivi che si pone la campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE lanciata dal CISDA lo scorso 10 dicembre in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani.

FIRMA ANCHE TU

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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«Vi racconto come vivono, davvero, le donne in Afghanistan»

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino il 25 dicembre 2024

Shakiba, membro di RAWA (associazione che a Kabul lotta per i diritti umani), ci parla di un Paese caduto nel caos più totale – «Cosa potete fare voi che vivete in Occidente? Sensibilizzare l’opinione pubblica sul modo in cui i talebani sottomettono il popolo afghano»

Quando le chiediamo di raccontarci com’è cambiata la vita del popolo afghano da quel 15 agosto 2021, la faccia di Shakiba si fa cupa. «La caduta di Kabul». Basta nominarla e subito quel sorriso timido e cortese che, fino a pochi istanti prima, le aveva illuminato il viso, si spegne. Sospira, profondamente.

Poi inizia a raccontarci di quell’incubo senza risveglio che è la quotidianità della popolazione afghana. «Negli ultimi tre anni la situazione è divenuta catastrofica. Gli Stati Uniti hanno consegnato il governo dell’Afghanistan a quegli stessi talebani che dicevano di star combattendo, e dei quali ora vogliono dipingere una versione più moderata». Ma non c’è nulla di moderato nelle politiche dei talebani, sempre più violenti – anzi – nei confronti della popolazione, specialmente femminile. Lo scorso mese di agosto, per fare un esempio, i talebani hanno imposto una nuova legge con la quale vietare alle donne di parlare in pubblico: solo una delle disumane regole, contrarie ai diritti umani, volute dal gruppo fondamentalista.

«I talebani sono fondamentalisti. Sono cresciuti nelle madrase (scuole islamiche, ndr) afghane con la mentalità del terrorismo e della lotta alle donne». Donne alle quali, per fare un altro esempio, non permettono di studiare. Donne che oggi sono costrette a nascondersi per aver accesso all’istruzione. Donne che oggi, nella società afghana, hanno perso ogni diritto. Donne come Shakiba, che oggi si racconta, protetta dall’anonimato, mostrando al mondo che cosa significa, davvero, vivere in Afghanistan oggi. Sotto il regime dei talebani, in un Paese senza libertà.

La voce di RAWA

Con Shakiba ci troviamo negli stabili dell’USI: è qui per raccontare agli studenti – in un paio di corsi proposti dall’ateneo – la propria storia. Non è la prima volta che lo fa: da qualche mese, con il sostegno del CISDA (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane), gira varie strutture fra Italia e Germania. Poi tornerà in Afghanistan, a combattere per i diritti delle donne e non solo. Lei fa parte di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan): un’associazione «clandestina» – fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal – che da più di quarant’anni è attiva in ambito politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana. È per questo che a noi si presenta con uno pseudonimo, chiedendo di non essere fotografata in viso: «Se queste informazioni dovessero arrivare ai talebani, al mio ritorno sarei imprigionata».

Shakiba ci racconta di RAWA: «I nostri obiettivi e le nostre idee si fondano su principi come la libertà, la democrazia e l’indipendenza, ma anche su un governo laico. Per queste ragioni, siamo sempre stati visti come “clandestini”, e siamo sempre sotto continua minaccia», ci racconta. Anche con Ashraf Ghani al potere, il presidente che fu poi rovesciato dai talebani, le donne di RAWA si sono opposte al governo e alle sue politiche «sbagliate». «Manifestavamo e alzavamo la voce attraverso i media, il nostro sito web e la nostra rivista. Siamo state noi a sensibilizzare l’opinione pubblica, mostrando la reale situazione dell’Afghanistan in quel periodo». Superficialmente, racconta, tutto sembrava andare bene. Ma anche prima della caduta di Kabul, la situazione in Afghanistan era tutt’altro che idilliaca. «Alle donne era permesso andare a scuola e lavorare. Ma l’Afghanistan stava già diventando un centro di terrorismo». Migliaia e migliaia le vittime di una guerra mai sopita, mentre i talebani crescevano sempre più forti, finanziati da un mercato illegale, quello dell’oppio, da loro controllato. Al momento della caduta di Kabul, l’80% della produzione mondiale di oppio mondiale passava dall’Afghanistan. «La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo».

Ed è qui che entra in gioco RAWA. «È nostro dovere parlare e fare pressioni sui governi in tutto il mondo, per non riconoscere il governo dei talebani, per non finanziarli e non sostenerli». Come? Attraverso i social media. Sì, la protesta e l’opposizione, a poco a poco, si è spostata soprattutto nel mondo virtuale. Prima, quando i talebani erano appena tornati al potere, Kabul era piena di persone in protesta, tra le quali molte donne. Alzavano la voce, si facevano sentire. Ma mese dopo mese, le piazze si sono svuotate. «Oggi sono pochi i gruppi che scendono ancora per le strade. Dopotutto, è risaputo: i talebani hanno il potere, e lo usano anche e soprattutto attraverso le armi, con cui disperdono le persone che manifestano». Se non sono pistole, racconta Shakiba, sono enormi cisterne d’acqua, rovesciate sui manifestanti. Ma c’è di molto peggio. «Protestare è molto pericoloso: le donne che manifestano spesso vengono imprigionate, torturate e violentate nelle carceri». Di qui lo sviluppo social: «Ormai, chi sceglie di manifestare lo fa attraverso i social media. È il modo più semplice, al momento, per far sentire la propria voce e per informare e sensibilizzare le persone, mostrando quella che è la reale situazione dell’Afghanistan». C’è chi scrive poesie, chi saggi. Chi rilascia dichiarazioni, chi propone slogan. Con la speranza che le proprie parole arrivino il più lontano possibile.

«Il lavaggio del cervello»

Fuori dal mondo social, però, la situazione è sempre più fuori controllo. «I talebani cercano di fare il lavaggio del cervello a tutti nelle madrase. Ce ne sono più di 17.000 in tutto il Paese e continuano ad aumentare, giorno dopo giorno. In ogni strada se ne trovano tre, quattro, cinque. Vogliono rendere i bambini di oggi futuri talebani e futuri terroristi. Non è un caso che le madrase siano uno dei pochi posti in cui anche le donne sono ammesse, senza alcun divieto».

Se l’unico studio ammesso è quello religioso, come crescere la società che verrà? Chi guiderà il Paese senza competenze? «Tutto ciò è molto pericoloso per il futuro dell’Afghanistan. Per questo RAWA ha deciso di fondare scuole clandestine nelle quali insegniamo scienze e matematica, ma anche storia e materie sociali, o come usare un computer».

Sono scuole segrete, dove si convive, ogni giorno, con la paura di essere scoperti. «Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne, alle quali non insegniamo solo materie scolastiche. Cerchiamo di sensibilizzarle anche sui loro diritti, sulle questioni sanitarie e di diverso genere che pensiamo siano importanti per loro. Facciamo il possibile per non farle vivere nell’ignoranza, sotto queste leggi medievali».

In tutto questo, le donne, però, non sono sole. «Le nostre opinioni sono incoraggiate da molte persone, perché la maggior parte del popolo è stufa del potere del fondamentalismo e non vuole più vivere sotto il controllo di un governo così selvaggio, criminale», confessa Shakiba. «È anche per questo che RAWA è attiva da più di quarant’anni: la gente è al nostro fianco. Le persone sono la ragione per cui siamo state in grado, per tutto questo tempo, di lottare e combattere».

Chi sceglie la fuga

Ma in Afghanistan, a non funzionare, non sono solamente i diritti umani. Quando a così ampie fette di popolazione non è consentito lavorare, portare tutti i giorni il cibo in tavola è, quantomeno, difficile. «Un altro grosso problema è quello della disoccupazione. La maggior parte delle persone ha perso il lavoro e oggi ci troviamo di fronte a una grande percentuale di disoccupati. Negli ultimi tre anni, i talebani hanno rimosso le persone dagli uffici governativi, mettendo a capo i loro uomini». Grandi percentuali della popolazione, insomma, vivono in povertà. Una condizione che mette le donne, specialmente le vedove, in una situazione di profonda crisi nella quale sfamare i propri figli è divenuta una lotta quotidiana.

Come non pensare, allora, alla fuga? Tre anni fa, quando gli americani se ne stavano andando, avevano sconvolto il mondo intero le immagini di afghani che, terrorizzati dal ritorno dei talebani, si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di lasciare il Paese. Alcuni, con la forza che solo la disperazione può dare, rimanevano avvinghiati finché i velivoli si sollevavano da terra: pochi secondi dopo, sconfitti dalla fisica, cadevano nel vuoto, verso la propria morte.

Oggi, la situazione non è molto diversa. Alcuni, ancora, provano a lasciare l’Afghanistan. Ma come? «Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi. Tanti giovani, soprattutto uomini, percorrono queste strade diretti verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, oppure verso i Paesi occidentali, con il solo scopo di trovare un posto sicuro dove vivere. Migliaia, però, perdono la vita nel tentativo di lasciare l’Afghanistan. In ottobre, più di 250 giovani afghani sono stati uccisi a colpi di pistola al confine tra Iran e Afghanistan».

Andarsene, evidenzia Shakiba, non è solo rischioso: è anche costoso, e burocraticamente complesso. «Solo una piccolissima percentuale di persone riesce a ottenere un visto, spesso grazie all’aiuto di ONG o associazioni in cui magari si ha lavorato in passato. E poi ci sono Paesi che non concedono visti agli afghani, come la Turchia e l’India. L’unico modo per riuscire a scappare molte volte, è quindi il contrabbando. Ma questa, chiaramente, è una situazione molto pericolosa».

La solidarietà del popolo, l’indifferenza dei governi

In Afghanistan c’è amarezza per l’operato delle Nazioni Unite. Fra fine giugno e inizio luglio 2024 – ne avevamo parlato qui – i vertici ONU avevano convocato la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan) piegandosi all’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit. «A noi era ovvio fin dal primo giorno, fin da quel 15 agosto del 2021, che le Nazioni Unite stessero trattando con i talebani. Hanno consegnato loro il governo, senza alcuna lotta, senza alcuna resistenza», commenta amaramente Shakiba. «I documenti che l’ONU rilascia non servono a nulla. Bisogna fare dei passi concreti. Se l’obiettivo è davvero quello di aiutare il popolo afghano bisogna introdurre delle misure, e smettere di finanziare i talebani. Solo in questo modo la nostra situazione cambierà».

Un resoconto pubblicato a inizio anno dal SIGAR (Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, organo del governo statunitense che si occupa di monitorare la ricostruzione dell’Afghanistan), mostra come i contanti statunitensi inviati a Kabul dall’ONU per sostenere le attività umanitarie nel Paese finiscano, spesso, sotto il controllo dei talebani, finanziandone le operazioni.

Quanto all’aiuto da parte degli Stati Uniti, Shakiba è disillusa. L’elezione di Trump come nuovo presidente, a suo dire, non cambierà le carte in tavola. «Per noi non cambierà nulla. Non importa se il presidente è una donna, un afrodiscendente, se è Donald Trump, Kamala Harris o Joe Biden. Chiunque salga al potere, negli Stati Uniti, deve seguire la stessa linea politica. E sebbene presidenti diversi possano prendere iniziative diverse per la propria nazione, la loro politica estera non cambia davvero». Nonostante da parte delle Nazioni Unite un aiuto concreto stenti ad arrivare, Shakiba riconosce le buone intenzioni del popolo, da tutto il mondo. «Quando pensiamo al sostegno che riceviamo, dividiamo sempre i governi dalla gente comune: i primi, a nostro avviso, si comportano in maniera crudele verso l’Afghanistan, mentre il popolo, che ama la libertà, è sempre stato accanto a noi». Anche se, chiaramente, con dei limiti.

«L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano. I cittadini dei Paesi europei e occidentali possono solo alzare la voce e stare vicino al popolo afghano, senza dimenticarlo». Giorno dopo giorno, l’Afghanistan si sente infatti sempre più abbandonato. Messo da parte. Vittima di un’immagine, quella di un Paese in mano a talebani “moderati” che non corrisponde alla verità. La verità di un Paese senza libertà.

Stop Gender Apartheid and the Fundamentalisms That Create It

“Gender Apartheid means any act, policy, practice, or omission systematically and institutionally committed by an individual, state, organization, entity, or group with the purpose or effect of establishing, maintaining, or perpetuating the domination of one gender over another through institutionalized segregation, oppression, or discrimination in political, economic, social, cultural, educational, professional, or other areas of public and private life.”

This is the definition for the crime of gender apartheid developed by CISDA, with the support of a team of legal experts, and sent directly (and through the Italian delegation) to the UN Sixth Committee, which is working on drafting a global treaty to prevent and punish crimes against humanity.

It is a complex task that the UN has been addressing for six years, but by the end of 2024, despite opposition from some countries, a roadmap was outlined. Although negotiations on the treaty itself are scheduled for 2028 and 2029, the timeline allows for member states and civil society to submit proposals to the Committee.

The Stop Fundamentalism – Stop Gender Apartheid Campaign

To support its contribution to this process, CISDA, along with a network of associations it collaborates with in Italy and Europe, launched the STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE campaign, highlighting the close link between fundamentalism and gender apartheid. As part of this campaign, a petition has been opened, calling on the Italian government to support the objectives summarized below and advocate for them at international institutions:

  1. Recognition of gender apartheid as a crime against humanity (on par with racial apartheid) within international treaties, applying to systematic and institutionalized crimes in Afghanistan.
  2. Non-recognition, either legally or de facto, of the Taliban fundamentalist regime, supporting actions by some countries to refer Afghanistan to the International Court of Justice for violations of the Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination Against Women, as well as to the International Criminal Court for further investigations into ongoing violations of women’s rights by the Taliban.
  3. Support for Afghan anti-fundamentalist and democratic forces not compromised by previous governments and fundamentalist parties, while denying political representation to members of previous Afghan governments, representatives of a corrupt political class.

Let us delve into each of these objectives to understand why they are so closely interconnected.

Why Gender Apartheid is a Crime Against Humanity

First, it is essential to note that the concept of “gender apartheid” has not yet been codified in international law as a crime. The crime of apartheid, as defined in the Rome Statute of the International Criminal Court, focuses on racial discrimination.

Human rights violations based on gender, such as sexual violence, rape, denial of reproductive rights, and gender segregation, have unique characteristics distinct from racial discrimination. Recognizing them as a crime would allow for the international legal system to address systematic violations targeting girls, women, and gender-nonconforming individuals, including LGBTQI+ people.

In the definition proposed by CISDA, key elements include institutionalized segregation, oppression, and discrimination, fundamental characteristics of historical apartheid regimes. The proposal emphasizes that these acts can be committed not only by state actors but also by non-state entities, such as organized groups. This distinction underscores the role non-state actors can play in committing and perpetuating severe human rights violations.

Additionally, the definition includes omission as a form of criminal conduct, where authorities fail to act to prevent or punish gender-based discrimination or violence.

The definition of “victims” encompasses any group identified by gender and individuals who are gender nonconforming—a critical expansion that extends protections beyond the traditional male-female binary and addresses discrimination and violent actions against LGBTQI+ individuals.

Why Fundamentalism Creates Gender Apartheid

CISDA has explicitly linked the concept of “fundamentalisms” (the plural is intentional) with gender apartheid, as it believes that gender-based discrimination and oppression are direct consequences of a fundamentalist approach to society—an approach not limited to Islam or religions in general.

Accustomed to associating fundamentalism with Islam, we often forget that the term originated from a Protestant religious movement in the United States in the late 19th century. This movement, opposing liberal Protestantism and all rationalistic and critical tendencies, imposed rigid and intransigent adherence to the “fundamentals” of Christianity.

Today, one only needs to consider extremist Christian anti-abortion movements to understand that fundamentalism is not exclusive to certain interpretations of Islam.

Moreover, fundamentalism is not confined to religion. The term also describes “the attitude of those who pursue an extremely conservative interpretation and a rigid and uncompromising implementation of a religion, political ideology, scientific theory, literature, etc.” For this reason, CISDA has chosen to use the plural form to advocate for stopping all forms of fundamentalism, whether religious, political, racial, or ideological.

The campaign and the petition specifically condemn the Taliban fundamentalist regime, responsible for suppressing the most basic human rights of civilians, especially women and LGBTQI+ individuals. This suppression is a deliberate attempt to establish a governmental system centered on a fundamentalist ideology with the primary goal of systematically and institutionally annihilating women.

Afghanistan represents the most emblematic case of “gender apartheid.” Women there cannot attend school, work, go out alone, visit parks or gardens, or use public restrooms. They cannot show their faces in public, sing, pray aloud, or participate in public and social life, being confined to their homes.

Why Support Afghanistan’s Anti-Fundamentalist, Democratic, and Progressive Forces

Although gender apartheid is a daily crime in Afghanistan, women’s self-determination faces severe limitations worldwide, including in the Western world. Thus, condemning fundamentalism goes hand in hand with promoting the value of secularism—the only effective safeguard against barbarity.

This brings us to the third objective of CISDA’s petition: supporting Afghanistan’s anti-fundamentalist and democratic forces not compromised by previous governments and fundamentalist parties. Secularism and adherence to democratic principles by opposition forces to an absolutist and fundamentalist regime are vital issues.

The situation in Afghanistan, largely forgotten by the media, serves as a stark warning for other countries, like Syria, where the joy for the fall of the criminal Bashar al-Assad risks being replaced by the terror of the fundamentalist group Tahrir al-Sham.

Afghanistan’s history is a cautionary tale: since the late 1970s, the country has suffered foreign interference from international and regional powers funding and arming fundamentalist groups. These events, common in many nations, have led to decades of war, civilian casualties, endemic corruption, drug trafficking, and the destruction of social and environmental fabrics, causing forced migrations.

However, Afghanistan also has democratic organizations, active since the 1970s, advocating for women’s equality and social justice, fundamental rights to education, legal defense, medical care, and liberation from poverty and violence. Organizations such as RAWA supported by CISDA since its inception, are examples of this resilience.

These men and women, despite having opportunities to leave the country after the Taliban’s return, have chosen to stay. They face daily risks under the repressive Taliban regime and continue to work alongside women, children, and a population primarily living in extreme poverty, oppression, and denial of basic human rights.

It is crucial to deny political representation to individuals linked to previous corrupt Afghan governments while supporting democratic and anti-fundamentalist forces. Too often, ambiguous figures compromised by past regimes present themselves as defenders of Afghan women’s rights.

“Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere”. La campagna del Cisda

“Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”. È questa la definizione per il crimine di apartheid di genere che il CISDA, con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente, e attraverso la delegazione italiana, alla VI Commissione dell’ONU che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

È un lavoro complesso, sul quale l’ONU si sta confrontando da sei anni, ma alla fine del 2024, nonostante l’ostruzionismo di alcuni paesi, è stato delineato un percorso che, sebbene molto lungo dato che le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste nel 2028 e 2029, definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione.

La Campagna Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di Genere

Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il CISDA, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la Campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere. Nell’ambito di questa Campagna è stata aperta una raccolta firme per una Petizione con la quale si chiede Governo italiano di sostenere gli obiettivi di seguito sintetizzati e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali:

  • Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità(al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.
  • Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebanosostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella di deferimento dell’Afghanistan per ulteriori indagini alla Corte Penale Internazionale sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.
  • Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi.

Perché l’apartheid di genere è un crimine contro l’umanità

Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto il crimine di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale.

Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone LGBTQI+.

Nella definizione proposta dal CISDA, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi oltre da attori statali, anche da attori non statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che gli attori non statali possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone LGBTQI+.

Perché i fondamentalismi creano apartheid di genere

Il CISDA ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine ‘800, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario ecc.”. Per questo CISDA ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire STOP a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.

 

Concretamente la Campagna, e di conseguenza la Petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.

Perché sostenere le forze antifondamentaliste, democratiche e progressiste dell’Afghanistan

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella Petizione del CISDA: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere al gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali: a partire dalla fine degli anni ’70, è un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni ’70, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Organizzazioni, per esempio, come RAWA o HAWCA che CISDA sostiene dalla sua nascita.

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione la cui maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso, infatti, si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.


L’articolo è precedentemente uscito su Altreconomia.

SBS Australia – Il regime dei talebani “considera le donne come un pericolo per la società”

SBS Australia intervista Beatrice Biliato di CISDA. Ascoltala a partire dal minuto 1:10

 

 

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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