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Autore: Patrizia Fabbri

Lettera di Kongra-Star a Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria

La Siria si trova in una fase critica e i recenti sviluppi richiedono una risposta internazionale efficace per evitare il caos e raggiungere una transizione politica completa e sostenibile. In questo contesto, sottolineiamo la necessità di lavorare in conformità con la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce il quadro giuridico delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica che ponga fine alle sofferenze del popolo siriano e rispetti i diritti di tutti i suoi componenti. Riteniamo che un elemento essenziale per costruire una Siria democratica e stabile sia garantire la partecipazione delle donne siriane in tutte le fasi di un processo politico basato sulla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle donne, la pace e la sicurezza.

La Siria oggi affronta una serie di sfide serie, a partire dall’escalation militare in corso, in particolare con i ripetuti attacchi da parte della Turchia sulla Siria settentrionale, come possiamo osservare a Manbij. Questi attacchi non solo minano la sicurezza, ma provocano anche sfollamento di migliaia di persone e rafforzano l’attività delle cellule dormienti dell’ISIS, che rappresentano una minaccia a livello locale, regionale e internazionale.

Le persone che vivono in condizioni drammatiche nei campi profughi a nord di Aleppo (Shehba) dal 2018 a seguito dell’occupazione turca di Afrin, sono state sfollate con la forza per la seconda volta. Questi sfollati, soprattutto donne e bambini, vivono in condizioni umanitarie catastrofiche, poiché ancora non sono arrivati aiuti internazionali e l’Amministrazione Autonoma Democratica nord-est della Siria deve affrontare questa sfida da sola. Gli sforzi profusi dall’Amministrazione Autonoma e da iniziative comunitarie per far fronte all’aggravarsi della crisi non sono sufficienti e si rende indispensabile un rapido intervento internazionale.

Questa crisi è particolarmente dura per le donne e i bambini, che subiscono maggiormente il peso degli attacchi e della violenza. In quanto organismo internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali avete la responsabilità di adottare misure decisive e immediate per contenere la situazione ed evitare un ulteriore deterioramento.

Vi chiediamo pertanto di:

  1. Esercitare pressioni immediate sulla Turchia per fermare gli attacchi e l’escalation.

Chiediamo alle Nazioni Unite di agire urgentemente per esercitare pressioni sulla Turchia e sui gruppi armati che sostiene affinché cessino i ripetuti attacchi militari nella Siria settentrionale, per garantire la protezione della popolazione civile e preservare la sicurezza regionale. Questi attacchi non solo minacciano la stabilità della Siria, ma contribuiscono anche all’aggravarsi della crisi umanitaria e allo sfollamento di migliaia di civili. Chiediamo anche l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Shehba che permettano agli aiuti umanitari di raggiungere le persone colpite e fornire protezione ai civili intrappolati nelle aree colpite.

  1. Mantenere la sicurezza regionale e impedire il ritorno dei gruppi terroristici.

Chiediamo un’azione internazionale decisiva per prevenire la ricomparsa di gruppi terroristici come l’ISIS nelle aree di escalation. Questi gruppi stanno usando l’attuale caos per espandere le loro operazioni e rappresentano una grave minaccia alla sicurezza regionale e internazionale.

  1. Avviare la soluzione politica in conformità con la risoluzione 2254.

Garantire l’accelerazione dei negoziati politici sotto la supervisione delle Nazioni Unite e fornire meccanismi chiari per gestire la transizione in modo equo e sostenibile. Concentrarsi sulla protezione dell’unità e della sovranità della Siria e garantire i diritti di tutte le componenti etniche, religiose e culturali del paese, nonché i diritti delle donne.

  1. Garantire l’inclusione delle donne nella nuova costituzione siriana in linea con la risoluzione 1325.

Garantire la partecipazione delle donne a tutte le fasi dei negoziati e della transizione politica per assicurare il loro ruolo attivo nella costruzione della pace e della giustizia sociale. Rafforzare le misure per proteggere le donne dalla violenza e dallo sfruttamento e sostenere le donne nei ruoli di leadership nella fase successiva.

  1. Affrontare il problema degli sfollati forzati e proteggere gli sfollati.

Fornire un sostegno urgente agli sfollati di Afrin e di altre aree e garantire il loro ritorno sicuro alle loro zone di origine. Fornire protezione internazionale per porre fine alle violazioni e garantire la sicurezza nel nord della Siria.

  1. Aumentare gli aiuti umanitari.

Fornire assistenza umanitaria urgente alle aree che ospitano persone sfollate, in particolare nel nord-est della Siria, per alleviare la pressione sulle infrastrutture e soddisfare i bisogni di base. Sviluppare un piano delle Nazioni Unite per fornire assistenza a lungo termine che contribuisca alla ricostruzione e alla stabilizzazione.

Il popolo siriano ha sofferto per anni sotto il flagello della guerra e del conflitto, e la pace e la stabilità possono essere raggiunte solo attraverso una soluzione politica giusta e democratica che metta l’interesse del popolo al di sopra di tutto e garantisca che tutte le componenti, soprattutto le donne, siano coinvolte nella definizione del futuro del paese.

Cordiali saluti

Kongra Star

9 dicembre 2024

Scarica la lettera in inglese

Teleradiopace TV – Servizio sulla campagna Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di Genere

Teleradiopace TV intervista Licia Veronesi, attivista CISDA, sulla Campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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Stop Fondamentalismi – Stop Aparthied di Genere

Firma la petizione, compila il modulo:

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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What we fight for

What We Fight For è un documentario che racconta le storie di tre giovani donne costrette a lasciare la propria vita in Afghanistan e Iran e che hanno ricostruito la loro vita in Europa. Tre voci diverse che si intrecciano per raccontare storie di migrazioni, di oppressione, di violazioni dei diritti umani, ma anche di forza e speranza per le generazioni future. Nahid Akbari, Eli e Sude Fazlollah, attraverso le loro storie portano alla luce temi attuali e fondamentali nella narrazione dei diritti umani oggi nel
mondo. Dalle donne iraniane oppresse dal regime degli Ayatollah fino all’infanzia negata dei bambini nei campi profughi, fino alle persone migranti in viaggio da anni lungo le rotte costellate di violenza, indifferenza, abbandono. Tre sguardi diversi, uniti dal desiderio di cambiare le cose per chi verrà dopo di loro.

Scheda tecnica

  • Anno di uscita: 2024
  • Regia: Sara Del Dot, Carlotta Marrucci
  • Musiche: Cristian Labelli
  • Fotografia: Marta Erika Antonioli
  • Montaggio: Carlotta Marrucci
  • Produzione: Nieminen Film, Oki Doki Film
  • Distributore: Nieminen Film

Fuorché il silenzio

Fuorché il silenzio è una raccolta che comprende trentasei storie vere, semplici e dirette che aprono una finestra su vissuti reali in cui la tragedia e il trauma non corrompono i valori dell’esistenza. La pubblicazione di queste testimonianze andrebbe inserita in un genere letterario assimilabile all’autobiografia, se non fosse che nel contesto afghano attuale tale pratica comporta dei rischi enormi, in particolare per le donne. Raccontare la propria storia è per molte donne afghane un modo, a volte l’unico modo, per esistere nella sfera pubblica. Parlare, scrivere, perfino pronunciare il proprio nome è una forma di resistenza al ruolo subalterno e alla discriminazione che subiscono: il racconto diventa una forma di auto-determinazione rispetto alle narrazioni imposte da fuori e da altri o da altre. Alcune di queste donne sono famose per le loro vicende politiche e personali, altre sono sconosciute, ma il filo che le lega è la volontà di perseguire ciò che oggi sembra impossibile. La lettura delle loro storie mette un seme nelle nostre menti i cui frutti sono ignoti ma inevitabili.

Le autrici di questa raccolta sono trentasei donne afghane, attiviste per i diritti civili che, al ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan (agosto 2021), hanno intrapreso proteste e manifestazioni contro le leggi sempre più restrittive dei diritti delle donne imposte dal loro regime. Zainab Entezar – regista e scrittrice – ha raccolto le testimonianze e Asef Soltanzadeh – scrittore afghano emigrato in Iran e ora residente in Danimarca – ne ha curato l’edizione e la stampa. Daniela Meneghini – docente di Lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia – coadiuvata da alcuni collaboratori, ne ha curato la prima traduzione in una lingua europea.

Editoriale Juvence, 2024, pp. 594

Il patriarcato non è morto, ma c’è di peggio

Articolo pubblicato su Abitare a Roma

Dopo le infauste dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara sul patriarcato e sui femminicidi (di cui, secondo il politico leghista, avrebbero colpa – per la parte maggiore – i migranti che arrivano da noi), rilasciate durante un intervento videotrasmesso alla presentazione, presso la Camera dei Deputati, della costituenda Fondazione intitolata alla Memoria di Giulia Cecchettin, molto si continua a discutere della condizione della donna nel nostro Paese, anche in relazione alla piaga sociale (meglio al crimine) delle donne picchiate, abusate e uccise (99 dall’inizio del 2024 ad oggi),  per l’83% da maschi bianchi, italiani e di buona famiglia, che con quelle donne vivevano, avevano convissuto o intrecciato una relazione sentimentale.

Ma ci sono luoghi nel mondo – come, ad esempio, l’Afganistan – dove la situazione delle donne è di molto peggiore che da noi; peggiore in un modo che è difficile immaginare anche se chi quella condizione ce la racconta è davanti a noi, in carne ed ossa, deve vivere anonimamente per non rischiare la vita e per testimoniare della condizione barbara in cui lei stessa e le sue sorelle vivono deve uscire clandestinamente dal suo Paese, anche per questo rischiando la vita.

Ma lo fa perché anche la Memoria è resistenza e perché questa Memoria sia conosciuta e trasmessa, dovunque ed in qualunque modo sia possibile, azione di cui lei e le donne del suo Paese, l’Afganistan oggi talebano, hanno un estremo (e disperato) bisogno.

Ne hanno bisogno perché nonostante tutto, nelle Scuole clandestine, che hanno creato e gestiscono (e di cui appresso leggerete) continuano a lottare costruendo, giorno dopo giorno, momenti di conoscenza e coscienza del proprio essere persone e dei propri diritti; momenti questi molto importanti per le donne afgane.

La donna afgana, la militante politica, di cui in particolare scrivo qui si chiama Shakiba (alias di sicurezza per la sua esistenza in vita), un’attivista di RAWA e appresso trovate una sua intervista, pubblicata qualche giorno fa sul Quotidiano Domani.

Per “capire e capirci”, come spesso scrivo, leggere attentamente le righe che seguono e riflettere a lungo, cercando di non dimenticare quanto apprenderete.

E se potete – e ne avete (o vi costruite) l’occasione – anche voi fate sentire la vostra voce per queste donne che, certo, lottano per i loro diritti ma, nello stesso momento, lo fanno – rischiando la vita quotidianamente – anche per i nostri diritti, che spesso pratichiamo distrattamente, poiché ci paiono acquisiti per sempre, anche se potremmo perderli in ogni momento. Dunque: alziamo la nostra voce per chi non può parlare!

Le Scuole clandestine in Afghanistan: «Insegniamo alle donne a resistere ai Talebani»

Con il ritorno degli studenti coranici il paese è ripiombato nel buio. E alcune associazioni, come Rawa, fanno lezioni di nascosto. Dialogo con Shakiba, attivista afghana per i diritti

C’è un luogo nel mondo in cui l’erosione dei diritti delle donne sembra non avere mai fine. Vengono ridotti all’osso, fino a diventare polvere. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, anche soltanto essere donna è diventato un crimine.

Alle ragazze è vietato studiare dopo aver compiuto 12 anni, le donne non posso lavorare, soprattutto negli uffici pubblici. I Talebani hanno chiuso le scuole di musica, di arte e di teatro, bruciato gli strumenti musicali. Il cosiddetto ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha recentemente approvato una legge in cui vieta alle donne di cantare e far sentire la propria voce fuori di casa.

Una vita sotto controllo:

«Le donne vivono costantemente sotto il controllo di questo governo misogino e fondamentalista, che esercita il potere puntando le armi contro le persone. Dobbiamo uscire di casa coperte dalla testa ai piedi, sempre accompagnate da un uomo. Leggi di questo genere vengono approvate praticamente ogni giorno. Un recente provvedimento impedisce alle televisioni di mostrare figure umane, stanno setacciando anche le librerie per eliminare le immagini».

Shakiba, pseudonimo che usa per nascondere la propria identità e garantire la propria sicurezza, lavora costantemente e in prima persona sul territorio afghano per aiutare il suo popolo, in particolare le donne, a resistere alla condizione in cui si trovano. Fa parte di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, fondata nel 1977 da Meena, assassinata dieci anni dopo.

Le attiviste di Rawa lavorano nell’anonimato per promuovere resistenza silenziosa e denunciare i crimini che avvengono nel loro Paese. «Molte donne vengono molestate, arrestate, torturate, uccise, avvengono sparizioni forzate in tutto il Paese solo per silenziare la loro voce. Pochi mesi fa alcune ragazze sono scomparse e quando sono state rilasciate alcune di loro si sono suicidate», racconta.

La situazione psicologica è drammatica: «È dura per tutti, non solo per le donne. Nel 2021 siamo tutti rimasti traumatizzati da ciò che è accaduto. E oggi viviamo guardando questi uomini armati dappertutto per strada. La situazione economica del paese è talmente precaria che alcune persone vendono gli organi in mercati particolari, ci sono famiglie estremamente povere che stanno vendendo le loro figlie, per tirare avanti solo pochi mesi. Tante persone stanno andando via, scegliendo strade rischiose per arrivare in Europa».

La resistenza:

Incontriamo Shakiba a Desio, nel corso di una sua visita in Italia organizzata da Cisda per portare la voce delle donne afghane fuori dai confini, fino a noi. Perché, dice, «le persone e i media si sono dimenticati del popolo afghano, pensano che la situazione si stia sistemando, ma non è così, quindi è importante venire qui e raccontarlo».

Da tempo Shakiba prosegue la sua lotta al fianco delle sue compagne. Le loro armi? Educazione, solidarietà, informazione. Concetti che a noi suonano comuni, quasi scontati, ma che a Kabul rappresentano un rischio enorme, ogni giorno.

«Organizziamo attività educative, per aiutare le persone a difendere i propri diritti e decidere per sé stesse. Facciamo lezioni in casa per le ragazze, su tutte le materie, anche scienze, e lavoriamo per accrescere la consapevolezza sociale. Cerchiamo di mantenerle attive ma anche attente. Abbiamo anche una squadra mobile per portare aiuti sanitari ai villaggi più remoti colpiti da alluvioni o terremoti, curiamo soprattutto le donne, ma non solo, e distribuiamo pacchi alimentari alle persone che ne hanno bisogno in tutto l’Afghanistan.

È fondamentale anche condurre azioni politiche, che tuttavia non possiamo mettere in atto in spazi pubblici. Noi e tutti gli altri che si oppongono al regime usiamo molto i social media. Cerchiamo di mantenere anche la celebrazione di anniversari importanti come l’8 marzo o la data di uccisione della nostra fondatrice, anche se tutte queste cerimonie devono essere organizzate clandestinamente. Ma soprattutto documentiamo tutti i crimini contro i diritti umani avvenuti in Afghanistan dall’occupazione sovietica fino a oggi. Il nostro obiettivo è portare un giorno questi criminali davanti ai tribunali internazionali».

Rawa è stata la prima organizzazione a mostrare al mondo i crimini dei signori della guerra, filmandoli con micro camere nascoste sotto al burqa. «È rischioso, ma se vuoi vivere in un paese libero e democratico non c’è altra scelta. Se lasciassi il Paese migliorerei solo la mia vita. Restando, posso contribuire a migliorare quella di tutti».

I Talebani temono l’istruzione:

Uno dei punti chiave del cambiamento è l’istruzione. La stessa che, racconta, fa così paura al governo talebano. «Sono le donne a restare la maggior parte della giornata a casa a occuparsi dei bambini. E quindi se le donne sono educate possono educare anche i loro figli, la famiglia e quindi la società intera. Per questo le schiacciano, violano il loro diritto all’istruzione perché restino ignoranti.

Sanno che se le donne si uniscono e alzano la voce possono creare cambiamento. E per questo con le nostre lezioni a casa noi pratichiamo una forma di resistenza. Loro ci impediscono di studiare, noi resistiamo imparando comunque. Ci sono tante donne che stanno combattendo per i loro diritti, con il rischio di essere arrestate o peggio. Resistono attraverso le loro case, i social media, condividendo arte, poesie, anche questo è un modo di essere attiviste».

E gli uomini? «Molti uomini sono solidali con noi, ma non possono mostrarlo in pubblico, perché verrebbero uccisi immediatamente».

Le donne di Rawa continuano a lottare, per la loro libertà e quella di tutti gli altri. Sono vicine alle persone di Gaza, dell’Iran, a tutti i popoli che stanno soffrendo nel mondo.

«Vogliamo la libertà e fare azioni di resistenza insieme, possiamo fermare tutto questo, ma possiamo farlo solo attraverso la solidarietà. A tutti voi chiediamo di fare pressione affinché i vostri governi non normalizzino il governo talebano, è un governo fondamentalista che non deve essere legittimato, perché questo non aiuterà la popolazione e le donne dell’Afghanistan. Non dimenticateci».