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Autore: Patrizia Fabbri

Teleradiopace TV – Servizio sulla campagna Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di Genere

Teleradiopace TV intervista Licia Veronesi, attivista CISDA, sulla Campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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Stop Fondamentalismi – Stop Aparthied di Genere

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STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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What we fight for

What We Fight For è un documentario che racconta le storie di tre giovani donne costrette a lasciare la propria vita in Afghanistan e Iran e che hanno ricostruito la loro vita in Europa. Tre voci diverse che si intrecciano per raccontare storie di migrazioni, di oppressione, di violazioni dei diritti umani, ma anche di forza e speranza per le generazioni future. Nahid Akbari, Eli e Sude Fazlollah, attraverso le loro storie portano alla luce temi attuali e fondamentali nella narrazione dei diritti umani oggi nel
mondo. Dalle donne iraniane oppresse dal regime degli Ayatollah fino all’infanzia negata dei bambini nei campi profughi, fino alle persone migranti in viaggio da anni lungo le rotte costellate di violenza, indifferenza, abbandono. Tre sguardi diversi, uniti dal desiderio di cambiare le cose per chi verrà dopo di loro.

Scheda tecnica

  • Anno di uscita: 2024
  • Regia: Sara Del Dot, Carlotta Marrucci
  • Musiche: Cristian Labelli
  • Fotografia: Marta Erika Antonioli
  • Montaggio: Carlotta Marrucci
  • Produzione: Nieminen Film, Oki Doki Film
  • Distributore: Nieminen Film

Fuorché il silenzio

Fuorché il silenzio è una raccolta che comprende trentasei storie vere, semplici e dirette che aprono una finestra su vissuti reali in cui la tragedia e il trauma non corrompono i valori dell’esistenza. La pubblicazione di queste testimonianze andrebbe inserita in un genere letterario assimilabile all’autobiografia, se non fosse che nel contesto afghano attuale tale pratica comporta dei rischi enormi, in particolare per le donne. Raccontare la propria storia è per molte donne afghane un modo, a volte l’unico modo, per esistere nella sfera pubblica. Parlare, scrivere, perfino pronunciare il proprio nome è una forma di resistenza al ruolo subalterno e alla discriminazione che subiscono: il racconto diventa una forma di auto-determinazione rispetto alle narrazioni imposte da fuori e da altri o da altre. Alcune di queste donne sono famose per le loro vicende politiche e personali, altre sono sconosciute, ma il filo che le lega è la volontà di perseguire ciò che oggi sembra impossibile. La lettura delle loro storie mette un seme nelle nostre menti i cui frutti sono ignoti ma inevitabili.

Le autrici di questa raccolta sono trentasei donne afghane, attiviste per i diritti civili che, al ritorno dei talebani al governo dell’Afghanistan (agosto 2021), hanno intrapreso proteste e manifestazioni contro le leggi sempre più restrittive dei diritti delle donne imposte dal loro regime. Zainab Entezar – regista e scrittrice – ha raccolto le testimonianze e Asef Soltanzadeh – scrittore afghano emigrato in Iran e ora residente in Danimarca – ne ha curato l’edizione e la stampa. Daniela Meneghini – docente di Lingua e letteratura persiana all’Università Ca’ Foscari di Venezia – coadiuvata da alcuni collaboratori, ne ha curato la prima traduzione in una lingua europea.

Editoriale Juvence, 2024, pp. 594

Il patriarcato non è morto, ma c’è di peggio

Articolo pubblicato su Abitare a Roma

Dopo le infauste dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara sul patriarcato e sui femminicidi (di cui, secondo il politico leghista, avrebbero colpa – per la parte maggiore – i migranti che arrivano da noi), rilasciate durante un intervento videotrasmesso alla presentazione, presso la Camera dei Deputati, della costituenda Fondazione intitolata alla Memoria di Giulia Cecchettin, molto si continua a discutere della condizione della donna nel nostro Paese, anche in relazione alla piaga sociale (meglio al crimine) delle donne picchiate, abusate e uccise (99 dall’inizio del 2024 ad oggi),  per l’83% da maschi bianchi, italiani e di buona famiglia, che con quelle donne vivevano, avevano convissuto o intrecciato una relazione sentimentale.

Ma ci sono luoghi nel mondo – come, ad esempio, l’Afganistan – dove la situazione delle donne è di molto peggiore che da noi; peggiore in un modo che è difficile immaginare anche se chi quella condizione ce la racconta è davanti a noi, in carne ed ossa, deve vivere anonimamente per non rischiare la vita e per testimoniare della condizione barbara in cui lei stessa e le sue sorelle vivono deve uscire clandestinamente dal suo Paese, anche per questo rischiando la vita.

Ma lo fa perché anche la Memoria è resistenza e perché questa Memoria sia conosciuta e trasmessa, dovunque ed in qualunque modo sia possibile, azione di cui lei e le donne del suo Paese, l’Afganistan oggi talebano, hanno un estremo (e disperato) bisogno.

Ne hanno bisogno perché nonostante tutto, nelle Scuole clandestine, che hanno creato e gestiscono (e di cui appresso leggerete) continuano a lottare costruendo, giorno dopo giorno, momenti di conoscenza e coscienza del proprio essere persone e dei propri diritti; momenti questi molto importanti per le donne afgane.

La donna afgana, la militante politica, di cui in particolare scrivo qui si chiama Shakiba (alias di sicurezza per la sua esistenza in vita), un’attivista di RAWA e appresso trovate una sua intervista, pubblicata qualche giorno fa sul Quotidiano Domani.

Per “capire e capirci”, come spesso scrivo, leggere attentamente le righe che seguono e riflettere a lungo, cercando di non dimenticare quanto apprenderete.

E se potete – e ne avete (o vi costruite) l’occasione – anche voi fate sentire la vostra voce per queste donne che, certo, lottano per i loro diritti ma, nello stesso momento, lo fanno – rischiando la vita quotidianamente – anche per i nostri diritti, che spesso pratichiamo distrattamente, poiché ci paiono acquisiti per sempre, anche se potremmo perderli in ogni momento. Dunque: alziamo la nostra voce per chi non può parlare!

Le Scuole clandestine in Afghanistan: «Insegniamo alle donne a resistere ai Talebani»

Con il ritorno degli studenti coranici il paese è ripiombato nel buio. E alcune associazioni, come Rawa, fanno lezioni di nascosto. Dialogo con Shakiba, attivista afghana per i diritti

C’è un luogo nel mondo in cui l’erosione dei diritti delle donne sembra non avere mai fine. Vengono ridotti all’osso, fino a diventare polvere. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, anche soltanto essere donna è diventato un crimine.

Alle ragazze è vietato studiare dopo aver compiuto 12 anni, le donne non posso lavorare, soprattutto negli uffici pubblici. I Talebani hanno chiuso le scuole di musica, di arte e di teatro, bruciato gli strumenti musicali. Il cosiddetto ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha recentemente approvato una legge in cui vieta alle donne di cantare e far sentire la propria voce fuori di casa.

Una vita sotto controllo:

«Le donne vivono costantemente sotto il controllo di questo governo misogino e fondamentalista, che esercita il potere puntando le armi contro le persone. Dobbiamo uscire di casa coperte dalla testa ai piedi, sempre accompagnate da un uomo. Leggi di questo genere vengono approvate praticamente ogni giorno. Un recente provvedimento impedisce alle televisioni di mostrare figure umane, stanno setacciando anche le librerie per eliminare le immagini».

Shakiba, pseudonimo che usa per nascondere la propria identità e garantire la propria sicurezza, lavora costantemente e in prima persona sul territorio afghano per aiutare il suo popolo, in particolare le donne, a resistere alla condizione in cui si trovano. Fa parte di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, fondata nel 1977 da Meena, assassinata dieci anni dopo.

Le attiviste di Rawa lavorano nell’anonimato per promuovere resistenza silenziosa e denunciare i crimini che avvengono nel loro Paese. «Molte donne vengono molestate, arrestate, torturate, uccise, avvengono sparizioni forzate in tutto il Paese solo per silenziare la loro voce. Pochi mesi fa alcune ragazze sono scomparse e quando sono state rilasciate alcune di loro si sono suicidate», racconta.

La situazione psicologica è drammatica: «È dura per tutti, non solo per le donne. Nel 2021 siamo tutti rimasti traumatizzati da ciò che è accaduto. E oggi viviamo guardando questi uomini armati dappertutto per strada. La situazione economica del paese è talmente precaria che alcune persone vendono gli organi in mercati particolari, ci sono famiglie estremamente povere che stanno vendendo le loro figlie, per tirare avanti solo pochi mesi. Tante persone stanno andando via, scegliendo strade rischiose per arrivare in Europa».

La resistenza:

Incontriamo Shakiba a Desio, nel corso di una sua visita in Italia organizzata da Cisda per portare la voce delle donne afghane fuori dai confini, fino a noi. Perché, dice, «le persone e i media si sono dimenticati del popolo afghano, pensano che la situazione si stia sistemando, ma non è così, quindi è importante venire qui e raccontarlo».

Da tempo Shakiba prosegue la sua lotta al fianco delle sue compagne. Le loro armi? Educazione, solidarietà, informazione. Concetti che a noi suonano comuni, quasi scontati, ma che a Kabul rappresentano un rischio enorme, ogni giorno.

«Organizziamo attività educative, per aiutare le persone a difendere i propri diritti e decidere per sé stesse. Facciamo lezioni in casa per le ragazze, su tutte le materie, anche scienze, e lavoriamo per accrescere la consapevolezza sociale. Cerchiamo di mantenerle attive ma anche attente. Abbiamo anche una squadra mobile per portare aiuti sanitari ai villaggi più remoti colpiti da alluvioni o terremoti, curiamo soprattutto le donne, ma non solo, e distribuiamo pacchi alimentari alle persone che ne hanno bisogno in tutto l’Afghanistan.

È fondamentale anche condurre azioni politiche, che tuttavia non possiamo mettere in atto in spazi pubblici. Noi e tutti gli altri che si oppongono al regime usiamo molto i social media. Cerchiamo di mantenere anche la celebrazione di anniversari importanti come l’8 marzo o la data di uccisione della nostra fondatrice, anche se tutte queste cerimonie devono essere organizzate clandestinamente. Ma soprattutto documentiamo tutti i crimini contro i diritti umani avvenuti in Afghanistan dall’occupazione sovietica fino a oggi. Il nostro obiettivo è portare un giorno questi criminali davanti ai tribunali internazionali».

Rawa è stata la prima organizzazione a mostrare al mondo i crimini dei signori della guerra, filmandoli con micro camere nascoste sotto al burqa. «È rischioso, ma se vuoi vivere in un paese libero e democratico non c’è altra scelta. Se lasciassi il Paese migliorerei solo la mia vita. Restando, posso contribuire a migliorare quella di tutti».

I Talebani temono l’istruzione:

Uno dei punti chiave del cambiamento è l’istruzione. La stessa che, racconta, fa così paura al governo talebano. «Sono le donne a restare la maggior parte della giornata a casa a occuparsi dei bambini. E quindi se le donne sono educate possono educare anche i loro figli, la famiglia e quindi la società intera. Per questo le schiacciano, violano il loro diritto all’istruzione perché restino ignoranti.

Sanno che se le donne si uniscono e alzano la voce possono creare cambiamento. E per questo con le nostre lezioni a casa noi pratichiamo una forma di resistenza. Loro ci impediscono di studiare, noi resistiamo imparando comunque. Ci sono tante donne che stanno combattendo per i loro diritti, con il rischio di essere arrestate o peggio. Resistono attraverso le loro case, i social media, condividendo arte, poesie, anche questo è un modo di essere attiviste».

E gli uomini? «Molti uomini sono solidali con noi, ma non possono mostrarlo in pubblico, perché verrebbero uccisi immediatamente».

Le donne di Rawa continuano a lottare, per la loro libertà e quella di tutti gli altri. Sono vicine alle persone di Gaza, dell’Iran, a tutti i popoli che stanno soffrendo nel mondo.

«Vogliamo la libertà e fare azioni di resistenza insieme, possiamo fermare tutto questo, ma possiamo farlo solo attraverso la solidarietà. A tutti voi chiediamo di fare pressione affinché i vostri governi non normalizzino il governo talebano, è un governo fondamentalista che non deve essere legittimato, perché questo non aiuterà la popolazione e le donne dell’Afghanistan. Non dimenticateci».

Il coraggio dell’attivista afghana Shakiba: “Dobbiamo resistere”

L’articolo è stato pubblicato su MB News il 28/11/2024

Tutta la sua vita è dedicata alla difesa dei diritti delle donne e del suo popolo. Lo fa con determinazione, in Afghanistan e nel mondo. Shakiba è una militante dell’associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) e sabato scorso ha fatto tappa alla biblioteca civica di Desio, su invito della Casa delle Donne e grazie all’organizzazione di Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), con la collaborazione di Anpi Desio e Seregno, Staffetta Femminista, Desio Città Aperta e col patrocinio del comune.

Il lavoro clandestino dell’associazione

Il suo intervento, a ridosso della giornata contro la violenza alle donne, è stato molto chiaro e incisivo. Shakiba, che ha studiato in Pakistan e poi è rientrata in Afghanistan, ha raccontato dell’impegno di Rawa per i diritti delle donne e la giustizia sociale. L’associazione continua a portare avanti in clandestinità, anche sotto i talebani, progetti di istruzione e scuole segrete per ragazze e ragazzi, assistenza medica, formazione professionale, informazione  e sostegno alimentare.
“Per noi è molto doloroso il fatto che sia stato restituito il potere ai talebani, a causa delle influenze e del sostegno che hanno ricevuto dall’esterno. Il nostro popolo non dimenticherà mai quanto sono criminali queste persone. Noi attiviste crediamo che non si possa avere giustizia senza consegnare questi criminali alla corte penale internazionale”.

Le donne non possono fare sentire la loro voce

La situazione per la popolazione e in particolare per le donne è sempre più insostenibile. “Le donne non possono più andare a scuola e lavorare negli uffici pubblici. I talebani hanno chiuso le scuole di musica e arte.  Le donne non possono fare sentire la loro voce fuori dalle mura di casa e quando escono devono essere coperte e sempre accompagnate da un uomo”. Tanti i casi di violenza. La povertà dilaga. “Metà della popolazione è sotto la soglia di povertà. Le persone sono arrivate a vendere i propri organi. Alcuni vendono le figlie, per sopravvivere pochi mesi”. L’associazione Rawa distribuisce pacchi di generi alimentari e lo fa sempre in clandestinità. Il lavoro delle attiviste è anche e soprattutto un lavoro politico e di difesa dei diritti. “La causa di tutto questo è  la crescita dello sviluppo del potere delle organizzazioni fondamentaliste e del fascismo religioso nel mio Paese. Lo vediamo anche a Gaza in Libano in Iran ed è molto pericoloso” dice chiaramente Shakiba.

La scelta di rimanere in Afghanistan

“Ora in Afghanistan ci sono 15 mila scuole religiose dove i bambini vengono educati e viene fatto loro un lavaggio del cervello. Questo è molto pericoloso per l’Afghanistan ma anche per chi sta fuori”. La resistenza avviene in modo organizzato nelle case e nei social. “La nostra organizzazione ha deciso di rimanere in Afghanistan e di continuare ad opporsi al regime sostenendo le proprie attiviste nelle diverse modalità di resistenza . Il nostro lavoro avviene in modo clandestino, supportando l’istruzione, per dare un futuro alle giovani generazioni. Nelle nostre classi segrete le ragazze ricevono un’educazione alla salute, si insegnano le materie scientifiche e si riceve una formazione che favorisca la consapevolezza sociale”.

Fare pressione sui governi

“Cerchiamo di portare solidarietà a tutti i popoli che stanno soffrendo per la guerra” continua Shakiba.  Davanti ad una situazione così grave e complessa, cosa possiamo fare noi? “Mettete pressione sui vostri governi perché il regime talebano non sia supportato e non sia normalizzato. Facciamo pressione per bloccare questo processo di normalizzazione del regime talebano”.