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Autore: Patrizia Fabbri

CISDA in support of Kurdistan

The history of CISDA’s commitment to Kurdistan originates in January 2015, when three CISDA representatives met in London with some Kurdish militants from the local community. From that conversation, in which political visions and experiences intertwine and increasingly reveal themselves to be consonant, was born the project of a delegation to Kurdistan made up of CISDA comrades and journalists and other activists, a delegation which actually materializes in the first fifteen days of the March 2015.

The meeting in London was not accidental: for months, since autumn 2014, CISDA had been carefully following the demonstrations that were multiplying in Afghanistan in support of the heroic resistance of Kobane in the face of the advance of ISIS.

The delegation therefore had the task of building a bridge between Kurdish political militants and militants of the Afghan democratic movements, with the aim of mutual political support. Furthermore, they wanted to bring economic aid to the exhausted Kurdish population of Kobane displaced in Suruç.

  • Between 1 and 15 March 2015, the delegation organized by CISDA then delivered the funds collected in Italy (10,000 euros) dividing them among the following beneficiaries:
  • Rojava Solidarity of Suruç, for the purchase of basic necessities for the displaced people of Kobane hosted in the city’s refugee camps;
  • Kobane Municipality, for the reconstruction of the city;
  • Refugee camp near Diyarbakir, for displaced Yazidis;
  • HDP party, for activities in favor of the displaced people of Kobane (setting up and maintaining camps);
  • Women Peace Initiative Center in Istanbul, for the payment of travel expenses of volunteers who go to work among the refugees of Kobane for periods ranging from three to six months;
  • Heyva Sor (Kurdistan Red Crescent).

CISDA intends to continue cooperation with these Kurdish political realities, without detracting attention and commitment from the activities of the associations it has always supported in Afghanistan. It will therefore keep communication and exchange open with the UIKI (Italian Kurdistan Information Office), with the Kurdistan Red Crescent and with the comrades of the Kurdish Liberation Movement, also continuing to raise funds and organizing initiatives in favor of Kurdistan.

This political openness to Kurdistan is not only shared, but indeed decidedly encouraged by the Afghan democratic movements with which CISDA collaborates.

Corsi di Sartoria e Alfabetizzazione: cerimonia per la consegna dei diplomi

Indomabili. È l’aggettivo che immediatamente illumina i nostri pensieri quando il collegamento riesce e sullo schermo dei nostri computer appaiono le donne afghane che CISDA sostiene. Ogni volta è una sorpresa: che sia l’aggiornamento sui progetti che CISDA finanzia o il resoconto di una festa clandestina per l’8 marzo o, come in questo caso, la cerimonia di consegna dei diplomi di fine corso, le guardiamo e le ascoltiamo con un’ammirazione profonda per la forza che mostrano nel voler comunque fare, dire, ascoltare…in una parola “essere”.

E insieme alla forza colpisce la luce dei loro occhi. Occhi che a volte si inumidiscono quando raccontano la clausura alla quale sono sottoposte, ma che nella maggior parte dei casi splendono in sorrisi dolci. Già, perché anche solo potersi ritrovare insieme, poter raccontare le une alle altre una quotidianità fatta di privazioni, alle quali si alternano piccoli gesti di ribellione, è una gioia alla quale nessuna vuole rinunciare perché “quando vengo qui respiro”, come ci disse una ragazza qualche tempo fa.

Ho scritto “piccoli” gesti (come andare comunque al corso di taglio e cucito anche se il marito è contrario), ma in realtà sono vere e proprie sfide quelle che queste donne devono affrontare, per le quali si rischiano frustate o anche di peggio. Eppure, ogni volta sono lì. Indomabili.

E anche questa volta le guardiamo mentre, numerose e sorridenti, si preparano a celebrare la cerimonia di consegna dei diplomi dei corsi di Alfabetizzazione e di Sartoria che vengono tenuti con il sostegno di CISDA. La sala è grande, ma non si vedono finestre perché è in un sotterraneo che le donne, le ragazze e le bambine presenti hanno raggiunto in momenti diversi, rasentano i muri, cercando di non farsi notare. Non ci sono microfoni e non possono parlare a voce molto alta perché, come ci spiegano, i vicini o, peggio ancora, i talebani potrebbero sentire le loro voci e irrompere in questa isola di serenità seminando il terrore.

Nato alcuni anni fa, il progetto Sartoria si prefigge rendere le donne autonome economicamente, lavorando da casa, e prevede l’acquisto delle macchine per cucire nonché la disponibilità di una sarta professionista che insegna i rudimenti del taglio e cucito e come confezionare abiti. Al termine del corso, a chi consegue il diploma, viene assegnata anche una macchina che potrà portarsi a casa.

Come ci hanno raccontato in un precedente collegamento, nel corso non si insegna solo taglio e cucito, ma è un momento di condivisione, dove lo stare insieme rappresenta un momento di libertà irrinunciabile.

La consegna dei diplomi a chi ha terminato il corso si dipana sotto i nostri occhi in una festa dove i discorsi delle ragazze e delle donne si alternano a quelli dell’insegnante; non mancano poesie e una rappresentazione teatrale di un “normale” tentativo di quotidiana prevaricazione da parte di un marito tanto “fannullone” quanto autoritario.

Insieme ai diplomi del corso di Sartoria vengono consegnati anche alcuni diplomi del corso di Alfabetizzazione. Dall’aprile 2022, la scuola è totalmente preclusa alle donne e questi corsi clandestini sono l’unica opportunità loro rimasta. Indimenticabile un’anziana signora che, durante il collegamento di qualche mese fa, raccontava con orgoglio di come avesse imparato a leggere e scrivere con puntigliosa determinazione, nonostante le canzonature del marito.

Quando, dopo oltre un’ora di collegamento, viene il momento di salutare le nostre amiche afghane, le lasciamo portandoci nel cuore un pezzetto della loro forza e del loro indomabile spirito.

Patrizia Fabbri, giornalista, è un’attivista di CISDA.

I russi sono davvero i più “cattivi” di tutti?

Può risultare traumatica per chi ha a cuore il futuro dell’Afghanistan, e soprattutto i diritti e la libertà delle donne afghane, la esplicita affermazione di Putin della necessità di riconoscere che il potere in Afghanistan è in mano ai talebani, asserzione che porta dritto dritto al riconoscimento del governo talebano senza condizioni, dimenticando che quel regime oppressivo e fondamentalista ha cancellato tutti i diritti umani e sta portando solo fame alla popolazione e apartheid di genere alle donne.

Ma questa spregiudicata politica non è nella sostanza diversa da quella che stanno portando avanti,  in modo più velato, tutti gli Stati che sono interessati a entrare nel futuro dell’Afghanistan e della Regione, siano i paesi vicini, siano le grandi e medie potenze mondiali e regionali, nonché i paesi del Medio Oriente.

Infatti in questi ultimi mesi tutti hanno avuto contatti con i talebani, o a Kabul o in Paesi loro sostenitori, in preparazione della 3° Conferenza di Doha organizzata dall’Onu (30 giugno/1 luglio 2024) per fare avanzare la decisione, presa già a dicembre 2023, di far rientrare l’Afghanistan in un circuito di rapporti normalizzati con il resto del mondo per il suo reinserimento nel consesso internazionale.

Contatti finalizzati a convincere i talebani ad accettare l’invito a partecipare direttamente questa volta, considerando la loro presenza indispensabile alla buona riuscita dell’evento, come

Guterrez aveva dichiarato già alla fine della 2° conferenza di Doha, quando nelle sue conclusioni, che prendevano atto del fallimento del convegno dovuto alla mancata partecipazione dei talebani, aveva assicurato che nel futuro avrebbe fatto di tutto per garantire la loro presenza nei futuri incontri internazionale. Mesi ricchi di incontri con i talebani per raccogliere le loro richieste e spianare la strada alla loro partecipazione, e cercare di evitare un’altra occasione mancata.

Le vere intenzioni di tutti

Già a marzo l’India aveva avuto un incontro ufficiale tra suoi alti funzionari e talebani, mentre la Turchia  affermava essere giunto il momento di dare il riconoscimento al governo talebano e assicurava il suo sostegno nella battaglia.

Poi Turkmenistan e Kazakistan si incontravano a Kabul con i talebani mettendo al centro dei colloqui “il rafforzamento e l’espansione delle relazioni bilaterali” (nella foto una delegazione di talebani in Kazakhistan nell’agosto 2023).

A maggio si sono intensificati gli incontri dichiaratamente dedicati. La Francia mandava a Doha un suo incaricato d’affari per incontrare un rappresentante talebano, così come facevano Uzbekistan e Canada.

Intanto l’inviato speciale degli Stati Uniti per l’Afghanistan incontrava i rappresentanti degli Emirati arabi uniti per valutare “i punti di vista comuni” sull’incontro di Doha, così come faceva l’Ue mandando il suo rappresentante prima a un incontro con il Qatar, che intanto chiedeva ufficialmente ai talebani di partecipare alla Conferenza, poi direttamente con i talebani.

Ancora più esplicitamente, l’Onu mandava una delegazione a Kabul per sentire le esigenze dei talebani per poter “evidenziare le priorità dell’Afghanistan all’Assemblea generale delle Nazioni Unite”; l’Unama si incontrava con l’Iran per definire un comune impegno con il governo talebano in vista della Conferenza; un rappresentante delle Nazioni Unite discuteva con il ministro degli Esteri talebano l’odg e la composizione dell’incontro di Doha; infine il vicesegretario delle NU si recava a Kabul per discutere della nomina del rappresentante speciale delle NU per l’Afghanistan, obiettivo principale dell’Onu sempre avversato dai talebani. E altri ancora si avvicenderanno…

Tutti gli attori in campo testimoniano la ragionevolezza del dialogo con i talebani padroni di Kabul e stanno concordando direttamente con loro l’Odg della Conferenza di Doha

Del resto anche il Portavoce del Segretario generale delle NU Dujarric,  forse credendo di dare una banale convincente spiegazione, ha affermato: “Continuiamo il nostro attuale impegno con gli attuali governanti dell’Afghanistan perché sono loro i governanti dell’Afghanistan”…quindi perché scandalizzarsi delle dichiarazioni russe che non fanno altro che rendere esplicite le intenzioni di tutti?

Che cosa viene offerto ai talebani in cambio della loro partecipazione?

I talebani chiedono il rispetto di sei condizioni per la loro partecipazione: un seggio alle Nazioni Unite; che l’ONU ritiri la nomina di un rappresentante speciale per l’Afghanistan; che l’ordine del giorno e la composizione del terzo incontro di Doha siano discussi con loro; che questioni come l’istruzione e l’occupazione femminile e la formazione di un governo inclusivo non siano all’ordine del giorno. Vogliono che ci si concentri solo sullo sradicamento della droga e la lotta contro i gruppi armati, in particolare l’Isis.

Quindi non si parla più di donne e diritti umani, né come punto dell’ordine del giorno, né come partecipazione di rappresentanti di donne e movimenti all’incontro, con la protesta, almeno per ora, solo di HRW e donne attiviste che invitano a boicottare l’incontro.

Del resto, e in sovrappiù, non sono stati invitati neppure rappresentanti della società civile né di altre possibili forze alternative, a smentire lo sbandierato invito ai talebani di fare un governo inclusivo di tutte le etnie e forze politiche.

I talebani, invitati stavolta con tutti gli onori dei capi di stato, hanno affermato che pensano di essere presenti, visto che l’ordine del giorno mostra cambiamenti positivi, concentrato su questioni finanziarie e bancarie, controllo della droga, mezzi di sussistenza alternativi per gli agricoltori, sviluppo del settore privato e cambiamento climatico

Le contraddizioni dell’Onu

È evidente l’ansia di Stati Uniti e Unione europea di ripristinare anche ufficialmente, e non solo attraverso gli aiuti umanitari, i buoni rapporti politici con l’Afghanistan che aprano la strada agli appetitosi rapporti economici che le ricchezze del paese promettono e da cui temono di essere tagliati fuori a favore di Cina, Russia e piccole e grandi potenze locali che non hanno la preoccupazione di salvarsi la faccia come paesi che difendono la democrazia e i diritti umani.

A fare da battistrada c’è l’Onu, che da un lato sbandiera la sua vocazione a difendere i diritti dei popoli e delle donne oppresse con bellissimi Rapporti e dichiarazioni dei suoi Organismi deputati alla difesa dei diritti umani e al controllo del loro rispetto da parte degli Stati, accusando il regime afghano di apartheid di genere, dall’altro organizza questa grande platea di Doha per dare rispettabilità al governo talebano, finora definito de facto ma con la fretta di farlo diventate di diritto attraverso una “ normalizzazione” dei rapporti che possa funzionare come un riconoscimento anche senza una dichiarazione ufficiale.

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA.

Are the Russians really the “bad guys” of all?

It can be traumatic for those who care about the future of Afghanistan, and especially the rights and freedom of Afghan women, to hear Putin’s explicit assertion of the need to recognize that power in Afghanistan is in the hands of the Taliban. This statement leads directly to the unconditional recognition of the Taliban government, forgetting that this oppressive and fundamentalist regime has abolished all human rights and is bringing only hunger to the population and gender apartheid to women.

But this unscrupulous policy is essentially no different from what all states interested in entering the future of Afghanistan and the region are pursuing in a more veiled manner, whether they are neighboring countries or major and medium world and regional powers, as well as Middle Eastern countries.

In fact, in recent months everyone has had contacts with the Taliban, either in Kabul or in countries supporting them, in preparation for the 3rd Doha Conference organized by the UN (June 30/July 1, 2024) to advance the decision, already made in December 2023, to reintegrate Afghanistan into a network of normalized relations with the rest of the world for its reintegration into the international community.

Contacts aimed at convincing the Taliban to accept the invitation to participate directly this time, considering their presence indispensable for the success of the event, as Guterrez had declared at the end of the 2nd Doha conference, when in his conclusions, acknowledging the failure of the conference due to the Taliban’s absence, he assured that in the future he would do everything to ensure their presence in future international meetings. Months filled with meetings with the Taliban to gather their requests and pave the way for their participation, trying to avoid another missed opportunity.

The true intentions of everyone

Already in March, India had an official meeting between its senior officials and the Taliban, while Turkey claimed it was time to recognize the Taliban government and assured its support in the battle.

Then Turkmenistan and Kazakhstan met with the Taliban in Kabul, focusing their talks on “strengthening and expanding bilateral relations” (pictured is a Taliban delegation in Kazakhstan in August 2023).

In May, meetings explicitly dedicated to this purpose intensified. France sent a chargé d’affaires to Doha to meet with a Taliban representative, as did Uzbekistan and Canada.

Meanwhile, the US special envoy for Afghanistan met with representatives of the United Arab Emirates to assess “common views” on the Doha meeting, as did the EU, sending its representative first to a meeting with Qatar, which officially asked the Taliban to attend the conference, and then directly to the Taliban.

More explicitly, the UN sent a delegation to Kabul to hear the Taliban’s needs to “highlight Afghanistan’s priorities at the UN General Assembly”; UNAMA met with Iran to define a common commitment with the Taliban government ahead of the conference; a UN representative discussed the agenda and composition of the Doha meeting with the Taliban foreign minister; and finally, the UN Deputy Secretary-General traveled to Kabul to discuss the appointment of the UN special representative for Afghanistan, a main UN objective always opposed by the Taliban. And more will follow…

All the actors in the field testify to the reasonableness of dialogue with the Taliban who control Kabul and are directly agreeing with them on the agenda of the Doha conference.

Moreover, the UN Secretary-General’s spokesperson, Dujarric, perhaps believing he was giving a banal convincing explanation, stated: “We continue our current engagement with the current rulers of Afghanistan because they are the rulers of Afghanistan”…so why be scandalized by Russian statements that merely make explicit the intentions of everyone?

What is being offered to the Taliban in exchange for their participation?

The Taliban demand six conditions for their participation: a seat at the United Nations; that the UN withdraws the appointment of a special representative for Afghanistan; that the agenda and composition of the third Doha meeting be discussed with them; that issues such as women’s education and employment and the formation of an inclusive government are not on the agenda. They want the focus to be solely on eradicating drugs and fighting armed groups, particularly ISIS.

So there is no more talk of women and human rights, neither as an agenda item nor as participation by representatives of women and movements at the meeting, with protests, at least for now, only from HRW and women activists who call for boycotting the meeting.

Moreover, no representatives of civil society or other possible alternative forces have been invited, contradicting the touted invitation to the Taliban to form an inclusive government of all ethnicities and political forces.

The Taliban, invited this time with all the honors of heads of state, have stated that they plan to attend, seeing that the agenda shows positive changes, focused on financial and banking issues, drug control, alternative livelihoods for farmers, private sector development, and climate change.

The contradictions of the UN

The eagerness of the United States and the European Union to officially restore, not only through humanitarian aid, good political relations with Afghanistan is evident, paving the way for the lucrative economic relations that the country’s wealth promises and fearing being cut off in favor of China, Russia, and small and large local powers that do not have the concern of saving face as countries that defend democracy and human rights.

Leading the way is the UN, which on one hand flaunts its vocation to defend the rights of oppressed peoples and women with beautiful reports and statements from its bodies dedicated to defending human rights and monitoring their respect by states, accusing the Afghan regime of gender apartheid, and on the other hand, organizes this great Doha forum to give respectability to the Taliban government, so far defined de facto but eager to make it de jure through a “normalization” of relations that can function as recognition even without an official declaration.

Quando il mondo di Sahar cadde in frantumi

Sahar è nata in una famiglia di militari a Helmand, da anni considerata una delle province più insicure e pericolose dell’Afghanistan.  Ha trascorso tutta la sua vita nel caos della guerra, fuggendo costantemente da una provincia all’altra.  A differenza degli altri bambini, non ha mai avuto la possibilità di vivere un’infanzia spensierata, fatta di risate e giochi con gli amici in un ambiente sereno.

“Dopo ogni conflitto tra il precedente governo e i talebani”, racconta Sahar, “io e i miei amici raccoglievamo i proiettili abbandonati e altri residui della guerra, trasformandoli nei nostri giocattoli sbagliati”.

Nonostante l’amarezza delle sue esperienze, l’amore di Sahar per l’apprendimento è rimasto una costante fonte di speranza.  L’istruzione è diventata il suo rifugio, anche se lo stesso viaggio per recarsi a scuola era segnato dalla violenza.  “Ero una studentessa di quinta elementare”, ricorda, “e nonostante tutti i rischi, a scuola ci andavo sempre. Amavo la mia scuola, i miei insegnanti e i miei compagni di classe. Ma il mio mondo andò in frantumi il giorno in cui la nostra scuola venne attaccata. I suoni delle esplosioni e delle urla tormentano ancora i miei sogni. Quel giorno, quattro vite innocenti andarono perdute, lasciandomi in uno stato di shock e di dolore che non dimenticherò mai.”

Questo terribile incidente ha costretto la sua famiglia a cercare rifugio a Kandahar, sperando in un nuovo inizio. Tuttavia, la presa del potere da parte dei talebani ha presto trasformato le loro vite, e quelle di innumerevoli donne e ragazze afghane, in una prigione di paura e oppressione. Le libertà fondamentali sono state strappate via e il futuro è stato avvolto nell’incertezza.

Attualmente, Sahar risiede a Kabul, dove sta imparando diligentemente l’inglese all’OPAWC (Organizzazione per la promozione delle capacità delle donne afghane). Nonostante le restrizioni soffocanti e la costante sensazione di disperazione, si rifiuta di lasciare che i suoi sogni svaniscano. “La situazione nel nostro Paese è insostenibile”, ammette, “ma non mi arrenderò mai alla disperazione. L’istruzione è la mia arma e la userò per diventare un medico e servire il mio popolo. Anche nei momenti più bui, la speranza può ancora fiorire”.

Contro l’apartheid di genere

In occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo di quest’anno le istituzioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani si sono premurate di confermare il loro sostegno alle donne afghane oppresse dal regime dei Talebani, usando il termine “apartheid di genere” per definire la discriminazione esistente in Afghanistan e in Iran.

Ma l’ex parlamentare indipendente afghana Belquis Roshan, nell’incontro con il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane avvenuto in occasione della sua visita in Italia ad aprile, ha raccomandato di non farsi “rubare la battaglia per il riconoscimento dell’apartheid di genere dalle organizzazioni internazionali e neanche dall’Onu”. Perché questa presa di posizione? Che cosa intende?

Da un paio d’anni i Talebani, proibendo l’istruzione alle ragazze e il lavoro alle donne e dando il via a un susseguirsi sempre più misogino e violento di proibizioni e limitazioni, hanno mostrato chiaramente non solo di non essere cambiati rispetto al loro passato governo -come avevano voluto credere gli Stati Uniti nell’ambito degli Accordi di Doha del 2020- ma anzi di fare della discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio. Da più parti si è cominciato a parlare allora di “apartheid di genere” e dell’opportunità che sia riconosciuto dalla legislazione internazionale come un crimine contro l’umanità.

Dato che appare sempre più illusoria la possibilità di ottenere dai Talebani il rispetto dei diritti delle donne in cambio di aiuti economici, si pensa di fare pressione su di loro attraverso i tribunali e il diritto internazionale.

Sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne

Se tutti gli attivisti e i sostenitori dei diritti delle donne afghane sono concordi nel definire il sistema di oppressione dei Talebani come un “apartheid di genere” in quanto non siamo di fronte a violazioni occasionali ma alla sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne e alla privazione dei loro diritti proprio in quanto genere considerato inferiore, diversi sono gli approcci che si possono avere per affrontare il problema.

Considerata l’entità e la gravità dell’oppressione che operano sulle donne, i Talebani potrebbero già essere perseguiti dalla Corte penale internazionale (Cpi) per il reato di persecuzione di genere. Lo Statuto di Roma della Cpi considera infatti il reato di persecuzione di genere come un crimine contro l’umanità, dove “persecuzione” si ha con “la privazione intenzionale e grave dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività” e con “genere” si intende “i due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società”. Coglie quindi la specificità di questo crimine, ma come atti individuali e compiuti su individui, non come azioni di un governo che opera consapevolmente e sistematicamente contro un gruppo in quanto genere distinto.

Come sostengono molti esperti, però, la definizione di persecuzione di genere non coglie pienamente la natura dell’oppressione subita dalle donne e dalle ragazze in Afghanistan e Iran. Il reato di apartheid, invece, affronta le cause più profonde. La Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione dell’apartheid lo definisce come segregazione e discriminazione razziale in un contesto di regime istituzionalizzato di dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro, attuato con l’intenzione di mantenere quel regime.

Quindi nel reato di apartheid si ipotizza la responsabilità dello Stato, ma non si contempla il genere come motivo di discriminazione, solo l’etnia. D’altra parte la Cpi può giudicare e condannare solo le singole persone, ai sensi del diritto penale internazionale che considera responsabili i soggetti, anche per i crimini di gruppo, come è stato ad esempio nel processo di Norimberga. La Cpi sta indagando dal 2006 sulle atrocità commesse in Afghanistan, esaminando i crimini commessi da tutte le parti coinvolte nella guerra del ventennio di occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. E che, però, potrebbe includere anche i crimini commessi dai Talebani dal 2021. Un procedimento molto lungo, troppo secondo alcuni attivisti.

Per accelerare i tempi la Cpi ha scelto allora di stralciare i reati precedenti per potersi concentrare solo su quelli dei Talebani, suscitando contestazioni in chi non è d’accordo nel “dimenticare” i crimini occidentali. Comunque, a oggi, il procuratore della Corte non ha presentato alcuna accusa contro i Talebani, né vi sono procedimenti avviati dagli Stati presso la Corte internazionale di giustizia.

Nonostante la naturale lentezza del procedimento, Human rights watch, Amnesty international e la Commissione internazionale dei giuristi sono tra coloro che ritengono che la Procura della Cpi dovrebbe aggiungere il crimine di persecuzione di genere all’indagine in corso e che gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, dovrebbero processare i Talebani sospettati di crimini di diritto internazionale.

Sottoporre gli abusi dei Talebani al controllo giudiziario

Dall’altro lato, la Corte internazionale di giustizia è responsabile della risoluzione delle controversie tra Stati su questioni di diritto internazionale. Questa Corte può esaminare le cause intentate da uno Stato contro un altro Paese membro per violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), a cui anche l’Afghanistan ha aderito. Basterebbe la richiesta di un solo Stato per sottoporre gli abusi dei Talebani sotto il controllo giudiziario, come recentemente ha fatto il Sudafrica nei confronti di Israele a proposito del “plausibile genocidio” perpetrato a Gaza.

Quindi fin da subito uno Stato parte della Cedaw potrebbe portare i Talebani in tribunale e la Corte internazionale di giustizia potrebbe avere un ruolo importante. Ma nessuno ha finora fatto un passo del genere, sebbene tutti si dichiarino ogni giorno preoccupati per la situazione delle donne in Afghanistan.

Le divergenze non sono poche. Ad esempio, gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione perché Democratici e Repubblicani non sono d’accordo sui costi del trattato e non condividono le stesse norme sulla condizione delle donne. Inoltre la Cedaw è stata criticata per la sua prospettiva eteronormativa sul genere e sulla sessualità e per la mancanza del pieno riconoscimento di coloro che non rientrano nelle tradizionali identità di genere.

Altri invece puntano a far riconoscere a livello legislativo internazionale l’apartheid di genere come nuovo crimine contro l’umanità. Al momento è all’esame delle Nazioni Unite una revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità e quindi alcuni chiedono che l’apartheid di genere sia inserito tra questi. Mentre in questo periodo è stata istituita presso l’Onu una commissione specifica che ha il compito di rivedere i criteri con cui viene definita la prevenzione e persecuzione dei crimini contro l’umanità. Da più parti si fa pressione e si sollecita il movimento per i diritti ad approfittare di questa finestra istituzionale per ottenere la modifica del Trattato.

Questa terza strada è preferita e fortemente caldeggiata dalle istituzioni internazionali e dalle donne afghane espatriate che vi lavorano all’interno, spesso utilizzate per mostrare il lato “buono” e democratico dei Paesi occidentali quando vogliono addolcire le loro politiche fondamentalmente aggressive, per mantenere l’opinione pubblica fiduciosa e dormiente.

In testa c’è il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che fin dal 2022 ha dichiarato che l’oppressione che si accanisce sulle donne in Afghanistan deve essere considerata apartheid di genere perché la sua natura non è occasionale e limitata ma strutturale, dichiaratamente fondante l’ideologia dei Talebani, che mantengono in stato di inferiorità una parte della popolazione, in quanto genere, così rispondendo a tutte le caratteristiche necessarie per definire l’apartheid come tale.

Anche il Gruppo di Lavoro sulla discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite il 20 febbraio del 2024 si è espresso per l’inclusione di queste azioni come crimine contro l’umanità ai sensi dell’Articolo 2 del progetto di revisione del Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità attualmente all’esame del Sesta Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Già a settembre 2023 le Osservazioni fornite dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite e dal direttore esecutivo delle Nazioni Unite Sima Bahous alla riunione del Consiglio di sicurezza delle Onu sulla situazione in Afghanistan chiedevano ai governi “di prestare pieno sostegno a un processo intergovernativo per codificare esplicitamente l’apartheid di genere nel diritto internazionale”.

Il Parlamento europeo il 14 marzo ha affermato poi che “l’applicazione da parte dei Talebani della legge della shari’a e l’esclusione di donne e ragazze dalla vita pubblica equivalgono a persecuzioni di genere e apartheid” e che vanno sostenute “le richieste della società civile afghana di ritenere le autorità di fatto responsabili delle loro azioni, un’indagine da parte della Corte penale internazionale, l’istituzione di un meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite e l’espansione delle misure restrittive dell’Ue”. Anche l’Italia a marzo è intervenuta in difesa delle donne afghane, nell’evento organizzato dalla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, ma non è andata oltre un generico appoggio e aiuto economico.

gennaio un gruppo di parlamentari britannici ha dato il via a un’indagine sull’apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo, per analizzare la situazione delle donne e delle ragazze in Iran e Afghanistan rispetto alle definizioni legali esistenti sui crimini internazionali e le possibilità di inserirlo nel quadro giuridico internazionale esistente. Dando vita poi a un rapporto che è stato presentato al Parlamento del Regno Unito il 4 marzo 2024 in cui si dice espressamente che “questa grave questione può essere descritta solo come il crimine di apartheid: sostituendo ‘razza’ con ‘genere’, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan e Iran”.

La campagna “End gender apartheid today” è stata forse la prima richiesta rivolta espressamente ai governi per il riconoscimento di questo crimine. Decine di eminenti giuristi, studiosi e rappresentanti della società civile di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera in cui esortano gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare l’apartheid di genere nel progetto di Convenzione sui crimini contro l’umanità.

Anche il Consiglio atlantico degli Stati uniti e il Global justice center, nell’ottobre 2023”, “hanno pubblicato una lettera congiunta e una memoria legale per sollecitare gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare specificamente questo crimine nella bozza di trattato sui crimini contro l’umanità attualmente all’esame della Sesta commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Richiesta ribadita dal Consiglio atlantico l’8 marzo di quest’anno e ancora recentemente il 14 marzo.

L’Istituto internazionale per la pace (Ipi) -fondato dall’Onu- ha organizzato un panel sull’argomento. Tra le intervenute, Dorothy Estrada-Tanck ha individuato nella codificazione esplicita dell’apartheid di genere in Afghanistan una priorità per il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze, di cui è presidente. “Riconoscere e codificare questo come un crimine contro l’umanità è necessario per nominare e comprendere con precisione l’intera portata degli elementi di questo regime e, soprattutto, per innescare l’azione della comunità internazionale”, ha detto. L’evento è stato co-sponsorizzato dal Global justice center, Rawadari, dal Georgetown institute for women, Peace and security e dalle missioni permanenti di Messico e Malta.

La Federazione internazionale per i diritti umani, composta da difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, ha aderito ufficialmente alla campagna adottando una risoluzione per riconoscere “l’apartheid di genere”.

L’Alleanza per i diritti umani in Afghanistan, che include Amnesty international, Front Line defenders, Freedom house, Freedom now, Human rights watch, Madre, Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e la Lega internazionale per la pace e la libertà delle donne (Wilpf), esprime richieste più generiche ma comunque sollecita vengano stabilite le responsabilità attraverso “meccanismi che includono la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”.

Così come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito nella sessione del 22 febbraio del 2024, che nel Rapporto afferma che la situazione delle donne afghane può configurarsi come apartheid di genere e raccomanda agli Stati di “sostenere i meccanismi internazionali di indagine e di responsabilità e avviare o collaborare con i processi di responsabilità nelle giurisdizioni nazionali per le violazioni passate e attuali da parte di tutte le parti in conflitto in Afghanistan, anche per quanto riguarda la giustizia di genere e gli attacchi alle comunità etniche e religiose”.

Prevarranno le considerazioni opportunistiche?

Tante e autorevoli, come si vede, sono le voci che spingono nella direzione dell’identificazione dell’apartheid di genere, e quelle riportate sono solo una parte. Ciò potrebbe far pensare che la strada sia in discesa, dato il gran numero di Paesi nel mondo che si definiscono democratici o che comunque sono contrari alle politiche ultrareazionarie e ultrafondamentaliste dei Talebani.

Ma non è così. Alla fine sono i singoli Stati che decidono all’interno dell’Onu, compresi ovviamente gli Usa e gli alleati occidentali, cioè quelli che prima hanno occupato l’Afghanistan e poi sono stati i promotori dell’accordo che ha riportato al potere i Talebani perché considerati più “affidabili” dei governi da loro stessi confezionati e sostenuti nei vent’anni di occupazione.

Mentre sostengono che le donne afghane non debbano essere abbandonate, è l’Onu stessa a incentivare un percorso di avvicinamento nei confronti del governo talebano con il dichiarato intento di arrivare al suo riconoscimento completo nel più breve tempo possibile, come hanno dimostrato la Valutazione indipendente sull’Afghanistan che ha portato al Forum di Doha del febbraio scorso e i successivi incontri.

Perciò c’è il rischio che prevalgano le preoccupazioni opportunistiche di inimicarsi tutti quei Paesi, e sono tanti, che per affinità culturale o religiosa con i Talebani o per interessi economico-politici nella regione non vogliono l’isolamento dell’Afghanistan e la conseguente limitazione dei contatti commerciali e politici; quelli che hanno di fatto già riconosciuto più o meno apertamente il governo talebano e quindi preferiscano non prendere una posizione chiara e potenzialmente gravida di reazioni negative per loro. Quanto possono essere credibili nel loro proposito di condannare i Talebani?

Certo il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità non sarebbe di per sé sufficiente a dare il via all’incriminazione dei Talebani perché comunque è indispensabile, come detto, l’azione di uno Stato per mettere in moto il tribunale internazionale, ma sarebbe un enorme aiuto per tutte quelle organizzazioni che come il Cisda e la Coalizione euroafghana sostengono le donne e le organizzazioni afghane come l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) che coraggiosamente si oppongono quotidianamente ai Talebani e chiedono agli stati democratici di non riconoscere il loro governo.

L’apertura di un processo internazionale al governo talebano con l’accusa di apartheid di genere sarebbe un procedimento lungo che non avrebbe effetti immediati sulla vita delle donne afghane, ma renderebbe loro giustizia e rafforzerebbe la loro resistenza.

Le battaglie per accrescere la democrazia e per il riconoscimento dei diritti a livello istituzionale e legislativo non sono mai state vinte per merito delle istituzioni stesse ma per la spinta che hanno avuto dal basso, da chi premeva per ottenere i cambiamenti.

“Non facciamoci strappare questa battaglia”

Come ha detto Belquis Roshan, il riconoscimento che in Afghanistan vi è un sistema di apartheid di genere è una battaglia molto importante e non dobbiamo farcela strappare dai politici di professione. E nemmeno dalle donne che sono state leader politiche in Afghanistan, condividendo responsabilità di governo, e che ora, scappate dopo l’arrivo dei Talebani, riempiendosi la bocca di parole di democrazia, si sono riciclate in Occidente come rappresentanti del popolo e delle donne rimaste invece a soffrire nel Paese. Donne che appaiono nei media e che sono letteralmente usate negli incontri internazionali ufficiali quando i leader e gli Stati più potenti hanno bisogno di mostrare che ascoltano anche la popolazione civile e non solo i Talebani.

Sono le donne che resistono in Afghanistan e che ogni giorno devono affrontare gli attacchi dei decreti dei Talebani le vere rappresentanti di loro stesse. È a loro che dobbiamo dare voce e a chi continua, anche dall’esilio, a darsi da fare senza farsi fagocitare dalle istituzioni e dagli apparati che danno loro maggior prestigio. È grazie alla resistenza e alla resilienza delle donne afghane che l’argomento dell’apartheid di genere è ora all’ordine del giorno. Non possiamo lasciare che a farne una bandiera siano coloro che hanno portato la guerra in Afghanistan e poi hanno voluto lasciare il Paese in mano ai Talebani.

Pubblicato su Altreconomia, 9 maggio 2024

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA.