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Autore: Patrizia Fabbri

Solidali con Leyla Guven

Leyla Güven, attivista curda per i diritti delle donne, parlamentare dell’HDP e co-presidente del KCD (Congresso della società democratica), è stata arrestata il 22 gennaio 2018 per aver criticato l’invasione di Afrin da parte dello stato turco. Il 7 novembre ha iniziato uno sciopero della fame a oltranza per chiedere la fine dell’isolamento di Öcalan, recluso da 20 anni nel carcere di Imrali e in condizioni di pesante isolamento da oltre 7 anni.

Il 25 gennaio 2019 Leyla, grazie alle forti pressioni internazionali, è stata liberata dal carcere ma le sue condizioni di salute sono molto preoccupanti e si stanno progressivamente deteriorando; lei ha deciso che il suo sciopero della fame a oltranza continuerà fino alle conseguenze più estreme se non arriverà una risposta concreta alle sue richieste.

Con lei, 14 attivisti curdi a Strasburgo e centinaia di prigionieri politici reclusi nelle carceri turche sono entrati in sciopero della fame a oltranza.

Come organizzazione che da 20 anni si batte per i diritti umani e delle donne chiediamo al CPT (Consiglio Europeo), alla Commissione Europea, all’OSCE, al CPT (Commissione per la prevenzione della tortura) di adoperarsi con tutti i mezzi necessari e far pressione sull’autoritario governo di Erdogan, membro del Consiglio Europeo, affinché venga messa la parola fine all’isolamento di Öcalan e di tutti i prigionieri politici curdi in nome dei diritti umani e dei principi politici, sociali, culturali a cui le istituzioni europee fanno riferimento.

Riterremo le istituzioni europee responsabili delle inevitabili tragiche conseguenze derivate dal loro silenzio e dalla loro inerzia.

Siamo con Leyla e con tutti gli attivisti e prigionieri curdi che non chiedono altro che giustizia e pace.

CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane)

Conferenza stampa di chiusura della Campagna Premio Nobel della pace 2019 a Riace

Conferenza stampa di chiusura della Campagna Premio Nobel della pace 2019 a Riace

Roma, 30 gennaio 2019 ore 12.00 presso la sede del settimanale Left in via Ludovico di Savoia 2/b

Sarà presente Mimmo Lucano

Riace è l’impegno per la Pace coronato dal successo. L’esperienza di accoglienza del piccolo Comune calabrese ha attivato un processo virtuoso di integrazione e buone pratiche che ha fatto scuola in tutta Europa.

L’Organizzazione per le Migrazioni dell’ONU – OIM stima che solo nella pericolosa rotta Libia-Italia, negli ultimi 5 anni, le vittime sono state 17.644, più della metà di tutti i migranti morti nel mondo.

Con la guida coraggiosa di Mimmo Lucano, Riace e la sua comunità hanno accolto oltre 6.000 immigrati che hanno, a loro volta, insieme con gli abitanti rimasti, cambiato il volto del paese della Locride in via di inarrestabile spopolamento.

Tutto comincia nel 1998 quando sulla spiaggia di Riace approda un veliero con a bordo 220 curdi, incrociato da Domenico Lucano e dai suoi amici che istintivamente, aprono porte e case. Dal 2005, con il costante, impegnato supporto della Rete dei Comuni Solidali, si attivano botteghe artigiane e si dà il via ad un fiorente turismo sociale e solidale. Riaprono le scuole e un asilo multietnico, si crea un ambulatorio medico, si rimettono in moto attività produttive.

Un Paese rivive, accogliendo, rinnovandosi, sbarrando la strada alle attività criminali, in nome dell’Umanità. Due realtà completamente diverse, un territorio estremamente complesso, in tanta parte svuotato dall’emigrazione e una comunità di persone in fuga dalla guerra e dalla povertà, danno vita ad un’esperienza unica di pace praticata che ha contribuito al progresso della Pace e dei Diritti Umani e al rafforzamento della Democrazia in tutta Europa.

Riace ha difeso e ha restituito prospettive ai riacesi rimasti e dignità ai migranti che sono costantemente ricattati dai trafficanti di esseri umani, alla mercé dei capi banda libici, oppressi dalla guerra, vittime dell’indifferenza e del cinismo dell’Occidente che alza muri, chiude porti e criminalizza la solidarietà.

Riace e Domenico Lucano sono sotto accusa. Ma Riace, espressione concreta di “fraternità tra i popoli”, va avanti perché soccorrere è un dovere e chiudere i porti un crimine.

Meena

È il tempo del primo regime talebano e la consuetudine vuole che le ragazze hazara (l’etnia più perseguitata del paese) siano costrette al matrimonio con i loro miliziani.  Meena racconta: “Se non obbedivamo ci picchiavano o ci uccidevano. Mio padre era vecchio e debole e nonostante io avessi solo 12 anni, mi ha venduto in matrimonio a uno di loro che aveva 35 anni, per 3.000 afghani, ossia trenta dollari soltanto. Questo era il mio prezzo. Quando lui è venuto a prendermi piangevo e gridavo con tutto il fiato che avevo in corpo, chiedevo aiuto, ma nessuno è venuto ad aiutarmi. Durante la prima notte di nozze, mio marito mi ha violentato 3 volte. È stato orribile, gridavo e chiamavo mia madre. Ma mia madre non era lì per salvarmi o consolarmi. Ho sanguinato per 40 giorni. Il dolore era insopportabile.

A tre mesi dal matrimonio ho avuto le mie prime mestruazioni. Mio marito è andato a lavorare a Mazar e io ero felice, finalmente ero tranquilla e avrei potuto giocare con i bambini della mia età. Purtroppo, dopo due mesi, mi sono accorta di essere incinta. Stavo molto male e al quinto mese ho iniziato a sanguinare e ho perso il bambino. Continuavo a sanguinare e a stare male quando mio marito è tornato e mi ha violentato ancora. Abbiamo vissuto 4 anni insieme e in questi 4 anni sono rimasta incinta nove volte e, ogni volta, sanguinavo e perdevo il bambino nei primi due o tre mesi. Mio marito non mi ha mai portato da un medico e anzi, mi picchiava e mi insultava ogni giorno. L’ultima gravidanza è andata avanti. Ero al nono mese quando mio marito mi ha buttato fuori di casa e sono andata da mio padre. Il bambino è nato lì ma è vissuto solo tre giorni. Il quarto giorno è morto tra le mie braccia. Non ho mai provato un dolore simile mentre lo tenevo stretto a me. Mai.

Dopo la morte del bambino mio marito ha divorziato e io sono rimasta a vivere con i miei fratelli e mio padre per tre anni. Poi, mi hanno obbligato a sposare un uomo che aveva 50 anni. Ho pensato che, dato che era un uomo anziano, sarebbe stato come un padre, gentile con me. Purtroppo sono stata delusa. Si è comportato bene per qualche mese poi tutto è cambiato. Sua madre che era molto vecchia continuava a aizzarlo contro di me a incitarlo a essere crudele nei miei confronti. Mi picchiava abitualmente e, a causa delle sue botte, ho perso altri due figli. L’ultima volta, ho partorito nel bagno di casa, l’emorragia era così forte che sono svenuta. Quando mi sono svegliata c’erano i nostri vicini che litigavano con mio marito e sua madre, perché volevano portarmi in ospedale. Il mio bambino morto era ancora attaccato a me. La placenta ancora non era uscita. Alla fine hanno vinto loro per fortuna e sono stata in ospedale per diversi giorni. Avevo bisogno di una trasfusione perché avevo perso molto sangue ma mio marito non ha voluto comprarmelo. Così il dottore ha chiesto ad alcune persone generose e gentili che hanno dato il loro sangue per salvare la mia vita. Durante la mia ospedalizzazione, mio marito ha venduto i miei pochi gioielli ma non mi ha comprato medicine e nemmeno un frutto. Niente. In seguito ho chiesto ai dottori di darmi una medicina per non restare più incinta.

Tornata a casa tutto è ricominciato come prima, insulti e botte. Ho chiesto aiuto ai miei fratelli e a mio padre ma nessuno mi ha aiutato. Dopo tre anni ho partorito una figlia, viva questa volta. Adesso, ho pensato, devo occuparmi di mia figlia, non possiamo più vivere qui. Così sono andata a vivere con lei in uno shelter (Casa protetta). Mentre ero lì ho realizzato di essere di nuovo incinta. Dopo qualche tempo mio marito è venuto da me pieno di promesse. Tutto sarebbe cambiato, lui sarebbe stato un buon marito, gentile, e si sarebbe preso cura di me e di sua figlia. Ero disperata e ci ho creduto. Ho accettato le sue scuse. Quando hanno realizzato che ero incinta, mio marito e i miei fratelli mi volevano in tutti i modi costringere ad abortire. Erano convinti che il bambino fosse di un altro uomo e non di mio marito. Ho gridato e pregato e giurato su Dio che il bambino era di mio marito ma loro dicevano che io ero rimasta incinta nello shelter. (nella mentalità ottusa, tribale e fondamentalista, uno shelter è paragonato ad un bordello). Mi hanno picchiato e mi hanno trascinato più volte all’ospedale per farmi abortire, ma io ho resistito e alla fine mio figlio è nato. Dopo la nascita del bambino le cose non sono migliorate. Oltre a picchiarmi, ha smesso di darci da mangiare e così mi sono messa a cucire vestiti per i vicini per poter mangiare e nutrire i miei figli. Non ce la facevo più con quella vita e sono riuscita a scappare con i miei figli e adesso vivo nello shelter di Hawca.

Voglio avere il divorzio e curare e proteggere i miei figli perché abbiano un futuro bello e diverso dal mio”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Hakima

Hakima vive attualmente a Kabul. Ha 50 anni e una vita difficile, con gravi problemi di salute. Ha due figlie di 18 e 13 anni che sono il suo grande orgoglio. La figlia maggiore è diplomata e la seconda frequenta la decima classe. Contrariamente a molti matrimoni afghani, quello di Hakima non è stato forzato né deciso dai genitori. Sposa l’uomo che ama e si costruisce una vita dignitosa e felice. Il marito lavora per diversi anni come lavoratore a giornata. Poi, più recentemente, riesce a ottenere un posto come guardia al Ministero dei Trasporti. Così la situazione economica migliora un po’. La vita è sempre ai limiti della povertà ma i due genitori mettono tutto il denaro che riescono a risparmiare nell’educazione delle due figlie. È la cosa a cui tengono di più. Vogliono che le ragazze diventino donne consapevoli, istruite e in grado di lavorare e costruirsi una vita indipendente. Sono molto brave a scuola. La più grande partecipa all’esame di ammissione all’Università e lo passa con ottimi voti. Purtroppo l’Università si trova in una zona molto insicura, è pericoloso frequentare. Hakima non ha i mezzi per mandarla a studiare altrove. Le piacerebbe che continuasse gli studi in una Università privata, più protetta, ma non se lo può permettere.

Un giorno di 4 anni fa, il marito di Hakima è al suo posto di lavoro, come sempre, davanti ai cancelli del Ministero, quando un’autobomba esplode portandolo via con sé. Sono anni molto duri per lei. Vive in una piccola casa a Kabul, in affitto. Non può lavorare, da quando il marito è morto, ha dei seri problemi di salute che glielo impediscono. Hanno una piccola entrata di 30.000 afghani l’anno, circa 350 euro, come pensione da parte del Governo. Questa pensione, naturalmente, è stata ottenuta dopo estenuanti domande e ricorsi nei meandri dei Ministeri. Averla è fondamentale per la piccola famiglia ma le permette a stento di vivere. Non può provvedere agli studi delle figlie che, anche loro, si danno da fare per integrare il magro bilancio. Nonostante tutto, Hakima non ha abbandonato la speranza di poter continuare l’istruzione delle figlie. È per questo che chiede sostegno.

Hakima ha bisogno di aiuto perché le sue figlie possano continuare e terminare il loro percorso di studi. Il suo unico sogno è quello di vederle laureate con in mano gli strumenti per cambiare il proprio destino, una professione che permetta loro di avere la dignità e l’indipendenza economica. Quello che lei non ha potuto avere.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.