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Afghanistan: dal riconoscimento del governo talebano all’affossamento dell’ONU

Nella corsa di tutte le potenze mondiali al miglior posizionamento in Asia centrale attraverso gli accordi con i talebani, la Russia è arrivata per prima. Ha infatti ufficialmente riconosciuto l’Emirato islamico dell’Afghanistan, rompendo il fronte dei paesi che ancora mantengono la difesa dei diritti umani e dei principi democratici come preliminari al riconoscimento. Posizione che peraltro l’ONU stesso è andato via via abbandonando in nome del realismo: di fronte alla resistenza dei talebani alle sue richieste e alle sanzioni, ha ben presto cercato una formula che permettesse di normalizzare il governo talebano senza perdere la faccia.

Così, in continuità con gli accordi di Doha del 2020, che avevano abbandonato l’Afghanistan in mano ai fondamentalisti in nome della sicurezza contro il terrorismo, l’ONU ha proceduto nella politica decisa con la Risoluzione  2721 del 2023  concretizzandola con gli accordi di Doha 2 e 3 del 2023-2024 che hanno riconosciuto ai talebani il diritto a partecipare a tutti gli effetti alle conferenze internazionali come unici rappresentanti dell’Afghanistan, escludendo invece le donne, i loro diritti e i diritti del popolo tutto.

Questa strategia di avvicinamento e dialogo è diventata più stringente nel 2025 con l’affidamento all’UNAMA delle trattative del Piano Mosaico, che ha permesso di spostare sul piano “tecnico” i colloqui diplomatici con i taleb, per arrivare nei giorni 31-6/1-7, nell’ambito e a compimento di Doha3, a due gruppi di lavoro segreti per discutere le richieste che fin da subito i talebani avevano posto sul tavolo come condizione per la partecipazione: nessuna intrusione nella politica interna dettata dalla Sharia, quindi nessun diritto riconosciuto a nessuno; rimozione della condanna dei talebani e del loro governo, quindi riconoscimento giuridico; sostegno economico, quindi restituzione dei fondi bloccati nella banca svizzera dagli Usa. Il tutto in cambio di niente.

Due strategie parallele

Ma mentre queste trattative venivano portate avanti in nome dell’ONU, gli stati membri erano tutti d’accordo con questa strategia?

No, non tutti. Gli stati e le potenze asiatiche che vogliono tener fuori gli Usa dall’influenza regionale hanno nel frattempo messo in atto una loro diplomazia, basata su accordi commerciali e aiuti economici e infrastrutturali, esplicitamente disinteressandosi ai problemi politici e democratici dell’Afghanistan. Infatti, proprio mentre i maggiori Paesi occidentali discutevano il Piano mosaico, questi altri si davano da fare con incontri economici e politici a vari livelli regionali invitando ufficialmente l’Afghanistan. Hanno cioè messo in atto una diplomazia parallela, che riconosce di fatto il governo talebano, in attesa di riconoscerlo anche giuridicamente.

La Russia, riconoscendo ufficialmente l’Emirato per prima, ha accelerato questo processo notevolmente e in modo imprevisto, sebbene fosse stato preannunciato da diverse azioni politiche e diplomatiche.

Ma questa mossa che ha scavalcato tutti gli altri Paesi avrà davvero delle ricadute pratiche, segnando una svolta nei privilegi economici e politici che l’Afghanistan riserverà alla Russia in questa fase, portando a progressi significativi nei loro rapporti?

Probabilmente no, per due motivi:

1) Innanzitutto, i rapporti tra i due paesi erano già buonissimi, avendo la Russia, come si è detto, curato di inserire già da tempo il governo talebano come rappresentante legittimo e unico dell’Afghanistan in tutti i vertici internazionali dell’area asiatica, quindi riconoscendolo già di fatto;

2) perché i talebani sembrano interessati a mantenere i rapporti aperti con il maggior numero possibile di Paesi – come loro stessi hanno affermato – senza legarsi a qualcuno in particolare. Quindi useranno questo riconoscimento giuridico più per fare pressione sugli altri Paesi, soprattutto occidentali, che per fare concessioni speciali alla Russia.

Contro l’ONU in quanto istituzione multilaterale

La Russia lo sa. Quindi, cosa l’ha spinta a questo passo precipitoso?

Quella di Putin, più che una dichiarazione di amicizia verso l’Afghanistan dei talebani, sembra essere una provocazione nei confronti degli Usa e dell’Occidente, la dimostrazione che non ha scrupoli, come non ne ha Trump, nella guerra per affermare il proprio predominio in Asia centrale – oltre a essere una dichiarazione di disponibilità verso i paesi grandi e piccoli dell’area a porsi senza esitazioni come capofila della fronda dell’ONU espressa da quei paesi, asiatici, che si oppongono al predominio Usa nell’ONU e alla sua presenza in Asia.

Ma soprattutto è una dichiarazione di guerra all’ONU in quanto istituzione, un boicottaggio della sua autorevolezza, un sabotaggio della sua capacità di gestire i conflitti nella difesa dei diritti umani, perché ha reso superato e inutile la sua strategia arrendevole e dilatoria nei confronti dell’Afghanistan.

L’ONU non ha perseguito con forza e coerenza la politica dei talebani di apartheid di genere e antidemocratica perché fin dall’inizio, dagli accordi di Doha del 2020, ha sostenuto e approvato la scelta degli Usa di accettare e mantenere al governo i talebani, perché questi, sebbene fondamentalisti e dittatori, sono visti come l’unica possibilità di governo in Afghanistan, male minore di fronte alle alternative terroriste. Ma aveva cercato di mimetizzare questo suo reale obiettivo con un approccio graduale nell’accettare le loro richieste, mantenendo formalmente i principi della restituzione della libertà alle donne e della formazione di un governo inclusivo.

In questa strategia che vuole essere democratica e multilaterale, l’ONU in realtà vuole tenere tutti gli stati sotto la direzione degli Usa e dell’Occidente, o almeno viene percepita come tale.

La Russia, con il riconoscimento del governo talebano in barba e al di fuori degli accordi che l’ONU sta perseguendo, ha reso ridicola la tattica di mediazione internazionale. Ha affossato l’ONU non tanto per la gravità e i pericoli dell’atto in sé – perché il riconoscimento è comunque lo scopo finale anche dell’ONU stesso – ma perché l’ha fatto unilateralmente.

In questo Putin fa il pari con Trump e gli Usa.

Infatti gli Usa sono stati tra i pochissimi stati che non hanno votato la dichiarazione finale dell’Assemblea delle Nazioni Unite sull’Afghanistan volta a salvaguardare i principi su cui è basata la convivenza umana del mondo.

Che cosa accomuna queste due decisioni apparentemente lontane e dissimili? Il disprezzo per le istituzioni internazionali conciliative e di garanzia, per l’ONU come organismo sovranazionale di governo e risoluzione dei conflitti fra gli stati.

L’obiettivo di Usa e Russia non è più quello di darsi battaglia all’interno dell’ONU per avere l’egemonia così da orientarlo e manovrarlo a loro favore: vogliono svuotare questa istituzione di significato e potere, perché puntano ormai a competere direttamente per l’egemonia e spartizione del mondo, senza intermediari e impedimenti.

Cambiare la percezione, non la sostanza

Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei talebani ha comportato.

In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poichè a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne.

In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate prevalentemente da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it.

Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”?

In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti.

Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne.

Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà.

I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”

In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica.

Ci hanno scritto:

“Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle.

Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto:

‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan. Ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.

Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’.

Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse.

Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”.

Nel suo sito, RAWA NEWS informa:

In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale.

Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi firmavano garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento.

Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza.

Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate.

NON PER LA RELIGIONE MA PER IL PREDOMINIO

Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso.

Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento.

Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita. Ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale.

Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano.

Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza

Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana.

Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino.

Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro paese va avanti, faticosamente e lentamente certo, ma senza sosta.

Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia.

Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”.

Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”.

Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche.

Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro.

Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal paese.

Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriate e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan.

Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola.

In occasione dei Giochi olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan.

Secondo Rezayee permettere al suo paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team).

La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico.

Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah.

Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato.

Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali, dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile.

Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo.

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.

Belquis Roshan. “Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani”

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 9 luglio 2023

In Afghanistan non poteva più restare, Belquis Roshan, ex senatrice del Parlamento afghano (componente dal 2011 della Camera Alta, Meshrano Jirga, e dal 2019 della Camera Bassa, Wolesi Jirga). È dovuta scappare per non essere uccisa. Ma il senso di sconfitta è più forte del sollievo per lo scampato pericolo.

“Ogni momento, da quando sono uscita dall’Afghanistan, è stato difficile. Ho cercato di fare del mio meglio per migliorare il mio Paese ma siamo stati traditi e abbiamo fallito. Sono stata costretta ad andarmene da sola, tutta la mia famiglia è rimasta lì”.

Roshan era molto conosciuta, dalla sua posizione in Parlamento aveva sempre denunciato crimini, corruzione e tradimenti, si era sempre battuta per i diritti delle donne e contro tutti i fondamentalisti islamici che lo infestavano. I nemici non le mancavano. L’abbiamo incontrata a Roma, dove ha parlato alla conferenza stampa alla Camera dei deputati, promossa dal Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) per presentare i risultati della petizione “Stop Fondamentalismi – stop Apartheid di genere”.

Belquis Roshan, non è la prima volta che lascia il suo Paese, giusto?
BR Questa è la terza fuga. Ero scappata con la mia famiglia ai tempi dell’invasione russa e del primo governo talebano ma non immaginavo di ripercorrere di nuovo questa strada. Per tutto il primo anno, dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul, ho sperato di poter restare. Ma poi nel 2022 alcuni politici afghani dell’ex governo sono stati picchiati, torturati, trascinati per strada e uccisi. Dopo questo episodio i miei compagni hanno fatto molta pressione perché partissi. Mi dicevano: “Se tu rimani, ti arrestano e noi restiamo senza speranza. Sarebbe una vergogna per tutto il movimento di resistenza perché non siamo riusciti a proteggerti. All’estero potresti avere la possibilità di aiutarci da fuori”.

È stato difficile arrivare in Europa?
BR Sì, difficile e pericoloso. Pochi mesi prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul, il governo ci aveva obbligato a prendere un passaporto diplomatico. Con quel tipo di documento non potevo passare la frontiera, il rischio di essere riconosciuta era alto. Una persona ha portato il mio passaporto in Pakistan e io sono andata a piedi, clandestinamente, attraverso le montagne, con altre persone sconosciute. Un viaggio difficilissimo che molti afghani sono costretti a fare.

Come si sente adesso nella sua vita in Germania?
BR Ho una grande responsabilità, quella di denunciare quello che sta succedendo nel mio Paese, come vivono le persone, le donne soprattutto, e la condizione dei rifugiati in Iran e Pakistan. Ogni volta mi chiedo che colpe hanno gli afghani per dover vivere una simile tragedia da così tanto tempo.

In Afghanistan era molto popolare, aveva tanti sostenitori che credevano in lei. Ha ancora contatti con loro?
BR Sì, li sento regolarmente e mi raccontano un situazione disperata, senza soldi, senza lavoro, molti sono fuggiti in Pakistan e in Iran. L’oppressione e la violenza sono molto forti e la gente non ce la fa più. Ti faccio un esempio. Un amico che era capo di una guarnigione dell’esercito a Farah è stato barbaramente ucciso mentre tornava a casa dopo che l’esercito era stata sciolto. I Talebani hanno chiesto alla famiglia di venire a riprendersi il cadavere ma hanno rifiutato, volevano solo la loro vendetta. Volevano uccidere gli assassini. Ogni famiglia ha un lutto, un massacro, una violenza talebana da vendicare. La vendetta cova e potrebbe esplodere con molta violenza. Il mese scorso i Talebani hanno ucciso 300 ragazzi, così, tutti insieme. Non si può sopportare tutto questo. Ci sarà per forza una rivolta.

È possibile che questa rabbia diventi un giorno una resistenza organizzata?
BR Non posso sapere quando ma sono sicura che prima o poi ci sarà una rivoluzione popolare contro questo governo. Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani.

Quali sono gli ostacoli?
BR Prima di tutto manca una leadership. Nessuno si fida di nessuno, hanno tutti paura uno dell’altro. La gente è spaventata, chiusa, sospettosa. Molte delle persone che si vogliono presentare come leader non sono affidabili. Però piano piano stanno emergendo dei giovani militari e attivisti che cercano di organizzare questa opposizione. Ci vorrà molto tempo, ma sappiamo che ogni famiglia in Afghanistan ha un’arma con cui combattere e tante vendette da consumare. Se una rivolta parte poi tutti si uniranno.

Qualche rivolta spontanea c’è stata in questi anni.
BR Sì, in quasi tutte le province afghane la popolazione si è ribellata, gente comune, gente del mercato, disoccupati, ma sono stati sconfitti. I Talebani hanno arrestato e ucciso tantissime persone, a Badakhshan, Kandahar, Jalalabad. Queste rivolte non hanno leadership e sono molto deboli, sono state spazzate via con facilità dai Talebani. In Panshir, ad esempio, la rivolta militare è fallita. La loro guida, Ahmad Massud, era già all’estero mentre i giovani venivano massacrati. E adesso quella provincia è invasa da 30mila soldati Talebani e ogni giorno ci sono persone che perdono la vita. Sono molto controllati, non possono nemmeno usare un telefono.

E le rivolte delle donne?
BR Le donne sono state coraggiose ma sono state sconfitte perché erano male organizzate. Hanno commesso un errore strategico fondamentale. Si sono riunite e si sono subito espresse apertamente e per i Talebani è stato facile ritrovarle nelle loro case, arrestarle, torturarle e ucciderle. Anche i membri delle loro famiglie vengono perseguitati, ancora adesso.

Che cosa avrebbero dovuto fare?
BR Avrebbero dovuto lavorare a lungo in clandestinità per organizzare una rivolta più grande, più profonda e più unita. Così avrebbero potuto sopravvivere e avere maggiore successo.

Quindi un lungo lavoro clandestino, è questo che, secondo lei, potrebbe funzionare?
BR Sì, non bisogna avere fretta. La resistenza deve essere clandestina e diffusa, non concentrata in un solo luogo, sarebbe troppo fragile. Restare nell’ombra, finché non si sia abbastanza forti da avere speranze di vittoria.

Esiste un consenso ai Talebani nel Paese, ad esempio tra la popolazione pashtun?
BR I Talebani della base sono stufi di questo malgoverno. Stanno facendo un gran lavoro di lavaggio del cervello, costruendo migliaia di madrase (istituti d’istruzione media e superiore per le scienze giuridico-religiose musulmane, ndr) per indottrinare la popolazione, per aumentare il loro consenso, ma non ce la fanno. La rigidità delle loro regole è respinta da tutti. Ovunque c’è una quotidiana disobbedienza civile, come quando ai matrimoni suonano e cantano lo stesso, nonostante i divieti. Addirittura all’interno dei Talebani alcune regole estreme sono rifiutate. Penso che proprio tra i pashtun i Talebani abbiano i loro più forti oppositori. L’ideologia estrema talebana non fa parte della nostra cultura. Gli afghani non sono mai stati religiosi radicali, poi, quando il regime comunista è caduto, l’Onu non si è opposto ai mujaheddin e ha lasciato che prendessero il potere con la loro ideologia estremista. È stato un grave errore non intervenire, non hanno evitato tutte le tragedie che da questo errore sono scaturite. Tragedie che hanno colpito soprattutto le donne. C’è stata tanta violenza contro le donne anche nel periodo passato però almeno si potevano denunciare questi casi, c’erano delle leggi a cui appoggiarsi, adesso ogni crimine è permesso, l’impunità è totale. Ascolto tutti i giorni storie orribili, anche nei racconti della mia famiglia.

Il governo talebano potrebbe sopravvivere senza il sostegno economico degli Stati Uniti?
BR 
I Talebani si sono appropriati delle miniere e delle altre risorse del Paese ma posso dire con sicurezza che, senza questi soldi, non potrebbero sopravvivere nemmeno sei mesi. Ne hanno bisogno per far funzionare la macchina governativa.

Se questo sostegno dovesse finire, potrebbe essere un vantaggio per far crollare il regime?
BR Non credo. Se i Talebani dovessero restare senza fondi, scoppierebbe una guerra civile, anche tra loro, perché le tensioni interne sono molto alte e, per le risorse, si scatenerebbero sicuramente lotte feroci. Sarebbe un periodo di guerre senza controllo, nessuno gestirebbe più il Paese, tutto sarebbe allo sbando. E questo non conviene nemmeno agli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti potrebbero fare pressioni politiche sul governo talebano?
BR Certo. Gli Stati Uniti stanno giocando contro gli interessi della popolazione afghana. Hanno sempre fatto quello che volevano, consegnare il Paese ai Talebani, mettere due presidenti, gestire i governi fantoccio. Attraverso il ricatto economico potrebbero facilmente mettere pressione sul governo talebano e ottenere quello che vogliono, perfino organizzare delle elezioni, qualsiasi cosa. Ma non lo fanno.

Perché?
BR Non hanno nessun interesse per il miglioramento della situazione della popolazione afghana, l’importante è avere il controllo del Paese, per contrastare meglio la Cina e l’Iran. E per questo serve un Paese fragile, completamente dipendente. Se gli afghani fossero più forti non sarebbero più manipolabili.

C’è ancora una presenza militare statunitense sul territorio afghano?
BR Sul terreno sono molto attivi i servizi segreti non tanto i militari. Ma i Talebani sono in contatto con i soldati americani per addestramento e sostegno militare. Ora sembra che vogliano riprendersi la base di Bagram. Il cielo dell’Afghanistan è sempre nelle loro mani.

Che cosa le manca di più del suo Paese?
BR Le persone, la gente. La libertà di movimento che avevo. Qui sono costretta a stare sempre nello stesso posto, devo chiedere il permesso per viaggiare, per muovermi, sono sempre controllata. Con tutte le difficoltà, in Afghanistan non mi sentivo mai depressa o triste.

C’è ancora speranza in Afghanistan?
BR La guerra da noi dura da 50 anni. Anche adesso è una guerra, alle donne, alla vita, alla libertà, alla gioia, alla sopravvivenza. Ma nonostante tutto, la popolazione afghana continua a essere piena di vita e di speranze per il futuro. Quando parlo con i miei parenti mi dicono sempre: “Non ti preoccupare, tornerai presto. I Talebani rimangono ancora due anni e poi se ne vanno”. Sono loro a dare coraggio a me. Anche quando sento i miei amici, che erano soldati dell’esercito, mi dicono: “Noi ti stiamo aspettando, sappiamo che tornerai e siamo pronti a lavorare ancora con te”.