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Afghanistan. Dalla lama della “democrazia statunitense”, alla decapitazione islamista

L’articolo è stato pubblicato su Confronti, marzo 2025

Il numero di marzo è dedicato alle donne, protagoniste assolute di queste pagine. In apertura Enrico Campofreda ha intervistato l’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) che denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi

L’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Dopo le prime proteste represse con violenza, le donne afghane sono costrette a manifestare in clandestinità, mentre il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi.

Il contesto attuale in Afghanistan, dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, è segnato da una drammatica regressione nei diritti delle donne. Le manifestazioni di protesta femminili, che nelle prime settimane dall’ascesa del regime erano vigorose, sono state brutalmente soffocate con arresti, torture e violenze sessuali. Nonostante il regime talebano abbia cercato di rendere impossibile ogni forma di dissenso pubblico, molte attiviste continuano a lottare in modo clandestino, usando i social media come strumento di denuncia.
La situazione delle donne afghane si è progressivamente deteriorata tanto che, a febbraio scorso, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato di aver richiesto due mandati d’arresto per il leader supremo dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, e il presidente della Corte Suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani, accusati di crimini contro l’umanità per persecuzione di genere.

In questa situazione abbiamo intervistato Shaqiba, un’attivista di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), che ha recentemente intrapreso un tour in Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammaticità della condizione femminile nell’Afghanistan talebano. In Italia, Shaqiba è stata ospite del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda), un’associazione che da oltre venticinque anni si batte al fianco delle donne afghane, cercando di portare alla luce le atrocità perpetrate dal regime talebano e sostenendo le attiviste che, a rischio della propria vita, continuano a lottare per i diritti delle donne in Afghanistan.

Dopo le combattive manifestazioni femminili nelle prime settimane del secondo Emirato, le proteste di strada sono ormai impossibili?
Subito dopo l’ascesa al potere dei talebani nell’ago- sto 2021 le donne di diverse aree afghane sono scese in piazza per opporre
Molte di loro sono state arrestate, imprigionate, torturate e, in alcuni casi, sono stati documentati rapporti di stupro e molestie sessuali. I talebani hanno storicamente usato vari mezzi per control- lare e imporre il silenzio fra le persone che catturano o rilasciano.
La strategia di costringere i prigionieri a firmare accordi sotto minaccia di morte o detenzione è una tattica comune per reprimere il dissenso e mantenere il controllo tramite l’intimidazione. Tuttavia, è difficile documentare queste violazioni, poiché i sopravvissuti temono ritorsioni. Alcune donne hanno denunciato crimini durante la detenzione, ma la repressione e le minacce hanno spinto molte a manifestare in spazi chiusi. Le proteste si spostano online, dove le attiviste esprimono il loro dissenso contro un regime misogino. Non c’è nessuna accettazione del sistema, ribadiamo che la ragione per cui le attiviste hanno ridotto le proteste di strada è la coercizione.

Da cosa sono oppresse oggi le donne afghane?
L’Afghanistan è diventato una prigione per le donne, con restrizioni sempre più severe. La disoccupazione, la povertà e le pressioni psicologi- che portano a un aumento dei suicidi femminili. Ogni giorno emergono crimini gravi come esecuzioni pubbliche, femminicidi, matrimoni forzati e vendite di ragazze per miseria. Le studentesse – come nel caso dell’Università Kankor – sono escluse dagli esami di ammissione, le docenti licenziate e gli istituti medici chiusi. Le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore maschio [mahram] e le Ong ancora presenti sul territorio sono costrette a rinunciare alle dipendenti femminili. Negli ultimi venticinque anni le donne afghane hanno sofferto sotto la lama della cosiddetta democrazia sostenuta dagli Stati Uniti, ora sono decapitate sotto la maschera dell’Islam.

In che modo, rispetto ai governi precedenti, la protezione delle donne è peggiorata?
Prima del ritorno dei talebani, le donne vivevano già in condizioni precarie. Molti distretti erano sotto il controllo dei fondamentalisti, sebbene go- vernasse Ashraf Ghani e con gli esecutivi sostenuti dagli Stati Uniti. Nell’ottobre 2015, Rukhshana, una giovane di Ghor, è stata pubblicamente lapidata a morte per essere “presumibilmente” fuggita da casa. A quell’epoca i funzionari governativi hanno violentato decine di donne. Auto-immolazione, taglio del naso e delle orecchie alle donne dilaga- vano. A Mazar-e-Sharif una bimba di nove anni venne scambiata con un cane. Parecchi conosco- no la tragica vicenda di Farkhunda che nel marzo 2015 fu assassinata e bruciata a pochi chilometri dal Palazzo presidenziale. La violenza, tra cui suicidi, mutilazioni e matrimoni forzati, era diffusa, mentre i media affermavano che la condizione del- le donne migliorava. È vero che la Costituzione afghana dell’epoca prevedeva la parità fra i generi e che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne è statale, ma questa norma rimaneva solo un pezzo di carta inapplicato e inutilizzato nei tribunali. Tutto ciò accadeva perché diversi jihadisti [signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar, Karim Khalili, Abdul Rashid Dostum] facevano parte dei governi Karzai e Ghani. Al loro fondamentalismo è stato dato un falso volto democratico proprio dalla linea di condotta statunitense. La corruzione e la presenza di jihadisti al potere hanno peggiorato la situazione, culminando nel crollo del governo e nel ritorno del regime tale- bano, che ha eliminato le poche libertà rimaste. Vedove e donne divorziate ora affrontano la stessa sorte delle altre afghane. Le donne che erano sta- te precedentemente separate dai loro mariti sono state costrette a rientrare in casa e le Corti talebane emettono sentenze sulla base della Shari’a.

LE DONNE ERANO GIÀ IN UNA SITUAZIONE PRECARIA, MA ORA L’AFGHANISTAN È DIVENTATO UNA GRANDE PRIGIONE PER LE DONNE.

Cosa riesce a fare la rete di Rawa?
Rawa continua a essere attiva in campo politico, sociale e umanitario. Ora opera in clandestinità e perlopiù organizza corsi domestici di alfabetizza- zione, inglese, scienze e matematica per ragazze in età scolare e donne analfabete. Gestisce inoltre istituti per bambini in aree remote e offre assistenza sanitaria tramite una squadra mobile che interviene nei momenti di crisi, come terremoti, inondazioni e altre calamità. Tra le attività umanitarie figura anche la distribuzione di pacchi alimentari a famiglie povere e disoccupati durante le emergenze. L’obiettivo principale è aumentare la consapevolezza politica di donne e giovani, mobilitandoli e organizzandoli. Coordina proteste contro il regime dei taliban celebrando anniversari come l’8 marzo o il martirio di Meena Keshwar Kamal [fondatrice di Rawa assassinata nel novembre 1987]. Attraverso la sua rivista e il sito web, diffonde notizie sulla situazione interna, pubblica articoli analitici sul ruolo degli Stati Uniti nel sostenere il fondamentalismo e riporta le attività dei suoi membri in tutto il mondo. Per garantire la sicurezza delle attiviste, le iniziative vengono pubblicizzate con discrezione.

Le attiviste di Rawa possono ancora agire all’interno del Paese o sono costrette a vivere all’estero?
Le attiviste possono muoversi in diverse aree del Paese, ma devono prestare grande attenzione alla sicurezza per evitare di essere individuate e arrestate. Nonostante le difficoltà, Rawa ha scelto di rimanere in Afghanistan, accanto a chi ha perso tutto. Lasciare il Paese e vivere all’estero sarebbe l’opzione più semplice, ma il nostro impegno è essere un punto di riferimento per la popolazione, contribuendo alla sensibilizzazione e alla lotta per un futuro migliore.

Perché molti intellettuali e giovani hanno lasciato il Paese e non hanno scelto la resistenza?
Molti intellettuali e persone istruite, che avevano lavorato in importanti istituzioni durante il ventennio dei governi sostenuti dagli Stati Uniti, sono stati successivamente evacuati dopo la riconquista talebana di Kabul. Tuttavia, non hanno pensato alla resistenza, mancando di senso di responsabilità e patriottismo. Molti giovani, spinti dalla mancanza di lavoro, hanno lasciato l’Afghanistan e continuano a farlo, con diverse famiglie che inviano membri all’estero per mantenere con le rimesse i parenti in loco. Ma la scelta di rimanere in Afghanistan e lottare non è limitata al sesso o all’età. Abbiamo visto che tante donne si sono ribellate e hanno combattuto contro il governo talebano più degli uomini. Nelle rischiose circostanze delle proteste gli uomini sono facilmente identificabili, loro non possono celarsi dietro il burqa… Se arrestati rischiano più facilmente la tortura. Ed è il motivo per cui alcune contestazioni maschili restano virtuali, utilizzando i social media.

La crescente precarietà dipende anche dal calo del sostegno esterno e dall’intensificarsi della crisi in Medio Oriente?
Negli ultimi vent’anni di occupazione Nato, in- genti fondi sono arrivati in Afghanistan, ma anziché essere destinati a progetti strutturali come infrastrutture e trasformazioni durature, sono stati sprecati in corruzione e ruberie politiche. Traditori come Abd al-Rasul Sayyaf, Yunus Qanuni, Muhammad Mohaqiq, Karim Khalili e membri dell’Alleanza del Nord che erano al potere, accumulavano grandi ricchezze, mentre la maggioranza della gente diventava sempre più povera. Con l’ascesa dei talebani, oltre alla cacciata delle donne da lavori pubblici e privati, molte aziende e istituzioni hanno chiuso, peggiorando ulteriormente l’economia. Sebbene i talebani ricevano milioni di dollari settimanali da Stati Uniti e altri Paesi, grazie anche al traffico di oppio e alla cessione di risorse minerarie, è la popolazione a pagare il prezzo, soffrendo sotto un regime oppressivo. Nonostante le gravi condizioni, l’attenzione internazionale è di- minuita, e le crisi umanitarie in Afghanistan vengono raramente riportate dai media globali.

Gli hazara, oltre agli attacchi dell’Isis-K, sono vittime di arresti, privazioni e discriminazioni da parte dei talebani. È possibile fermare questo razzismo?
Sostenendo i fondamentalisti alla Sayyaf, Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Mohaqiq, Khalili e i taliban, gli Stati Uniti hanno contribuito a favorire le divisioni etniche e settarie in Afghanistan. Questo ha rappresentato uno dei ruoli distruttivi di Usa, Pakistan, Iran nel dividere le etnie interne e incitarle all’odio. La discriminazione religiosa è stata prevalente durante i quarant’anni di conflitto. Il razzismo, la discriminazione, la tortura e l’uccisione delle minoranze possono essere fermati solo se gli americani e i loro alleati smettono di finanziare e sostenere gruppi terroristici. Nei Paesi in guerra le discriminazioni razziale e religiosa sono fomentate per impedire l’unità delle persone, assicurando che i gruppi etnici e confessionali si combattano e i governi-fantoccio traggano vantaggio dalle divisioni. Il razzismo e la discrimina- zione possono essere sradicati solo con l’istituzione d’un sistema democratico secolarista.

Esistono in Afghanistan progetti politici e leader in grado di allontanare il Paese dal fondamentalismo e dal tribalismo?
Alcune organizzazioni politiche e sociali mira- no a coinvolgere i cittadini contro le limitazioni dell’estremismo religioso e dell’esasperazione etnica. Personalmente cito il movimento Rawa e il Partito della solidarietà, entrambi s’oppongono ai fondamentalismi e li combattono senza timori e compromessi

Comunicato Stampa – 8 marzo 2025: è tempo di liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

Il secolo corrente deve essere il tempo in cui le donne, in ogni parte del mondo, prendono in mano le loro sorti e lottano insieme per liberarsi dal patriarcato.

Noi donne del CISDA che da oltre 25 anni lavoriamo a fianco delle donne afghane di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), sappiamo che la loro lotta non è altro che un tassello delle lotte delle donne che in ogni angolo del pianeta si ribellano all’oppressione e al patriarcato in tutte le sue forme.

Sotto il regime dei fondamentalisti talebani le donne afghane sono oggi tra le più oppresse al mondo: non possono studiare, lavorare, uscire di casa sole, e quando escono devono coprire il proprio corpo da capo a piedi. Un vero e proprio apartheid di genere che ha l’obiettivo di annientare sistematicamente le donne e la loro volontà di lotta, che è un esempio di coraggio e resistenza.

Ovunque il fondamentalismo crea apartheid di genere. L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale.

Noi lottiamo con loro, ma sappiamo anche che fino a che ci sarà anche una sola donna schiava e oppressa nessuna sarà libera.

Viviamo un tempo disperante, in cui il sistema capitalista e patriarcale sta facendo passare come inevitabili militarizzazione della società, guerre, cambiamenti climatici, disumanizzazione e genocidio di interi popoli, dei migranti e delle persone razializzate. Il fascismo, ormai dilagante in tutto il mondo occidentale e non solo, ha come primo target le donne, a cui viene chiesto di ridurre il proprio ruolo a quello di fattrici e forza di lavoro gratuita o sfruttata e sottopagata.

Questa disperazione, soprattutto per noi donne, deve trasformarsi in una lotta comune contro la violenza, il femminicidio, il fascismo, le politiche genocide e le guerre, tutti tasselli di un medesimo disegno di un sistema in profonda crisi.

 

Contro l’apartheid di genere in Afghanistan e ovunque nel mondo.

Contro tutti i fondamentalismi che imprigionano le donne

 

La Corte penale internazionale apre uno spiraglio di giustizia per le donne afghane

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia

Il 23 gennaio 2025 il procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) Karim Khan ha lanciato un forte atto d’accusa nei confronti dei Talebani: ha richiesto l’arresto del leader supremo, Mullah Hibatullah Akhundzada, e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché ritenuti responsabili del crimine contro l’umanità di persecuzione di genere.

La documentata accusa sta in due lunghi e dettagliati documenti che danno il quadro dei crimini commessi dai Talebani in questi ultimi tre anni e mezzo e del ruolo diretto dei due accusati nell’architettare e sostenere la sistematica violazione dei diritti delle donne e delle persone Lgbtqi+, persecuzione commessa almeno dal 15 agosto 2021 e fino a oggi in tutto il territorio dell’Afghanistan.

È una decisione storica: per la prima volta una richiesta di indagine della Cpi è incentrata sul crimine di persecuzione di genere come reato principale, e non solo per le azioni persecutorie contro le donne e le ragazze ma anche per quelle messe in atto nei confronti delle persone Lgbtqi+

Un atto coraggioso, che supera i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati cosiddetti democratici che rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano ma intanto invitano i propri esponenti ai convegni internazionali e con loro fanno affari.

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Di fronte all’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali che richiedono il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i Talebani con concessioni commerciali e aiuti economici. E nemmeno quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati, perché non ci sono Talebani cattivi e Talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti.

La provata continuata oppressione delle donne in quanto genere e delle persone che non si conformano alla visione del mondo dei Talebani sarebbe stata meglio definita dal termine “apartheid di genere” (Adg), con il quale ormai da tutti viene nominata la persecuzione sistematica delle donne che avviene in Afghanistan, e in modo meno eclatante anche in altri Paesi. Ma la Cpi non poteva usare questo termine perché l’Adg non è un reato previsto dallo Statuto di Roma, che contempla l’apartheid basato sulla discriminazione etnica ma non sul genere.

Sebbene la Cpi abbia cercato di aggiornare e integrare il reato di persecuzione di genere, l’Adg rimane una definizione più ampia e comprensiva di tutte le sfaccettature e gli aspetti politici che le differenze di genere comprendono. Perciò da varie parti si avanza la richiesta di rivedere lo Statuto di Roma integrandolo con il crimine specifico di Adg. Anche il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) si unisce a questa richiesta nella sua “Campagna Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere” già avviata da novembre 2024.

Nel settembre dello scorso anno Canada, Germania, Australia e Paesi Bassi, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte di giustizia internazionale, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw) di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è in corso, vedremo nei prossimi mesi come andrà avanti.

Intanto, il 28 novembre scorso Cile, Costa Rica, Spagna, Francia, Lussemburgo e Messico hanno esortato il procuratore della Cpi a indagare sulle violazioni sistematiche e continue dei diritti delle donne e delle ragazze da parte dei Talebani.

Accogliendo la loro richiesta, a fine gennaio, il procuratore, che aveva già annunciato la ripresa delle indagini sulla situazione in Afghanistan dopo un periodo di differimento, ha presentato le richieste di arresto per i due Talebani.

I giudici della Cpi hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta. Se i mandati venissero emessi, i due uomini potrebbero essere arrestati in qualsiasi Paese membro della Corte, anche se, data la loro propensione a rimanere all’interno di Paesi amici, gli arresti e i processi sono in realtà una prospettiva lontana.

Potrebbe sembrare quindi un atto con scarse ricadute pratiche. Tuttavia, anche se questi mandati non dovessero portare all’arresto immediato e al perseguimento dei leader Talebani, avrebbero comunque l’effetto di danneggiare la loro posizione politica di fronte all’opinione pubblica mondiale. Rappresenterebbero un passo significativo nella lotta contro il riconoscimento internazionale del governo talebano, in un momento in cui molti Stati e l’Onu stesso si stanno adoperando per trovare giustificazioni umanitarie ed economiche che permettano di riconoscere al governo talebano il diritto a rientrare di fatto nella comunità internazionale nonostante la loro visione fondamentalista, condannata a parole da tutti gli Stati ma subita nei fatti in nome del pragmatismo.

La presa di posizione della Cpi ci costringe a ricordare che è ancora viva la tragedia delle donne in Afghanistan, un Paese uscito dai radar mediatici sulla spinta di altre catastrofi più recenti e dalla consapevolezza che l’opinione pubblica spesso facilmente dimentica le tragedie appena escono dall’immediato presente.

Ma soprattutto dovrebbe rendere evidente ai politici e alle istituzioni mondiali che impegnarsi con il governo dei Talebani, convocarli ai convegni internazionali, mediare con loro significa dare credibilità a un governo di criminali.

Per le donne vittime della persecuzione di genere la prospettiva aperta dalla Cpi rappresenta una speranza di riconoscimento della gravità della loro sofferenza e del loro coraggio. Ma se la giustizia vuole essere giusta non deve dimenticare le responsabilità dei Paesi occidentali. Nei vent’anni di guerra e occupazione le forze della coalizione, Stati Uniti in testa, si sono macchiate di numerosi atti di violenza e torture sulla popolazione civile.

Human rights watch (Hrw) e Amnesty international ricordano giustamente che tutte le vittime sono uguali e hanno uguale diritto al riconoscimento e al risarcimento. Perciò la Cpi non deve limitarsi a prendere in considerazione le vittime recenti del governo talebano ma deve invece riconsiderare le responsabilità di tutti gli attori in campo colpevoli di atti di barbarie, violenze, torture e ingiustizie che hanno provocato le numerosissime vittime civili.

L’Afghanistan ha aderito nel 2003 al Trattato di Roma che ha istituito la Cpi. Era il 2006 quando venne avviato un esame preliminare sui possibili crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Afghanistan dalle varie parti, cioè l’esercito degli Stati Uniti e la Cia, le forze di sicurezza afghane e la rete dei Talebani e degli Haqqani. Ma fu solo nel 2017 che l’allora procuratore Fatou Bensouda chiese ai giudici della Camera preliminare di autorizzare l’indagine ufficiale.

Passarono anni di immobilismo in attesa che si decidesse quale ambito di inchiesta fosse consentito effettuare. E quando nel 2023 è stato concesso di includere nelle indagini anche i recenti “nuovi attori” oltre ai responsabili dei venti anni precedenti, Khan ha deciso di concentrare le sue inchieste sui Talebani e sull’Iskp, escludendo di fatto la Cia, l’esercito statunitense e le forze della Repubblica afghana dalla sua competenza, considerando troppo oneroso condurre ricerche su casi di così ampia portata.

Una decisione forse realistica ma che ha creato una “gerarchia nelle vittime” determinata dall’identità del presunto autore, invece che dalla portata e gravità dei crimini. “Un insulto a migliaia di vittime di crimini commessi dalle forze governative afghane e dalle forze statunitensi e della Nato”, come l’ha giustamente definita un’attivista afghana.

La Cpi sta affrontando in questi giorni una pressione significativa a livello internazionale, che potrebbe avere conseguenze sulle sue indagini e sulla sua stessa esistenza. Gli Stati parte dello Statuto di Roma che governa la Corte, tra cui l’Italia, dovrebbero confermare l’importanza di questa istituzione e supportare concretamente l’esercizio del suo mandato indipendente, garantendole con il sostegno e l’assistenza pratica la possibilità di espandere le sue indagini in Afghanistan.

Mandati di arresto per i talebani, un atto coraggioso in difesa delle donne afghane

Finalmente qualcosa si muove anche a livello istituzionale in difesa delle donne afghane e del loro diritto all’esistenza. Qualcuno si è accorto della loro quotidiana insopportabile sofferenza e, andando oltre le astratte dichiarazioni in difesa dei diritti umani, si è esposto con un atto concreto.

Il procuratore capo della Corte Penale Internazionale (CPI) Karim Khan ha richiesto mandati di arresto per il leader supremo dei talebani, Mullah Hibatullah Akhundzada e per il suo giudice capo, Abdul Hakim Haqqani, perché responsabili del crimine di persecuzione di genere ai sensi dell’art. 7(1) (h) dello Statuto di Roma. Li ritiene “penalmente responsabili di aver perseguitato ragazze e donne afghane, così come le persone che i talebani percepivano come non conformi alle loro aspettative ideologiche di identità o espressione di genere, e le persone che i talebani percepivano come alleate di ragazze e donne. Questa persecuzione è stata commessa almeno dal 15 agosto 2021 fino ai giorni nostri, in tutto il territorio dell’Afghanistan”.I giudici della CPI hanno tempo tre mesi per decidere se accogliere la richiesta del procuratore, che ha anche annunciato che richiederà altri mandati di arresto per i funzionari talebani.

La CPI ha preso una decisione storica, superando i tentennamenti e le politiche contraddittorie dell’Onu e degli Stati che si dicono democratici perché rifiutano formalmente il riconoscimento del governo talebano, ma intanto invitano i suoi esponenti ai convegni internazionali e fanno affari con loro.

In questi tre anni di governo i talebani e i loro fedeli emissari hanno promulgato e messo in pratica innumerevoli decreti contro le donne, le ragazze e le persone LGBTQ+, rendendole schiave segregate nelle loro case, senza il diritto di andare a scuola e di lavorare fuori casa, di vestirsi e muoversi liberamente, perfino di cantare, parlare, pregare ad alta voce, completamente nascoste e separate anche dalle altre donne, nella loro concezione fondamentalista considerate fonte di ogni male in quanto donne.

Preso atto dell’assoluta impermeabilità del governo talebano alle ingiunzioni delle istituzioni internazionali per il ritiro dei provvedimenti e il ripristino dei diritti delle donne in cambio del loro riconoscimento, la risposta non può essere quella di cancellare il problema dalle agende politiche e recedere dalle pressioni per ingraziarsi i talebani con concessioni commerciali e aiuti economici, nella speranza di convincerli in futuro ad accettare le regole della democrazia. Né quella di scommettere su una divisione del fronte talebano per poterne appoggiare gli esponenti più moderati.

Non ci sono talebani cattivi e talebani buoni: sono tutti comunque fondamentalisti e la loro ragion d’essere sta proprio in questa ideologia che li accomuna. Infatti nel corso dei vent’anni di governi filoccidentali non si sono mai sciolti né amalgamati con posizioni più flessibili per trovare un loro spazio nella politica e nel governo. Non possiamo perciò contare sulla loro assimilazione futura, ma solo sulla loro sconfitta.

Plaudiamo quindi alla richiesta di incriminazione della CPI, che li smaschera pubblicamente per quello che sono: criminali che vanno arrestati e perseguiti come tali, non politici con cui trattare.

Il percorso della CPI in questa direzione sarà lungo e difficile, anche perché la Corte deve difendersi dagli attacchi di quegli Stati che vogliono minarne la credibilità e distruggerla completamente, ma è un atto che rende più difficile il riconoscimento del governo talebano da parte degli Stati che hanno aderito allo Statuto di Roma e alla istituzione della CPI.

Anche l’Italia è tra questi e vogliamo che si schieri a favore dei diritti delle donne e delle persone LGBTQ+.

Per questo il Cisda, all’interno della Campagna contro l’apartheid di genere che ha recentemente lanciato, propone una petizione rivolta al governo italiano perché questo, consapevole del suo ruolo istituzionale, si renda responsabile della difesa dei diritti delle donne presso gli organismi internazionali competenti.

Chiediamo quindi che lo Stato italiano:

– appoggi la richiesta di inserimento dell’apartheid di genere tra i crimini internazionali nella Convenzione in discussione all’ONU e nella revisione dello Statuto di Roma

– si unisca agli Stati che chiedono alla Corte Penale Internazionale e alla Corte Internazionale di Giustizia di chiamare i talebani alle loro responsabilità

– non dia riconoscimento, né giuridico, né di fatto, al regime talebano.

L’Afghanistan è il peggior paese al mondo per nascere donna

Intervista a Graziella Mascheroni, presidente del Cisda, associazione che lotta contro l’apartheid di genere nel paese dei talebani.

In Afghanistan le donne possono solo respirare. Segregate tra le mura domestiche o coperte con i loro burqa quando si espongono alla minima luce del sole, le donne afghane non devono essere visibili, neanche attraverso una finestra o una fessura di un cortile. Private della parola e del canto, non possono far udire il suono della loro voce in pubblico, nemmeno quando pregano.

La volontà dei talebani è seppellire le donne, imprigionarle dentro case che si stanno trasformando sempre più in prigioni, renderle invisibili alla società, al mondo. In Afghanistan, da quando sono ritornati al potere (agosto 2021), le donne sono state progressivamente cancellate dagli spazi pubblici, private dei loro diritti fondamentali e poste in una condizione di violenta oppressione, tant’è che in Afghanistan non si parla più di discriminazione di genere, bensì di apartheid di genere.

….

L’intervista integrale si trova su  MicroMega il 14 gennaio 2025 a firma di Silvia Cegalin

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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Continua la raccolta firme per la petizione STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE

  1. all’apartheid di genere come crimine contro l’umanità.
  2. NO al riconoscimento, giuridico o di fatto, del regime fondamentalista talebano.
  3. al sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche.

Sono questi i 3 obiettivi che si pone la campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE lanciata dal CISDA lo scorso 10 dicembre in occasione della Giornata mondiale per i diritti umani.

Nell’ambito di questa Campagna è stata aperta una raccolta firme per una Petizione con la quale si chiede Governo italiano di sostenere questi obiettivi.

1. Cosa significa apartheid di genere e perché è un crimine contro l’umanità

“Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”. È questa la definizione per il crimine di apartheid di genere che il CISDA, con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente, e attraverso la delegazione italiana, alla VI Commissione dell’ONU che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

È un lavoro complesso, sul quale l’ONU si sta confrontando da sei anni, ma alla fine del 2024, nonostante l’ostruzionismo di alcuni paesi, è stato delineato un percorso che, sebbene molto lungo dato che le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste nel 2028 e 2029, definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione.

Nella definizione proposta dal CISDA, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi oltre da attori statali, anche da attori non statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che gli attori non statali possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone LGBTQI+.

Per questi motivi, nella Petizione si chiede:

Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

2. Perché il crimine di apartheid di genere è legato ai fondamentalismi

Il CISDA ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine ‘800, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario ecc.”. Per questo CISDA ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire STOP a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.

Concretamente la Campagna, e di conseguenza la Petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.

Per questi motivi, nella Petizione si chiede:

Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano sostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella di deferimento dell’Afghanistan per ulteriori indagini alla Corte Penale Internazionale sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.

3. Perché sostenere le forze antifondamentaliste, democratiche e progressiste dell’Afghanistan

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella Petizione del CISDA: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere al gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali: a partire dalla fine degli anni ’70, è un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni ’70, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Organizzazioni, per esempio, come RAWA o HAWCA che CISDA sostiene dalla sua nascita.

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione la cui maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso, infatti, si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.

Per questi motivi, nella Petizione si chiede:

Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENERE

Governo italiano

I fondamentalismi, nelle loro diverse forme e caratterizzazioni, creano sempre apartheid di genere e l’Afghanistan è il Paese che ne rappresenta il caso più emblematico, anche se non è il solo. L’autodeterminazione della donna e degli individui LGBTQI+ vede infatti drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. La promozione del valore della laicità è l’argine più efficace ai fondamentalismi, e quindi all’apartheid di genere, come indicano le organizzazioni progressiste, democratiche e antifondamentaliste anche in Afghanistan.

Pertanto il CISDA (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane) con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa

CHIEDE AL GOVERNO ITALIANO

Di sostenere i seguenti obiettivi e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali.

  1. Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità (al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.

  2. Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebano attivando, fin da subito, azioni di condanna e, in particolare, che:

    le Nazioni Unite non diano riconoscimento, né giuridico né di fatto, al regime; venga messo al bando il fondamentalismo talebano con provvedimenti urgenti; si impediscano finanziamenti e rifornimenti militari da parte di Paesi amici; si estromettano i rappresentanti del regime da incontri della diplomazia internazionale e dalle riunioni delle Nazioni Unite e si applichino puntualmente le limitazioni totali di viaggio ai suoi esponenti come già previste dalle sanzioni anti-terrorismo.

In questo ambito si chiede al governo italiano di sostenere l’azione presa da Australia, Canada, Germania e Paesi Bassi, e sostenuta da altri 22 stati, di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), di cui l’Afghanistan è firmatario.

  1. Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

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