Dove sono le donne afghane?
25 Novembre 2024
La decisione, adottata da Erdoğan nel 2020, di ritirare la Turchia dalla Convenzione di Istanbul segna una svolta. Cisda e Trama di Terre sottolineano l’urgenza di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico
Cisda e Trama di Terre di Imola (associazione interculturale impegnata a consolidare le relazioni tra donne native e migranti e a contrastare le discriminazioni e la violenza maschile in tutte le sue forme) celebrano il 12esimo anniversario della firma della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica (nota come Convenzione di Istanbul) su Altreconomia, con una conversazione tra Maria Cristina Rossi, attivista di Cisda e Tiziana Dal Pra, fondatrice di Trama di Terre, attivista e formatrice.
Cristina/Cisda. Come associazione femminista impegnata dall’epoca del primo governo talebano a sostenere le organizzazioni che in Afghanistan combattono la violenza maschile contro le donne e il fondamentalismo religioso, guardiamo con preoccupazione agli esiti del recesso dalla Convenzione imposto alla Turchia dal presidente Recep Tayyip Erdoğan nel 2020. Lo scenario è inquietante: la presenza di Istanbul garantiva nella sostanza e sul piano simbolico, un ponte tra Europa, Asia e il resto del mondo, indispensabile per combattere la violenza a livello transnazionale.
Tiziana/Trama di Terre. La Convenzione, strumento essenziale per i suoi quattro obiettivi (prevenire, proteggere, perseguire e politiche integrate) e per il suo carattere vincolante rinforzato da un organismo di monitoraggio, introduce nuove tipologie di reato per molti dei Paesi firmatari quali le mutilazioni genitali femminili, lo stalking, l’aborto forzato, la sterilizzazione forzata e il matrimonio forzato, di cui la nostra associazione si occupa dal 2009 a seguito delle prime segnalazioni, raccolte con l’aiuto di mediatrici culturali e in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna. Nel 2010 dopo una missione in Marocco, da cui proveniva allora il maggior numero di donne di origine straniera residenti sul territorio e dove i matrimoni precoci erano moltissimi, abbiamo aperto la prima casa rifugio per ragazze in fuga dalle unioni forzate e dal controllo familiare e comunitario.
Le nostre antenne sono soprattutto le insegnanti. Ci contattano quando una loro allieva ha paura che i genitori non le permetteranno di rientrare in Italia dopo le vacanze. Il solo biglietto di andata in tasca è un segnale. La voce gira ormai tra le giovani di seconda generazione, alcune temono di essere costrette a sposare un proprio parente una volta rientrate nel Paese d’origine. I casi che hanno trovato risonanza sulla stampa italiana riguardano ragazze di origine pakistana, ma gli omicidi di Hina Saleem (nel 2006), di Sana Cheema (nel 2018) e di Saman Abbas (nel 2021) sono solo la punta di un iceberg.
Come si evince dal report “Global estimates of modern slavery: forced labour and forced marriage”, curato da Organizzazione mondiale per le migrazioni, Organizzazione internazionale per il lavoro e Walk free, 22 milioni di persone sono state costrette al matrimonio forzato nel 2021. Un fenomeno in crescita, strettamente legato a consuetudini e pratiche patriarcali consolidate, che assume caratteristiche specifiche in base ai contesti. Oltre l’85% dei casi è riconducibile a pressioni familiari e i due terzi si verificano in Asia e nel Pacifico. In Italia, grazie alla legge 69/2021 denominata “Codice rosso”, è stata introdotta nel codice penale questa fattispecie di reato, ma si registra una carenza relativamente a evidenza dei dati, misure di sostegno alle vittime (aspetto gravissimo), agli obiettivi fondamentali della prevenzione e della formazione: che deve essere di sistema, per coinvolgere tutta la rete dei servizi responsabili di prevenzione e presa in carico.
Avendo fin dall’inizio avuto a che fare con casi riguardanti ragazze e donne appartenenti a famiglie di religione musulmana, ci siamo trovate di fronte a un importante interrogativo, che non riguarda solo l’incidenza degli elementi culturali e religiosi. Ma anche il ruolo dell’Islam che agisce sul piano politico. Oggi ci troviamo ad essere parte civile nel processo per l’omicidio di Saman Abbas accanto ad associazioni islamiche in corsa per una maggiore agibilità politica e istituzionale in Italia. Oltre il “ponte” di Istanbul, le donne afghane, iraniane e turche sono sotto attacco, ma lo siamo tutte quando l’uso politico del discorso religioso uccide la laicità. È cruciale sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale natura dell’Islam politico, nella sua versione feroce, ma anche in quella “moderata”, che cambia la narrazione sui diritti fondamentali della donna di volta in volta, a seconda della convenienza.
Cristina/Cisda. Diverse sono le argomentazioni anti-Convenzione avanzate dall’Islam politico, di cui Erdoğan è un esponente di punta, con alleati potenti come il Qatar e la Fratellanza musulmana: la “via moderata”, ormai ben radicata in tutta Europa, di cui parla “Qatar papers. Il libro nero dell’Islam” (Rizzoli, 2019) di Christian Chesnot e Georges Malbrunot. L’inchiesta documenta come l’Italia sia il Paese europeo che ha ricevuto il sostegno finanziario più consistente da parte del Qatar Charity, con il maggior numero di moschee, associazioni e centri islamici finanziati. In tutta Europa i finanziamenti hanno avuto come intermediari esponenti di punta della confraternita come lo sceicco egiziano Youssuf Al-Qaradawi, noto per le sue dichiarazioni omofobe, antisemite e misogine su Al Jazeera (compresa la legittimazione delle violenze del marito sulla moglie) e per aver messo a punto gli strumenti teorici destinati alla popolazione musulmana minoritaria nelle società laiche, secondo una visione totalizzante della religione.
Centri e associazioni di questa rete, promuovono un intenso attivismo dei loro componenti. Fondano associazioni, istituzioni culturali e scolastiche di ogni ordine e grado; operano intensamente sul piano interreligioso, diffondendo la visione di una donna di cui si promuovono castità e dedizione al compito educativo dei figli; organizzano giornate aperte delle moschee ed eventi per quella mondiale dell’hijab; formano giovani donne e uomini al matrimonio islamico basato sul rifiuto dell’endogamia; promuovono la mediazione delle controversie di coppia all’interno della comunità; utilizzano strategie definite di entrismo clientelare, sfruttando esigenze elettorali delle forze politiche (in particolare socialiste e democratiche), partendo dal livello amministrativo locale. Formano imam in centri dove si utilizzano testi in cui la sharia è legge civile e politica, e non solo un codice morale. Gli esponenti della “via moderata” corrono per aggiudicarsi un ruolo predominante nel percorso di riconoscimento governativo, nel contesto di una concorrenza intra-associativa elevata.
La classe politica italiana, che da Expo 2015 ha forti interessi in comune con il Qatar, li premia. Arrivano le intese e i patti con l’“Islam che prega”, che pur non amando la definizione, utilizza l’argomento della collaborazione per la sicurezza contro l’“Islam che spara”, per accreditarsi. Pazienza per la tenuta democratica (di cui i diritti umani sono il primo elemento), come abbiamo visto in un’altra recente inchiesta, questa volta giudiziaria (il cosiddetto Qatargate).
Tiziana/Trama di Terre. La narrativa anti-Convenzione politicamente e religiosamente argomentata, di cui Women against violence Europe mette in luce miti, interpretazioni distorte e rischi, prevede oltre al rifiuto del carattere vincolante della norma internazionale rispetto agli ordinamenti dei singoli Stati impegnati a permeare il discorso politico con quello religioso e nazionalista con conseguenze già evidenti sull’esigibilità dei diritti e delle tutele, anche una polemica pretestuosa sul “genere”. Si accusa la Convenzione di affermare i valori Lgbtq+: ma essa richiama il principio di non discriminazione sessuale che già ispira molti altri trattati e legislazioni nazionali.
Cristina/Cisda. Inoltre, la Convenzione di Istanbul non definisce un modello di famiglia e non promuove il divorzio, come sostiene chi l’accusa, ma protegge le vittime di violenza in qualsiasi contesto avvenga, a partire da quello domestico. È la violenza che distrugge le famiglie, non la Convenzione. Luciana Capretti in “La jihad delle donne” (Salerno editrice, 2017) riporta la traduzione del Corano realizzata da Hamza Roberto Piccardo, ufficialmente riconosciuta dall’Arabia Saudita: “Gli uomini sono preposti alle donne […] Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse”.
Piccardo, noto esponente dell’associazionismo islamico, precisa che questa forma di punizione maritale (percosse) è permessa dal Profeta in caso estremo, a condizione di risparmiare il volto e che i colpi vengano inferti con un fazzoletto o con il bastoncino che si usa per la pulizia dei denti. Forse è utile essere consapevoli che le migliori armi contro l’“Islam che spara” non possono essere delegate all’“Islam che prega”, come la difesa dei confini europei non dovrebbe servire a finanziare Erdoğan e a violare i diritti.
Pubblicato su Altraeconomia n. 259
Maria Cristina Rossi è un’attivista di CISDA
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