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Autore: Patrizia Fabbri

L’Afghanistan rimane un hub del terrorismo jihadista

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 18 giugno 2025.

Su una cosa Donald Trump e Joe Biden si sono trovati sempre d’accordo: grazie agli accordi di Doha e alla promessa dei Talebani, il terrorismo islamista, perlomeno quello che preoccupava gli USA, non avrebbe più albergato in Afghanistan. E, dato che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se poi qualche piccolo gruppo avesse continuato a dar fastidio a Cina e Russia, magari ci sarebbe potuto scappare anche un “aiutino”.

E pazienza se il ritorno dei Talebani avrebbe significato rigettare la popolazione afghana nell’incubo, se alle donne sarebbe stato tolto il futuro e per loro si sarebbero riaperte le porte dell’inferno, se i diritti umani sarebbero diventati carta straccia. Si, certo, negli Accordi c’erano dichiarazioni pompose sul rispetto delle donne e dei diritti umani, ma quello che realmente importava era che l’Afghanistan non rappresentasse più una minaccia per gli USA. Del resto, è per questo che il Paese ha subito un’occupazione durata 20 anni.

Oggi possiamo dire che questa si sta rivelando una grande illusione, anche se i Talebani continuano nella farsa: in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Doha lo scorso 28 febbraio, hanno dichiarato di aver adempiuto ai propri obblighi di impedire ai gruppi terroristici di operare in Afghanistan e pertanto di non sentirsi più vincolati dall’accordo.

Dichiarazione di fatto sconfessata dallo stesso Dipartimento di Stato USA, come si può appurare leggendo il Report del 30 aprile 2025 dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, ente indipendente del governo degli Stati Uniti, istituito per sorvegliare e verificare come vengono spesi i fondi statunitensi destinati alla ricostruzione dell’Afghanistan): “I gruppi terroristici hanno continuato a operare in Afghanistan e dall’Afghanistan, nonostante le persistenti preoccupazioni di Stati Uniti, Nazioni Unite e della regione circa il fatto che il Paese rimanga un rifugio per i terroristi, nonostante gli impegni assunti dai Talebani nell’Accordo di Doha del 2020… Il Dipartimento di Stato ha affermato nel suo rapporto annuale sul terrorismo, pubblicato nel dicembre 2024, che “gruppi terroristici come lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISIS-K) e il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) hanno continuato a trarre vantaggio dalle scarse condizioni socioeconomiche e dalle procedure di sicurezza irregolari [in Afghanistan] che rendono l’ambiente operativo più permissivo… Il Dipartimento di Stato ha inoltre dichiarato al SIGAR che ‘non è ancora chiaro se i Talebani abbiano la volontà e la capacità di eliminare completamente i rifugi sicuri per i terroristi’”.

E poi “lui”, il male assoluto per gli USA, al-Qaeda: “I talebani continuarono a fornire un ambiente permissivo ad al-Qaida in tutto l’Afghanistan. Il rapporto di febbraio del team [dell’ONU] riteneva che la strategia del leader di al-Qaida Sayf al-Adl di ‘riorganizzare la presenza di al-Qaida in Afghanistan e riattivare le cellule dormienti in Iraq, Libia, [Siria] e in Europa fosse indicativa dell’intenzione a lungo termine del gruppo di condurre operazioni esterne’”.

Nella valutazione annuale delle minacce del 2025, l’ODNI (Office of the Director of National Intelligence, ente federale degli Stati Uniti la cui missione è coordinare e supervisionare tutte le agenzie dell’intelligence statunitense) ha rilevato l’intenzione di al-Qaida di “prendere di mira gli Stati Uniti e i cittadini statunitensi attraverso i suoi affiliati globali”.

Non c’è che dire. Un bel risultato dopo 20 anni di occupazione e aver riconsegnato l’Afghanistan nelle mani dei Talebani. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le evidenze che dimostrano come l’Afghanistan stia diventando l’hub dei jihadisti.

Gli amici di al-Qaeda, protetti e coccolati

Il rapporto dei Talebani con al-Qaida si basa su un difficile equilibrismo tra il mantenimento di un rapporto storico con il gruppo terroristico ideologicamente più affine e il riconoscimento internazionale alla loro presunta lotta al terrorismo, primo passo per l’ingresso del cosiddetto Emirato Islamico dell’Afghanistan nella comunità internazionale.

Come è noto, lo stretto legame con al-Qaida del primo regime talebano (1996-2001) e il rifugio offerto al suo capo Osama bin Laden provocarono l’attacco USA all’Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati dal gruppo terroristico. Spostatosi in Pakistan dopo la caduta del regime, Osama bin Laden verrà ucciso il 6 maggio 2011 nel corso di un’operazione militare statunitense, ma cellule dell’organizzazione continueranno a essere presenti in Afghanistan.

All’inizio del 2021, le agenzie di intelligence statunitensi stimavano che al-Qaida fosse al minimo storico in Afghanistan contando meno di duecento membri. Ma un anno dopo, il numero totale di affiliati in Afghanistan era, secondo il Consiglio di sicurezza dell’ONU, raddoppiato, raggiungendo i quattrocento combattenti, con la maggior parte dei membri installati nelle province di Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika e Zabul. Fin dai primi mesi dopo l’agosto 2021, i principali leader del gruppo si sono trasferiti in Afghanistan, a cominciare dal successore di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, grazie ai saldi legami con i Talebani, in particolare con il potente “ministro” dell’interno Sirajuddin Haqqani. E sarà proprio in una casa di Haqqani che al-Zawahiri verrà ucciso da droni statunitensi nel luglio 2022.

Nel febbraio 2024, l’ONU segnala che al-Qaida gestisce campi di addestramento in 8 delle 34 province afghane (secondo alcune fonti oggi sono 10, di cui uno nel Panjshir, ex roccaforte del Fronte di Resistenza anti-talebano) e che il responsabile di questi campi si chiama Hakim al Masri. E il Rapporto ONU del febbraio 2025 afferma che “I Talebani mantengono un ambiente permissivo che ha consentito ad Al-Qaida di consolidarsi, grazie alla presenza di rifugi sicuri e campi di addestramento sparsi in tutto l’Afghanistan (vedi grafico).

Campi di addestramento di al-Qaida presenti in Afghanistan. Fonte: Long War Journal della Foundation for Defense of Democracies

I membri di basso profilo risiedono, con le loro famiglie, sotto la protezione dei servizi segreti talebani nei quartieri di Kabul (per esempio, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw e Wazir Akbar Khan), mentre i leader di alto livello sono dislocati in aree rurali fuori Kabul (come il remoto villaggio di Bulghuli nella provincia di Sar-e Pul), Kunar, Ghazni, Logar e Wardak. Alcuni Stati membri hanno segnalato che Hamza al Ghamdi, veterano dell’organizzazione, si trova nella zona di massima sicurezza di Shashdarak a Kabul con la sua famiglia. I Talebani hanno trasferito Abu Ikhlas Al-Masri (arrestato intorno al 2013 e liberato dopo il ritorno dei talebani) in un complesso altamente sicuro nel quartiere di Afshar a Kabul”.

Le relazioni tra i Talebani e gli esponenti di al-Qaida sono complesse e si articolano su più livelli anche perché, nell’arco di trent’anni di presenza in territorio afghano o nei campi profughi in Pakistan, tanti membri dell’organizzazione terroristica si sono sposati con donne di famiglie di Talebani o a loro vicine. Anche il rapporto “istituzionale” con l’organizzazione non è monolitico e varia a seconda del momento e dei singoli leader del gruppo terroristico, ma l’Afghanistan rimane un nodo strategico centrale per al-Qaeda. Come del resto dimostra il pamphlet pubblicato nel luglio 2024 su as-Sahab, il media di riferimento dell’organizzazione, attribuito a Sayf al-Adl, nome con il quale è conosciuto il cittadino egiziano Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane considerato il successore di al-Zawahiri, dove si legge: “Il popolo leale della Ummah [comunità islamica mondiale] interessato al cambiamento deve recarsi in Afghanistan, imparare dalle sue condizioni e trarre beneficio dalla sua esperienza [dei talebani]”. Al-Adl afferma poi che i musulmani dovrebbero considerare l’Emirato Islamico in Afghanistan come un eroe e un modello per costruire futuri stati islamici.

Affermazioni perfettamente in linea con quello che è sempre stato l’obiettivo principale di al-Qaeda: istituire un califfato panislamico e rovesciare i regimi corrotti “apostati” nel mondo islamico. Per farlo stringe alleanze con vari gruppi terroristici, come rileva anche il Report del SIGAR: “Al-Qaida ha continuato a espandere la sua portata al di fuori dell’Afghanistan rafforzando il coordinamento con Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), Movimento islamico del Turkestan orientale/Partito islamico del Turkestan (ETIM/TIP) e Jamaat Ansarullah”.

Il nemico numero 1: ISIS-K

Abbreviazione di Islamic State – Khorasan Province (Stato Islamico – Provincia del Khorasan), ISIS-K rappresenta uno dei gruppi jihadisti più pericolosi e complessi dell’Asia meridionale. Nato nel 2015, questo ramo regionale del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) si è rapidamente affermato come una minaccia significativa per la sicurezza non solo in Afghanistan e Pakistan, ma anche nell’intera regione dell’Asia Centrale. A capo dell’organizzazione c’è dal giugno 2020 Sanaullah Ghafari, afghano di etnia tagika noto anche con il nome di battaglia Shahab al-Muhajir, che ha trasformato l’ISIS-K in un’organizzazione con ambizioni globali. Il gruppo ha rivendicato attentati in diversi paesi, tra cui i più devastanti in Russia dove, nel marzo 2024, un attacco a una sala concerti vicino a Mosca ha causato almeno 137 morti, e in Iran dove, nel gennaio 2024, un doppio attentato suicida a Kerman ha ucciso quasi 100 persone durante una commemorazione per Qassem Soleimani.

La denominazione “Khorasan” fa riferimento a una storica regione dell’Asia centrale che include parti di Afghanistan, Iran, Pakistan e dei paesi limitrofi. Nel contesto jihadista, il nome ha un forte valore simbolico e apocalittico, legato alla convinzione che da quella terra nasceranno i combattenti dell’Islam negli ultimi tempi.

Fondato da ex militanti talebani pakistani (TTP), combattenti provenienti da al-Qaida e dissidenti talebani afghani che hanno scelto di aderire alla causa globale dello Stato Islamico, distinto dai tradizionali Talebani. Questa scissione ha segnato un punto di svolta nel panorama jihadista regionale, portando a una rivalità accesa e sanguinosa tra i due gruppi.

Come branca regionale dello Stato Islamico, ISIS-K mira a stabilire un califfato islamico rigoroso basato sulla sharia, estendendo la propria influenza su Afghanistan, Pakistan e oltre. A differenza dei Talebani, che hanno una visione più nazionale e tribale, ISIS-K si propone una jihad globale e più radicale, opponendosi anche ai Talebani che considerano “moderati” e insufficientemente rigorosi.

Dal 2015 ISIS-K ha condotto numerosi attacchi violenti e spettacolari, caratterizzati da un’elevata brutalità e un alto numero di vittime civili. Tra gli episodi più tragici, altre ai due già citati all’estero, spicca l’attentato suicida del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul, che causò oltre 180 morti, compresi tredici soldati statunitensi, durante l’evacuazione delle forze straniere e dei civili afghani. ISIS-K ha preso di mira in particolare le minoranze religiose sciite, come gli Hazara, organizzando attacchi contro moschee, scuole e mercati, oltre a operazioni contro i Talebani stessi.

La principale base di ISIS-K rimane l’Afghanistan orientale, soprattutto nelle province montuose di Nangarhar e Kunar, dove le forze talebane hanno difficoltà a controllare completamente il territorio. Oltre a Kabul, ISIS-K ha cercato di espandersi in altre province afghane e ha cellule operative in Pakistan, in particolare nelle regioni tribali di Waziristan e Belucistan. Il gruppo ha anche cercato di estendere la propria influenza in Asia Centrale, in paesi come Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sfruttando le frontiere porose e le fragilità politiche locali. E proprio questo “miscuglio” jihadista rappresenta un punto di forza di ISIS-K che, come spiega l’ONU, sta “astutamente utilizzando cittadini afghani per condurre attacchi in Pakistan, cittadini pakistani per condurre attacchi all’interno dell’Afghanistan, cittadini tagiki per condurre attacchi in Iran (Repubblica Islamica dell’Iran) e nella Federazione Russa e ha utilizzato un cittadino kirghiso per compiere un attacco nel cuore dei talebani, Kandahar”.

Lontani dall’aver “pacificato” il Paese, non solo i Talebani non sono in grado di proteggere i cittadini afghani dagli attentati terroristici dell’ISIS-K, ma il gruppo terroristico ha anche “beneficiato dell’incapacità dei talebani di proteggersi dall’infiltrazione e dalla corruzione tra i suoi stessi ranghi, nonostante i raid condotti per arrestare funzionari sleali”, come si legge nel Report ONU di febbraio 2025.

I fratelli pakistani del TTP

Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), conosciuto anche come i Talebani pakistani, è una coalizione jihadista sunnita nata nel 2007 con l’obiettivo dichiarato di rovesciare il governo del Pakistan e instaurare un emirato islamico basato sulla sharia. Nel tempo, il gruppo è diventato una delle principali minacce alla sicurezza del Pakistan, responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi della sua storia recente.

Fondato da Baitullah Mehsud, un influente comandante tribale della regione del Waziristan meridionale, insieme ad altri leader militanti attivi lungo la zona tribale al confine afghano-pakistano, TTP nasce in risposta alle operazioni militari lanciate dall’esercito pakistano contro gruppi affiliati ad al-Qaida  e ai talebani afghani, che godevano di rifugi sicuri nelle aree tribali.

Il movimento ha preso ispirazione ideologica dai Talebani afghani, ma è strutturalmente e operativamente indipendente da essi perseguendo specifici obiettivi: l’instaurazione della legge islamica in Pakistan; la fine della cooperazione del Pakistan con gli Stati Uniti e l’Occidente; la vendetta contro l’esercito pakistano per le sue operazioni nelle aree tribali e per il sostegno alla guerra statunitense contro il terrorismo.

Dalla sua fondazione, il TTP ha condotto centinaia di attentati, attacchi suicidi e imboscate contro obiettivi militari, governativi e civili attraversando diverse fasi di declino e rinascita. La morte di Baitullah Mehsud in un attacco drone USA nel 2009 fu seguita da lotte interne per la leadership; nel 2018, Mufti Noor Wali Mehsud è stato nominato nuovo leader. Sotto la sua guida, il gruppo ha cercato di riorganizzarsi, migliorare la comunicazione e sfruttare le divisioni settarie ed etniche del Paese. Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan ha offerto al TTP nuove opportunità logistiche e operative, rafforzando la sua presenza al confine.

Sebbene i talebani afghani abbiano negato formalmente di sostenere il TTP, è noto e riportato da diversi organismi internazionali che molti leader del TTP si rifugiano in Afghanistan e godono di protezione. Il Global Terrorism Index 2025 ha rilevato che gli attacchi del TTP sono aumentati di cinque volte dal ritorno al potere dei Talebani. Il Pakistan ha più volte chiesto a Kabul di estradare membri del gruppo, ma senza successo. Secondo il già citato Rapporto del SIGAR, nella seconda metà del 2024 si sarebbe verificata una maggiore collaborazione tra il TTP, i talebani afghani e al-Qaeda, con attacchi condotti sotto l’egida di Tehrik-e Jihad Pakistan, un’organizzazione ombrello. Infine, sempre secondo il SIGAR, il TTP ha istituito nuovi centri di addestramento nelle province afghane di Kunar, Nangarhar, Khost e Paktika, ha ampliato il reclutamento, includendo membri talebani afghani, e ha ricevuto sostegno finanziario dal regime talebano.

E, per concludere, il già citato ODNI, mette in guardia: “Le capacità del TTP, i legami storici con al-Qaida e il precedente supporto alle operazioni contro gli Stati Uniti ci preoccupano per la potenziale minaccia futura”.

Piccoli terroristi crescono

Se quelle descritte sono le organizzazioni principali che si stanno irrobustendo in Afghanistan, non sono le sole: “I gruppi terroristici hanno continuato a utilizzare il suolo afghano per addestrare e pianificare attacchi e un flusso “piccolo ma costante” di terroristi stranieri ha continuato a recarsi in Afghanistan e a unirsi a uno degli oltre due dozzine di gruppi terroristici lì basati”, si legge nel Rapporto ONU del febbraio 2025.

Diciamo che non c’è che l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, oltre agli Stati Uniti e l’Occidente in generale, neanche i paesi vicini possono dormire sonni tranquilli. Solo per citare alcuni gruppi: il Turkistan Islamic Party (TIP), è un gruppo uiguro, quindi particolarmente inviso alla Cina, con legami storici con i Talebani; Katibat Imam al-Bukhari e Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) sono gruppi uzbeki, legati a Talebani e al-Qaida ; per quanto riguarda il Pakistan non abbiamo solo il TTP, ma anche Lashkar-e-Taiba (LeT) e Jaish-e-Mohammed (JeM), anch’essi con legami storici con Talebani e al-Qaida .

C’è poi un ultimo, ma non secondario, elemento da considerare. In Afghanistan si sta smantellando il sistema scolastico e le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie. Il report pubblicato da UNAMA in aprile evidenzia come sia in atto la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Nel settembre 2024, il Ministero dell’Istruzione del governo di fatto ha annunciato un aumento dei centri di educazione islamica a 21.257, di cui 19.669 madrase, superando il numero totale di scuole pubbliche e private, pari a 18.337. Tutto ciò non può che portare a una radicalizzazione delle giovani generazioni con la crescita di nuovi militanti che potranno essere persino più pericolosi di quanto siano percepiti gli attuali Talebani.

Afghanistan remains a hub of jihadist terrorism

Donald Trump and Joe Biden have always agreed on one thing: thanks to the Doha Accords and the Taliban’s promise, Islamist terrorism, at least the kind that worried the US, would no longer be present in Afghanistan. And, since a leopard can’t change its spots, if some small group continued to bother China and Russia, maybe a little “help” could have slipped in.

And never mind if the return of the Taliban meant throwing the Afghan population back into the nightmare, if women would be robbed of their future and the gates of hell would reopen for them, if human rights would become waste paper. Yes, of course, the Accords contained pompous declarations about respect for women and human rights, but what really mattered was that Afghanistan no longer represented a threat to the US. After all, this is why the country has been under occupation for 20 years.

Today we can say that this is proving to be a great illusion, even if the Taliban continue the farce: on the occasion of the fifth anniversary of the Doha Agreement last February 28, they declared that they had fulfilled their obligations to prevent terrorist groups from operating in Afghanistan and therefore no longer felt bound by the agreement.

A statement that is in fact denied by the US State Department itself, as can be seen by reading the April 30, 2025 Report by SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, an independent body of the United States government, established to monitor and verify how US funds intended for the reconstruction of Afghanistan are spent): “Terrorist groups continued to operate in and from Afghanistan, despite persistent concerns by the United States, the United Nations, and the region that the country remains a haven for terrorists, despite the commitments made by the Taliban in the 2020 Doha Agreement… The State Department stated in its annual report on terrorism, published in December 2024, that “terrorist groups such as the Islamic State – Khorasan Province (ISIS-K) and the Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) continued to take advantage of poor socioeconomic conditions and irregular security procedures [in Afghanistan] that make the operating environment more difficult. permissive… The State Department also told SIGAR that ‘it is not yet clear whether the Taliban has the will and ability to completely eliminate safe havens for terrorists.’”

And then “him,” the ultimate evil for the US, al-Qaeda: “The Taliban continued to provide a permissive environment for al-Qaeda throughout Afghanistan. The [UN] team’s February report found that al-Qaeda leader Sayf al-Adl’s strategy of ‘reorganizing al-Qaeda’s presence in Afghanistan and reactivating sleeper cells in Iraq, Libya, [Syria] and Europe was indicative of the group’s long-term intention to conduct external operations.’”

In its 2025 annual threat assessment, the ODNI (Office of the Director of National Intelligence, a U.S. federal agency whose mission is to coordinate and oversee all U.S. intelligence agencies) noted al-Qaeda’s intention to “target the United States and U.S. citizens through its global affiliates.”

There’s no doubt about it. A great result after 20 years of occupation and having returned Afghanistan to the Taliban. But let’s look in detail at the evidence that shows how Afghanistan is becoming the hub of jihadists.

Friends of al-Qaeda, protected and pampered

The Taliban’s relationship with al-Qaeda is based on a difficult balancing act between maintaining a historic relationship with the ideologically closest terrorist group and international recognition of their alleged fight against terrorism, the first step towards the entry of the so-called Islamic Emirate of Afghanistan into the international community.

As is well known, the close ties with al-Qaeda of the first Taliban regime (1996-2001) and the refuge offered to its leader Osama bin Laden provoked the US attack on Afghanistan after the attacks of September 11, 2001, organized by the terrorist group. Having moved to Pakistan after the fall of the regime, Osama bin Laden was killed on May 6, 2011 during a US military operation, but cells of the organization will continue to be present in Afghanistan.

At the beginning of 2021, US intelligence agencies estimated that al-Qaeda was at an all-time low in Afghanistan, counting less than two hundred members. But a year later, the total number of affiliates in Afghanistan had, according to the UN Security Council, doubled, reaching four hundred fighters, with most of its members based in the provinces of Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika and Zabul. Since the first months after August 2021, the main leaders of the group have moved to Afghanistan, starting with bin Laden’s successor, Ayman al-Zawahiri, thanks to his strong ties with the Taliban, in particular with the powerful “minister” of the interior Sirajuddin Haqqani. And it will be in a house in Haqqani that al-Zawahiri will be killed by US drones in July 2022.

In February 2024, the UN reports that al-Qaeda runs training camps in 8 of the 34 Afghan provinces (according to some sources there are 10 today, including one in Panjshir, a former stronghold of the anti-Taliban Resistance Front) and that the person in charge of these camps is called Hakim al Masri. And the UN report of February 2025 states that “The Taliban maintain a permissive environment that has allowed al-Qaeda to consolidate, thanks to the presence of safe havens and training camps scattered throughout Afghanistan (see chart).

Al-Qaeda Training Camps in Afghanistan. Source: Long War Journal by the Foundation for Defense of Democracies

 

Low-profile members reside with their families under the protection of the Taliban intelligence services in Kabul neighborhoods (for example, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw and Wazir Akbar Khan), while high-level leaders are located in rural areas outside Kabul (such as the remote village of Bulghuli in Sar-e Pul province), Kunar, Ghazni, Logar and Wardak. Some Member States have reported that Hamza al Ghamdi, a veteran of the organization, is in the Shashdarak maximum security area in Kabul with his family. The Taliban have transferred Abu Ikhlas Al-Masri (arrested around 2013 and released after the return of the Taliban) in a highly secure complex in the Afshar neighborhood of Kabul”.

The relations between the Taliban and the members of al-Qaeda are complex and are articulated on several levels also because, over the thirty years of presence in Afghan territory or in refugee camps in Pakistan, many members of the terrorist organization have married women from Taliban families or close to them. Even the “institutional” relationship with the organization is not monolithic and varies depending on the moment and the individual leaders of the terrorist group, but Afghanistan remains a central strategic hub for al-Qaeda. As demonstrated by the pamphlet published in July 2024 on as-Sahab, the organization’s reference media, attributed to Sayf al-Adl, the name by which the Egyptian citizen Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane, considered al-Zawahiri’s successor, is known, where it states: “The loyal people of the Ummah [global Islamic community] interested in change must go to Afghanistan, learn from its conditions and benefit from its experience [of the Taliban]”. Al-Adl then states that Muslims should consider the Islamic Emirate in Afghanistan as a hero and a model for building future Islamic states.

Statements perfectly in line with what has always been al-Qaeda’s main objective: to establish a pan-Islamic caliphate and overthrow corrupt “apostate” regimes in the Islamic world. To do so, it forms alliances with various terrorist groups, as the SIGAR Report also notes: “Al-Qaeda has continued to expand its reach outside of Afghanistan by strengthening coordination with Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), East Turkestan Islamic Movement/Turkestan Islamic Party (ETIM/TIP), and Jamaat Ansarullah.”

Enemy number 1: ISIS-K

Short for Islamic State – Khorasan Province, ISIS-K is one of the most dangerous and complex jihadist groups in South Asia. Born in 2015, this regional branch of the so-called Islamic State (ISIS) has quickly established itself as a significant security threat not only in Afghanistan and Pakistan, but also in the entire Central Asia region. Since June 2020, the organization has been led by Sanaullah Ghafari, an Afghan of Tajik ethnicity also known by the nom de guerre Shahab al-Muhajir, who has transformed ISIS-K into an organization with global ambitions. The group has claimed attacks in several countries, including the most devastating in Russia where, in March 2024, an attack on a concert hall near Moscow caused at least 137 deaths, and in Iran where, in January 2024, a double suicide bombing in Kerman killed almost 100 people during a commemoration for Qassem Soleimani.

The name “Khorasan” refers to a historical region of Central Asia that includes parts of Afghanistan, Iran, Pakistan and neighboring countries. In the jihadist context, the name has a strong symbolic and apocalyptic value, linked to the belief that from that land the fighters of Islam will be born in the end times.

Founded by former Pakistani Taliban (TTP) militants, al-Qaeda fighters and Afghan Taliban dissidents who have chosen to join the global cause of the Islamic State, distinct from the traditional Taliban. This split marked a turning point in the regional jihadist landscape, leading to a heated and bloody rivalry between the two groups.

As a regional branch of the Islamic State, ISIS-K aims to establish a strict Islamic caliphate based on Sharia law, extending its influence to Afghanistan, Pakistan and beyond. Unlike the Taliban, who have a more national and tribal vision, ISIS-K aims for a global and more radical jihad, also opposing the Taliban who they consider “moderate” and insufficiently rigorous.

Since 2015, ISIS-K has conducted numerous violent and spectacular attacks, characterized by high brutality and a high number of civilian casualties. Among the most tragic episodes, in addition to the two already mentioned abroad, stands out the suicide attack of August 26, 2021 at Kabul airport, which caused over 180 deaths, including thirteen US soldiers, during the evacuation of foreign forces and Afghan civilians. ISIS-K has particularly targeted Shiite religious minorities, such as the Hazara, organizing attacks against mosques, schools and markets, as well as operations against the Taliban themselves.

The main base of ISIS-K remains eastern Afghanistan, especially in the mountainous provinces of Nangarhar and Kunar, where Taliban forces have difficulty fully controlling the territory. In addition to Kabul, ISIS-K has tried to expand into other Afghan provinces and has operational cells in Pakistan, particularly in the tribal regions of Waziristan and Baluchistan. The group has also sought to extend its influence in Central Asia, in countries such as Tajikistan, Uzbekistan and Turkmenistan, exploiting porous borders and local political fragilities. And it is precisely this jihadist “mixture” that represents a strong point of ISIS-K which, as the UN explains, is “cunningly using Afghan nationals to conduct attacks in Pakistan, Pakistani nationals to conduct attacks inside Afghanistan, Tajik nationals to conduct attacks in Iran (Islamic Republic of Iran) and the Russian Federation and has used a Kyrgyz national to carry out an attack in the heart of the Taliban, Kandahar”. Far from having “pacified” the country, not only are the Taliban unable to protect Afghan citizens from ISIS-K terrorist attacks, but the terrorist group has also “benefited from the Taliban’s inability to protect itself from infiltration and corruption within its own ranks, despite raids to arrest disloyal officials,” according to the UN Report of February 2025.

The Pakistani Brothers of the TTP

Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), also known as the Pakistani Taliban, is a Sunni jihadist coalition formed in 2007 with the stated goal of overthrowing the government of Pakistan and establishing an Islamic emirate based on Sharia law. Over time, the group has become a major threat to Pakistan’s security, responsible for some of the bloodiest attacks in its recent history.

Founded by Baitullah Mehsud, an influential tribal commander in the South Waziristan region, along with other militant leaders active along the tribal area on the Afghan-Pakistan border, TTP was born in response to military operations launched by the Pakistani army against groups affiliated with al-Qaeda and the Afghan Taliban, who enjoyed safe havens in the tribal areas.

The movement took ideological inspiration from the Afghan Taliban, but is structurally and operationally independent from them, pursuing specific objectives: the establishment of Islamic law in Pakistan; the end of Pakistan’s cooperation with the United States and the West; revenge against the Pakistani army for its operations in the tribal areas and for supporting the US war on terror.

Since its founding, the TTP has conducted hundreds of bombings, suicide attacks and ambushes against military, government and civilian targets, going through various phases of decline and resurgence. The death of Baitullah Mehsud in a US drone strike in 2009 was followed by internal leadership struggles; in 2018, Mufti Noor Wali Mehsud was appointed as the new leader. Under his leadership, the group has sought to reorganize, improve communication, and exploit sectarian and ethnic divisions in the country. The return of the Taliban to power in Afghanistan has provided the TTP with new logistical and operational opportunities, strengthening its presence on the border.

Although the Afghan Taliban have formally denied supporting the TTP, it is known and reported by several international bodies that many TTP leaders are taking refuge in Afghanistan and are being protected. The Global Terrorism Index 2025 found that TTP attacks have increased five-fold since the Taliban’s return to power. Pakistan has repeatedly asked Kabul to extradite members of the group, but without success. According to the aforementioned SIGAR Report, in the second half of 2024 there would have been increased collaboration between the TTP, the Afghan Taliban and al-Qaeda, with attacks conducted under the auspices of Tehrik-e Jihad Pakistan, an umbrella organization. Finally, according to SIGAR, the TTP has established new training centers in the Afghan provinces of Kunar, Nangarhar, Khost and Paktika, has expanded recruitment to include Afghan Taliban members, and has received financial support from the Taliban regime.

Finally, the aforementioned ODNI warns: “The TTP’s capabilities, historical ties to al-Qaeda and previous support for operations against the United States raise concerns about the potential future threat.”

Small Terrorists Grow

If those described are the main organizations that are growing stronger in Afghanistan, they are not the only ones: “Terrorist groups continued to use Afghan soil to train and plan attacks and a “small but steady” flow of foreign terrorists continued to travel to Afghanistan and join one of the more than two dozen terrorist groups based there”, reads the UN Report of February 2025.

Let’s just say that there is an embarrassment of choice and, above all, in addition to the United States and the West in general, even neighboring countries cannot sleep soundly. Just to name a few groups: the Turkistan Islamic Party (TIP), is a Uyghur group, therefore particularly disliked by China, with historical ties to the Taliban; Katibat Imam al-Bukhari and Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) are Uzbek groups, linked to the Taliban and al-Qaeda; as for Pakistan, we do not only have the TTP, but also Lashkar-e-Taiba (LeT) and Jaish-e-Mohammed (JeM), which also have historical ties to the Taliban and al-Qaeda.

There is one last, but not secondary, element to consider. In Afghanistan, the school system is being dismantled and religious subjects in a fundamentalist key are largely replacing other subjects. The report published by UNAMA in April highlights how the transformation of the country’s public education system into a religious model based on madrasas is underway. In September 2024, the de facto government’s Ministry of Education announced an increase in Islamic education centers to 21,257, of which 19,669 are madrasas, exceeding the total number of public and private schools, equal to 18,337. All this can only lead to a radicalization of the younger generations with the growth of new militants who may be even more dangerous than the current Taliban are perceived.

Clinica mobile nelle aree rurali

Le severe limitazioni imposte dai talebani, che vietano alle donne di viaggiare a più di 77 km da casa senza un tutore maschio, hanno fatto sì che molte donne dei distretti più remoti siano state scoraggiate dal cercare assistenza per i loro problemi di salute. Molte hanno manifestato sintomi significativi di disturbi da stress post-traumatico, depressione e ansia. Quasi la metà delle donne visitate riferiva ai medici della morte di uno o più membri della famiglia uccisi in guerra. Anche le condizioni economiche di estrema povertà di queste persone sono state riconosciute come uno dei principali motivi della richiesta di assistenza in questa provincia.

In seguito alle pesanti minacce dei talebani ai medici e personale sanitario della clinica “Hamoon Health Center”, di Farah, l’associazione afghana che lo gestiva ha deciso di chiuderla e di sostituirla con una clinica mobile e un team di medici che può raggiungere la popolazione dei villaggi più sperduti.

Le caratteristiche del progetto

Questo nuovo progetto propone un team mobile che andrà nelle aree rurali del Paese e fornirà servizi medici di base alle persone, con particolare attenzione ai bambini con malnutrizione e alle donne incinte.

L’équipe sanitaria mobile visiterà anche le aree colpite dai disastri naturali.

Con l’improvviso cambio di governo, la già instabile situazione finanziaria della popolazione è ulteriormente peggiorata. Attualmente le persone non hanno accesso a una corretta alimentazione, all’istruzione e ai farmaci.

Il progetto mira a fornire assistenza medica di emergenza a persone bisognose in varie province dell’Afghanistan, con particolare attenzione alle donne e ai bambini che non possono ottenere assistenza medica nelle loro zone di abitazione. Inoltre, in casi particolari le donne saranno trasferite, a spese del progetto, dalle aree remote del paese a Kabul per essere visitate da medici o ricoverate in ospedale.

Complessivamente, il progetto sosterrà almeno 20.000 persone nella Provincia di Farah. Il team di progetto creerà un piano e selezionerà le aree più bisognose della provincia, poi l’unità mobile visiterà l’area individuata con le attrezzature necessarie e fornirà i servizi medici alle persone.

Infine, l’Unità sanitaria si avvarrà del personale necessario:

  • un manager per supervisionare e gestire le attività del progetto e fornire rapporti al donatore
  • due medici, un uomo e una donna, per interagire facilmente con pazienti sia donne che uomini. Verrà assunta una ginecologa per prestare un’attenzione particolare alle donne incinte o con problemi ginecologici
  • un infermiere, per assistere i medici, dare istruzioni di base ai pazienti mentre i medici li visiteranno, fare iniezioni, assistere i bambini malnutriti
  • un farmacista, che aiuterà a somministrare le medicine ai pazienti prestando maggiore attenzione a spiegare l’uso del farmaco poiché la maggior parte dei pazienti è analfabeta
  • tre membri di personale di supporto – un impiegato, un addetto alla logistica e una guardia per supportare l’equipe durante le visite nei villaggi.

Passo dopo passo nel silenzio dolente. Report dalla clinica mobile Hamoon

Nella terza settimana di maggio 2025, il team sanitario mobile di Hamoon ha intrapreso un viaggio che non solo ha attraversato la geografia, ma ha anche toccato i confini del dolore, dell’abbandono e del bisogno.

Un viaggio di oltre sei ore: da Kabul a Jalalabad e poi nel cuore del distretto di Dara-eNoor, verso un villaggio chiamato Janshegal; un luogo lontano e dimenticato, incastonato tra le aspre montagne della provincia di Nangarhar. Questo tortuoso sentiero montano che attraversa il pericoloso passo di Mahipar testimoniava a ogni curva anni di negligenza governativa; una distanza che sulla mappa potrebbe essere solo di pochi chilometri, ma in realtà è un muro tra le persone indigenti e povere e i servizi essenziali di base di cui non hanno mai beneficiato. Il villaggio di Janshegal, come un’isola isolata tra i meandri della montagna, privo di strade ben servite e veicoli adeguati, rimane privo delle più elementari strutture sanitarie, educative e di sostentamento.

Non c’è né una clinica né una scuola. Nessuna istituzione governativa o non governativa ascolta il grido silenzioso di queste persone. Il centro sanitario di base più vicino si trova a 5 chilometri di distanza, ma non è né adeguatamente funzionante né facilmente accessibile per la gente del posto. Donne e bambini di questo villaggio sono privati ​​dei loro diritti umani più elementari, come l’accesso all’assistenza sanitaria, un’alimentazione adeguata e acqua a sufficienza, per non parlare dell’educazione alla dignità umana. Gli uomini sono per lo più migranti che lavorano a giornata o disoccupati nel villaggio.

La vita ricade pesantemente sulle spalle delle donne che, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche, portano il peso con la schiena curva e il cuore saldo: dalla cura dei bambini e degli anziani della famiglia alla cucina, alla raccolta della legna da ardere, al trasporto dell’acqua e ad altre faccende quotidiane, oltre al duro lavoro nei campi e nell’agricoltura. Nella zona che abbiamo visitato, tutto parlava di lontananza e isolamento, ma una volta messo piede lì, ci siamo resi conto che l’isolamento non era solo geografico; era come se queste persone fossero state cancellate anche dalla memoria del mondo. Gli abitanti erano montanari, le cui case semplici e primitive erano costruite con le proprie mani, utilizzando pietra e legno raccolti dalle montagne e dalle foreste circostanti.

La deforestazione incontrollata e il contrabbando di legname in Pakistan non rappresentano solo un problema ambientale, ma anche una sofferenza per la popolazione locale, contro la quale il governo non ha fatto alcuno sforzo per intervenire. In questa zona, la pianura è considerata un tesoro e, oltre alla coltivazione, gli abitanti del villaggio la usano per raduni e varie cerimonie. Erano le 10 del mattino e il calore del sole gravava pesantemente sul pendio della montagna. Abbiamo visto gruppi di donne tornare dai campi: falci in mano, piedi impolverati, schiene curve sotto il peso della tristezza e di un dolore silenzioso. I loro sguardi mescolavano la stanchezza a una domanda silenziosa: “Siete venuti per restare?”. Non vedevano un medico da molto tempo, non avevano accesso alle medicine e nessuno a cui chiedere aiuto.

Si installa la clinica mobile

Quando il nostro team è arrivato a Janshegal, la prima sfida è stata trovare un’area pianeggiante dove allestire la tenda medica. Ovunque guardassimo, vedevamo case di pietra o ripidi pendii che rendevano difficile stare in piedi per qualche minuto. Dopo esserci consultati con gli anziani del villaggio, abbiamo deciso di esplorare diversi punti per trovare un posto adatto alla postazione della squadra; un luogo dove donne malate e bambini deboli potessero aspettare senza timore di cadere o di prendere un’insolazione.

Ne abbiamo valutate tre: uno vicino alle case, ma stretto e scivoloso; un altro con più alberi, ma più ripido e pericoloso; e il terzo, che alla fine abbiamo scelto, era una parte della montagna naturalmente terrazzata. Da un lato si affacciava sulla valle, e dall’altro si appoggiava alla montagna; gli altri due lati erano circondati da alberi ad alto fusto che fornivano un’ombra limitata ma rilassante.

Mentre scaricavamo l’attrezzatura e montavamo la tenda, la preoccupazione si è insinuata nei nostri cuori: questo caldo di mezzogiorno, questo sole cocente orientale, avrebbe potuto mettere a dura prova i corpi fragili di bambini e donne incinte e causare nuove malattie. Soprattutto nelle regioni montuose, la luce del sole è più diretta e l’aria più pesante. Eravamo preoccupati, così abbiamo cercato di creare ombra e di installare alcuni angoli al riposo. Ma ciò che ci ha insegnato una grande lezione è stata la reazione della gente del posto. Calmi e sorridenti, hanno ascoltato le nostre preoccupazioni, e un uomo anziano con voce stanca ma decisa ha detto: “Non abbiamo problemi con il caldo; dalla mattina alla sera, ogni giorno, lavoriamo sotto questo sole. Questo caldo è parte della nostra vita, non una minaccia”.

I pazienti aspettano fiduciosi

Le donne con il viso bruciato dal sole, le mani callose e il corpo stanco si sono sedute una alla volta. I bambini erano in braccio alle madri o giocavano tra i cespugli. Alcuni occhi erano pieni di paura e alienazione, altri ci guardavano con curiosità. Alcune donne all’inizio non hanno osato avvicinarsi ai medici. A causa della minaccia di un’improvvisa presenza della polizia religiosa (Amr bil Maroof), abbiamo preparato due tavoli separati per i medici uomini e donne. Nei primi momenti, la gente si è radunata da ogni parte; alcuni con i bambini in braccio, altri sostenevano i genitori anziani. Volti bruciati dal sole, ma ancora luminosi di speranza. In quei momenti, la nostra presenza non era solo una visita medica per loro, ma una finestra su un mondo dove forse qualcuno sente ancora, vede e porge una mano.

La prima paziente è stata Bibi, una donna di mezza età con pressione bassa e gravi sintomi di affaticamento, portata dal marito nella nostra tenda. Quando l’abbiamo visitata, ha mormorato di non aver preso medicine da anni e, nonostante la grave debolezza, saliva ancora ogni giorno in montagna per raccogliere i prodotti agricoli. Ha detto di avere sei figli e che suo marito è disoccupato. Era il simbolo di una donna divisa tra un corpo stanco e la maternità a tempo pieno, ma non ancora sconfitta. Le abbiamo prescritto sieri e farmaci e le abbiamo dato consigli nutrizionali che lei stessa sapeva essere impossibili da seguire perché diceva: “Non abbiamo sempre nemmeno il pane secco”.

Un altro uomo anziano di nome Kaka, con le mani tremanti e gli occhi pieni di dolore, è stato aiutato a farsi strada tra la folla. Al suo arrivo, aveva le lacrime agli occhi. Ci ha raccontato dei suoi due figli piccoli, che avevano prestato servizio nell’esercito governativo durante la repubblica e che erano stati uccisi, e di un terzo figlio, scomparso durante la migrazione. Aveva la pressione alta e i sintomi di una profonda depressione erano evidenti nel suo comportamento. Quando gli abbiamo prescritto delle medicine, disse con voce roca: “Le medicine potrebbero abbassarmi la pressione, ma che ne sarà di questo cuore…?”.

Una bambina di nome Maryam è entrata con uno shock nervoso e forti palpitazioni con segni di ansia cronica e disturbi psicologici. Le abbiamo parlato con gentilezza, le abbiamo somministrato i farmaci necessari e consigliato alla famiglia di offrirle un ambiente tranquillo. Il momento in cui un piccolo sorriso è apparso sulle sue labbra è stato forse una delle ricompense più silenziose e profonde del nostro viaggio.

In un altro angolo, un bambino si era nascosto dietro la tenda. Quando ci ci siamo avvicinati, abbiamo visto che aveva paura degli abiti bianchi e degli strumenti medici. Lo abbiamo calmato dolcemente con carezze e sorrisi. La paura del bambino è stato per noi un amaro promemoria: bambini che crescono non con ricordi di gioco e gioia, ma con ricordi di dolore, isolamento, abbandono e povertà.

Una giovane donna si è presentata dal medico e, dopo averle prescritto dei farmaci, il medico le ha prescritto di attaccarle immediatamente una flebo alla mano. La vista del poco sangue l’ha fatta svenire. L’équipe sanitaria si è radunata intorno a lei e il medico ha riesaminato attentamente le sue condizioni, scoprendo che, a causa di problemi ginecologici durante la gravidanza, soffriva di anemia, emorragie e grave debolezza fisica. A causa dell’affollamento, abbiamo chiesto che venisse riportata a casa per proteggerla dalla polvere e dal caldo. L’anziana madre l’ha portata in spalla e si è spostata rapidamente dalla cima della montagna alla mezza montagna dove si trovava la sua casa. Vedere questa scena è stato sorprendente ed emozionante per il nostro team, insieme alla sensazione che queste donne, a causa della mancanza di strutture, siano diventate così tenaci e laboriose. La dottoressa ha sistemato la paziente nella stanza e le ha avviato la flebo. Un’infermiera è rimasta con lei mentre la dottoressa tornava al punto di ritrovo dei pazienti. Al termine delle operazioni, abbiamo visitato di nuovo la donna e, constatando che si sentiva meglio, ci hanno offerto dell’acqua di sorgente fresca in segno di gratitudine.

Quel giorno, oltre 200 persone del posto sono state visitate e curate. Tra le malattie più comuni c’erano problemi digestivi, infezioni cutanee, anemia, disturbi ormonali, pressione sanguigna, mal di testa cronici, malattie respiratorie e dolori muscolari e scheletrici. Abbiamo prescritto farmaci a tutti i pazienti, distribuito i medicinali necessari e fornito anche consigli su igiene personale, alimentazione e cura dei bambini.

Il momento di lasciare il villaggio

Alla fine della giornata, quando il sole è scomparso dietro le montagne e il canto degli uccelli si sentiva in lontananza, gli abitanti del villaggio ci hanno salutato. Alcuni con le lacrime, altri con un sorriso, altri solo con uno sguardo. In quegli sguardi, c’era qualcosa che ci è rimasto impresso: un desiderio di ritorno, la speranza che noi tornassimo e una gratitudine inesprimibile a parole.

Sebbene la nostra missione sia stata breve, quel giorno rimase impresso nei cuori e nelle menti di tutti i membri del team. Ci siamo resi conto che l’assistenza sanitaria non consiste semplicemente nel curare un paziente: è la garanzia per il paziente di essere ascoltato, visto e non dimenticato. Con il cuore colmo di esperienza e consapevolezza, e con la certezza che la nostra presenza, con il vostro aiuto, sia una luce nell’oscurità, siamo tornati a casa.

Questo viaggio non sarebbe stato possibile senza il sostegno finanziario e umano di CISDA. Mentre ce ne andavamo, lo stesso anziano che ci aveva avvicinato per primo ci ha detto: “La montagna è sempre qui; se tornerete, i nostri cuori saranno più caldi di questo sole“.

Scuole in Afghanistan

Nell’Aprile 2022 i Talebani hanno vietato l’accesso ai corsi della scuola secondaria alle ragazze nella quasi totalità dei distretti. Queste restrizioni escludono milioni di ragazze dall’istruzione secondaria.

Le nostre associazioni cercano di far fronte a questa situazione e la raccolta fondi è destinata a questo scopo.

Per ovvii motivi di sicurezza non possiamo essere molto precise su questa attività, ma cerchiamo comunque di raccontare alcune delle attività svolte.

Storie di vita quotidiana nel Centro Educativo sostenuto da CISDA

La regione nella quale si trova il Centro educativo sostenuto da CISDA si trova in una regione montuosa, caratterizzata da un territorio aspro, valli fertili e altitudini elevate. Il clima è generalmente freddo, soprattutto in inverno, con frequenti nevicate. Le estati sono miti, il che la rende una piacevole meta di fuga durante i mesi più caldi in altre parti del paese.

Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 ha cambiato drasticamente la vita in tutto l’Afghanistan e anche quest’area ha dovuto affrontare sfide particolari.

Come in molte parti dell’Afghanistan, alle ragazze oltre la sesta elementare è vietato frequentare la scuola. Si tratta di una grave battuta d’arresto, l’area vantava uno dei tassi di alfabetizzazione e frequenza scolastica femminile più alti prima del ritorno dei talebani.

L’Università rimane aperta agli uomini, ma alle donne è stato vietato l’accesso all’istruzione superiore a livello nazionale alla fine del 2022, stroncando i sogni di molte giovani donne della provincia. Molti insegnanti ed educatori, soprattutto donne, sono stati rimossi dai loro incarichi o costretti a smettere di lavorare.

 

Il Centro educativo sostenuto da CISDA

Il Centro Educativo sostenuto da CISDA è diventato molto apprezzato dalla comunità locale grazie ai suoi insegnanti dedicati ed esperti, nonché all’offerta di servizi gratuiti.

In passato, si sono tenuti diversi incontri per celebrare diverse ricorrenze e gli studenti hanno partecipato attivamente all’organizzazione e alla realizzazione di questi eventi. Questi incontri hanno avuto un impatto significativo. Tuttavia, purtroppo, a causa delle rigide politiche del regime talebano negli ultimi tempi, il numero degli eventi è stato ridotto.

Vengono organizzate riunioni settimanali con il personale per migliorare il lavoro quotidiano al centro cercando di parlare dei progressi di ogni singolo bambino. Una volta al mese si tiene una riunione con i genitori in cui si discutono problemi e progressi dei bambini e delle bambine che frequentano i corsi; il riscontro dei genitori è molto positivo.

Un giorno alla settimana viene organizzata la visione di film, la lettura di poesie e presentazione di famosi poeti persiani, la lettura e discussione di articoli su importanti argomenti sociali, culturali e storici.

Il controllo dei Talebani sul Centro

Quest’anno, il Dipartimento dell’Istruzione della zona ha convocato più volte i funzionari di diversi centri educativi, imponendo loro norme molto severe; di conseguenza, molti centri educativi sono stati costretti a chiudere. Una volta alla settimana, inviano una notifica scritta o una delegazione va a valutare il centro; queste interruzioni complicano la gestione del Centro.

Il 12 settembre 2024, il Capo del Dipartimento dell’Istruzione dell’area ha riunito tutti i funzionari delle scuole private e dei centri educativi per una riunione. La riunione ha affrontato diversi punti:

  1. Tutte le scuole private non sono più autorizzate a offrire corsi, in particolare corsi di alfabetizzazione.
  2. Tutti i centri e le scuole private devono avere classi separate, anche dalla terza elementare in su.
  3. Un insegnante del genere appropriato deve essere assunto per ogni classe.
  4. Le scuole e i centri privati ​​devono informare il Ministero dell’Istruzione in merito al loro processo di assunzione, in particolare le scuole private, in modo che i registri di insegnamento degli insegnanti siano conservati.
  5. Un insegnante pubblico non può insegnare in una scuola privata.
  6. Le insegnanti donne dovrebbero avere la priorità nelle assunzioni e i loro stipendi dovrebbero essere aumentati.
  7. Gli insegnanti non dovrebbero essere licenziati arbitrariamente o senza un valido motivo, in particolare le insegnanti donne.
  8. Le studentesse devono indossare l’hijab riconosciuto. In caso di reclami o di disonore a una ragazza, il Dipartimento provvederà personalmente alla chiusura della scuola/centro educativo e ad intraprendere azioni legali.
  9. I centri educativi possono operare solo nell’ambito delle loro licenze. Ad esempio, se un centro è autorizzato a offrire corsi di lingua, non può offrire corsi in scienze o oratoria.
  10. Nessuna scuola o centro privato è autorizzato a offrire corsi di alfabetizzazione.
  11. Le scuole private non sono autorizzate ad ammettere studenti di età superiore alla settima elementare.
  12. Le scuole private non devono suonare o cantare l’inno nazionale durante il programma mattutino; al suo posto, dovrebbe essere eseguita una recita di versetti religiosi.

“Nonostante tutte queste restrizioni, stiamo facendo ogni sforzo per garantire che il nostro centro progredisca bene e che possiamo continuare ad aiutare le persone povere e bisognose di questa zona”, ci dicono gli organizzatori.

Alcune storie degli studenti del Centro

 

Le storie che ci mandano dal Centro sono racconti di dolore, sofferenza e povertà e dove il Centro Educativo rappresenta un piccolo spiraglio di speranza.

G. è uno degli studenti più laboriosi del Centro Educativo, proviene da una famiglia povera e vulnerabile, è orfano di padre e ora vive con la madre malata e quattro fratelli. G. trascorre il tempo a prendersi cura della madre malata e a svolgere le faccende domestiche. Dice: “Non abbiamo una sorella, quindi tutte le responsabilità ricadono su di me”. Quattro anni fa, G. ha dovuto abbandonare la scuola a causa di difficoltà economiche e problemi familiari. Tuttavia, quest’anno, incoraggiato dal direttore del Centro, è tornato a scuola e attualmente sta proseguendo gli studi dalla quarta elementare; anche il fratello minore studia in una scuola costruita da donatori stranieri per orfani. La famiglia vive in condizioni estremamente difficili: ci sono state molte notti e giorni in cui hanno sofferto la fame e sono sopravvissuti solo con patate e acqua bollita. Nonostante la loro resilienza, G. è ora profondamente preoccupato per la salute della madre e di uno dei fratelli e ha disperatamente bisogno di aiuto per portarli in ospedale e farli curare.

F. è una ragazza di 19 anni che ha perso entrambi i genitori diversi anni fa e vive con la famiglia di uno dei fratelli. Condivide la sua storia di vita con un dolore silenzioso e una profonda resilienza: “Siamo quattro sorelle e due fratelli. La mia sorella maggiore è disabile, fino a qualche anno fa era registrata presso il Ministero per i Martiri e i Disabili e riceveva un certo sostegno. Tuttavia, quando l’Emirato Islamico è salito al potere, questo sostegno è stato completamente interrotto. Uno dei miei fratelli ci ha abbandonati dopo la morte dei nostri genitori e da allora non è più tornato”. Ora, F. e le sue sorelle vivono con il fratello minore, R., che è l’unico che cerca di sostenerle: lavora come bracciante giornaliero; ogni mattina si reca al mercato sperando di trovare lavoro e spesso torna a casa a mani vuote. Nonostante la sua giovane età, R. porta sulle spalle l’intero peso della famiglia. F. aggiunge con dolore: “A volte la pressione della povertà e della disoccupazione diventa così opprimente che mio fratello scappa di casa per un po’, solo per sfuggire al dolore”. La famiglia di F. è intrappolata in un ciclo di povertà e vulnerabilità, senza un reddito fisso o un sostegno esterno. La loro storia è un grido d’aiuto, una richiesta di compassione, opportunità e la possibilità di vivere con dignità.

All’inizio della scorsa estate, la madre di K., uno degli studenti del Centro Educativo, si è recata personalmente al centro con una richiesta umile. Ha condiviso la dolorosa storia della sua famiglia e ha chiesto sostegno affinché suo figlio potesse continuare gli studi. Ha detto: “Il padre di K. soffre di una malattia grave e incurabile. Mio figlio ama profondamente studiare presso il vostro centro ed è molto desideroso di continuare. Chiedo sinceramente il vostro aiuto affinché non debba abbandonare gli studi”. Ha poi aggiunto: “Ho due figlie. Prima della malattia del padre, anche loro frequentavano le lezioni presso il centro. Ma dopo che si è ammalato, non ho più potuto permettermi di mandarle. Avevamo una casa, ma sono stata costretta a venderla per coprire le spese mediche di mio marito. I miei figli sono ancora molto piccoli. Il più grande è K., che ha 14 anni e attualmente frequenta la prima media in una scuola pubblica. Sono profondamente preoccupata per i miei figli: potrebbero soffrire la fame o essere privati ​​del loro futuro”.

O., una bambina di 12 anni e una delle studentesse del Centro Educativo, racconta la sua storia: “Vivo in una famiglia di otto persone. Mio padre è l’unico a portare a casa il pane. Tutti noi dipendiamo dal reddito di nostro padre. Mia madre è analfabeta e nessuno di noi è in grado di lavorare per sostenere la famiglia. Continua: “Mio padre riesce a malapena a guadagnare più di 100 afghani al giorno. Se facciamo colazione, non abbiamo cibo per cena. Prima che i talebani prendessero il potere, almeno potevamo avere pane, tè e a volte patate. Ma dal loro arrivo, ci è stato portato via tutto. Siamo vivi, ma non possiamo andare a scuola e non riusciamo nemmeno a trovare lavoro. Frequento il corso da oltre un anno, studio inglese e continuo la mia formazione. Voglio ringraziare lo staff di questo corso per averci dato un senso di speranza.”

H., una delle studentesse del Centro, una volta andò con sua madre a trovare il direttore del centro: “Prima ancora che la madre potesse iniziare a parlare, un nodo le si formò in gola. Le lacrime le salirono agli occhi. Il dolore della povertà era chiaramente visibile sui volti della madre e della figlia”, racconta la nostra referente del Centro. Dopo un lungo, doloroso silenzio, la madre di H. finalmente parlò: “Egregio Signore, ho quattro figli. Due di loro frequentano il vostro centro, gli altri due sono ancora molto piccoli e restano a casa. Ma il loro padre, a causa dell’estrema povertà e della disoccupazione di lunga durata, è diventato tossicodipendente. Sono passati quasi nove mesi, quasi un anno da quando è scomparso. Non sappiamo dove sia. Sono rimasta sola con questi piccoli.” Con voce tremante continuò: “Negli ultimi due mesi, io, i miei figli abbiamo digiunato durante il Ramadan. Siamo andati porta a porta, raccogliendo zakat e fitr. Siamo riusciti a radunare 3.000 afghani, che usavamo solo per sopravvivere. Ma ora non ci è rimasto niente”.

V., una studentessa del Centro Educativo, racconta con coraggio le difficoltà che lei e la sua famiglia hanno dovuto affrontare: “Eravamo molto piccoli quando mio padre, che aveva prestato servizio come soldato semplice nel precedente governo, fu ucciso dai talebani. Mia madre si assunse il peso di crescerci”. Continua con voce sofferente: “Abbiamo affrontato innumerevoli difficoltà. I ​​miei zii ci hanno costretti a lasciare la nostra casa. Ora mia madre soffre di danni ai nervi e di ipertensione a causa dello stress e del trauma che ha subito. Esce e chiede l’elemosina alla gente solo per portare qualcosa a casa. Io aiuto a gestire le nostre piccole spese come posso. Attualmente sto imparando l’inglese in questo corso e sono molto grata per tutto il supporto che mi avete fornito. In passato, non potevamo andare da nessuna parte per mancanza di soldi. Ma quest’anno siamo migliorati tantissimo.”

B. è una delle studentesse più motivate del Centro Educativo. Condivide le dolorose realtà della sua vita con silenziosa forza: “Sono la figlia maggiore in famiglia. Siamo in otto, cinque sorelle e un fratello. Ero in terza media quando i talebani arrivarono e chiusero le porte della scuola alle ragazze. Mio padre era un semplice bracciante durante il periodo della Repubblica: andava in piazza ogni giorno, trovando qualsiasi lavoro possibile solo per portare a casa un po’ di cibo per noi. Ma negli ultimi due anni non c’è stato lavoro. Mio padre è stato costretto ad andare a lavorare nelle miniere di carbone. Ha lavorato lì per sei mesi, ma poi si è infortunato e tutti i soldi che aveva guadagnato sono stati utilizzati per le sue cure. Per fortuna, con l’aiuto di Dio, ora è di nuovo in piedi, ma non può ancora lavorare. Ora io e mia madre andiamo al mercato a comprare vestiti, che cuciamo di giorno e fino a tarda notte, giusto per guadagnare qualcosa e mettere da mangiare in tavola. Prima possedevamo una piccola casa, ma l’abbiamo venduta per pagare le cure di mio padre. Ora viviamo in una stanza in affitto e da tre mesi non riusciamo a pagare l’affitto. Il padrone di casa viene ogni giorno minacciando di sfrattarci. B. conclude con un appello silenzioso: “Siamo persi. Non sappiamo più cosa fare. Che Dio abbia pietà di noi.”

L. racconta la sua storia con silenziosa resilienza: “Siamo una famiglia di dieci persone. Mio padre è diventato vecchio e debole, non può più lavorare. La maggior parte dei membri della nostra famiglia sono donne e non abbiamo una fonte di reddito stabile.” Continua: “Durante il precedente governo, mio ​​padre lavorava come custode presso un ente pubblico, ma quando il governo è cambiato, i talebani lo hanno licenziato. Da allora, è disoccupato e ogni mattina va in piazza sperando di trovare lavoro, ma torna a mani vuote, portando con sé solo tristezza e stanchezza. Giorno dopo giorno, il dolore e la pressione della vita sono diventati così pesanti che hanno iniziato a incidere sulla sua salute mentale. Mio padre ora non sta bene psicologicamente”.

P., una ragazza cresciuta in mezzo alle difficoltà, racconta la sua storia: “Ero solo una bambina, molto piccola quando ho perso mia madre. Dopo la sua morte, Mio padre mi lasciò con mia nonna e se ne andò, sposò un’altra donna e non tornò mai più. Io e mia nonna andammo a vivere a casa di mio zio e da quel giorno in poi la vita divenne piena di dolore e difficoltà. Ogni giorno uscivo con mia nonna, lavando i panni o lavorando come donna delle pulizie nelle case della gente per sopravvivere. Ma ora mia nonna è invecchiata e malata. Non può più lavorare. Le sue gambe le fanno costantemente male ed è cagionevole di salute. Siamo lasciati soli con infinite difficoltà. Anche trovare abbastanza da mangiare è una sfida quotidiana. Al momento, siamo registrati solo presso l’ufficio dell’Ayatollah Sistani. Ogni tre mesi ci danno un sacco di farina, una bottiglia da cinque litri di olio da cucina e un po’ di sale e zucchero. Questo è tutto l’aiuto che riceviamo. Andavo a scuola. Mi piaceva molto. Ma ho dovuto lasciare. Non potevo continuare. Speravo che un giorno avrei potuto terminare la mia formazione e magari trovare un lavoro. Cercherò di sfruttare ogni opportunità per imparare in questo centro e raggiungere i miei obiettivi”.

 

Per motivi di sicurezza sono stati tolti dal resoconto tutti gli elementi che potrebbero contribuire a identificarlo, ma ci sembra importante rendere note le attività del Centro e le difficoltà che i suoi studenti e insegnanti devono quotidianamente affrontare.