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Autore: Patrizia Fabbri

Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza

Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana.

Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino.

Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro paese va avanti, faticosamente e lentamente certo, ma senza sosta.

Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia.

Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”.

Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”.

Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche.

Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro.

Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal paese.

Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriate e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan.

Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola.

In occasione dei Giochi olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan.

Secondo Rezayee permettere al suo paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team).

La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.

Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico.

Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah.

Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato.

Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali, dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile.

Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo.

Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran

È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.

Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.

La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.

Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.

Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.

L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.

Belquis Roshan. “Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani”

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 9 luglio 2023

In Afghanistan non poteva più restare, Belquis Roshan, ex senatrice del Parlamento afghano (componente dal 2011 della Camera Alta, Meshrano Jirga, e dal 2019 della Camera Bassa, Wolesi Jirga). È dovuta scappare per non essere uccisa. Ma il senso di sconfitta è più forte del sollievo per lo scampato pericolo.

“Ogni momento, da quando sono uscita dall’Afghanistan, è stato difficile. Ho cercato di fare del mio meglio per migliorare il mio Paese ma siamo stati traditi e abbiamo fallito. Sono stata costretta ad andarmene da sola, tutta la mia famiglia è rimasta lì”.

Roshan era molto conosciuta, dalla sua posizione in Parlamento aveva sempre denunciato crimini, corruzione e tradimenti, si era sempre battuta per i diritti delle donne e contro tutti i fondamentalisti islamici che lo infestavano. I nemici non le mancavano. L’abbiamo incontrata a Roma, dove ha parlato alla conferenza stampa alla Camera dei deputati, promossa dal Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) per presentare i risultati della petizione “Stop Fondamentalismi – stop Apartheid di genere”.

Belquis Roshan, non è la prima volta che lascia il suo Paese, giusto?
BR Questa è la terza fuga. Ero scappata con la mia famiglia ai tempi dell’invasione russa e del primo governo talebano ma non immaginavo di ripercorrere di nuovo questa strada. Per tutto il primo anno, dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul, ho sperato di poter restare. Ma poi nel 2022 alcuni politici afghani dell’ex governo sono stati picchiati, torturati, trascinati per strada e uccisi. Dopo questo episodio i miei compagni hanno fatto molta pressione perché partissi. Mi dicevano: “Se tu rimani, ti arrestano e noi restiamo senza speranza. Sarebbe una vergogna per tutto il movimento di resistenza perché non siamo riusciti a proteggerti. All’estero potresti avere la possibilità di aiutarci da fuori”.

È stato difficile arrivare in Europa?
BR Sì, difficile e pericoloso. Pochi mesi prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul, il governo ci aveva obbligato a prendere un passaporto diplomatico. Con quel tipo di documento non potevo passare la frontiera, il rischio di essere riconosciuta era alto. Una persona ha portato il mio passaporto in Pakistan e io sono andata a piedi, clandestinamente, attraverso le montagne, con altre persone sconosciute. Un viaggio difficilissimo che molti afghani sono costretti a fare.

Come si sente adesso nella sua vita in Germania?
BR Ho una grande responsabilità, quella di denunciare quello che sta succedendo nel mio Paese, come vivono le persone, le donne soprattutto, e la condizione dei rifugiati in Iran e Pakistan. Ogni volta mi chiedo che colpe hanno gli afghani per dover vivere una simile tragedia da così tanto tempo.

In Afghanistan era molto popolare, aveva tanti sostenitori che credevano in lei. Ha ancora contatti con loro?
BR Sì, li sento regolarmente e mi raccontano un situazione disperata, senza soldi, senza lavoro, molti sono fuggiti in Pakistan e in Iran. L’oppressione e la violenza sono molto forti e la gente non ce la fa più. Ti faccio un esempio. Un amico che era capo di una guarnigione dell’esercito a Farah è stato barbaramente ucciso mentre tornava a casa dopo che l’esercito era stata sciolto. I Talebani hanno chiesto alla famiglia di venire a riprendersi il cadavere ma hanno rifiutato, volevano solo la loro vendetta. Volevano uccidere gli assassini. Ogni famiglia ha un lutto, un massacro, una violenza talebana da vendicare. La vendetta cova e potrebbe esplodere con molta violenza. Il mese scorso i Talebani hanno ucciso 300 ragazzi, così, tutti insieme. Non si può sopportare tutto questo. Ci sarà per forza una rivolta.

È possibile che questa rabbia diventi un giorno una resistenza organizzata?
BR Non posso sapere quando ma sono sicura che prima o poi ci sarà una rivoluzione popolare contro questo governo. Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani.

Quali sono gli ostacoli?
BR Prima di tutto manca una leadership. Nessuno si fida di nessuno, hanno tutti paura uno dell’altro. La gente è spaventata, chiusa, sospettosa. Molte delle persone che si vogliono presentare come leader non sono affidabili. Però piano piano stanno emergendo dei giovani militari e attivisti che cercano di organizzare questa opposizione. Ci vorrà molto tempo, ma sappiamo che ogni famiglia in Afghanistan ha un’arma con cui combattere e tante vendette da consumare. Se una rivolta parte poi tutti si uniranno.

Qualche rivolta spontanea c’è stata in questi anni.
BR Sì, in quasi tutte le province afghane la popolazione si è ribellata, gente comune, gente del mercato, disoccupati, ma sono stati sconfitti. I Talebani hanno arrestato e ucciso tantissime persone, a Badakhshan, Kandahar, Jalalabad. Queste rivolte non hanno leadership e sono molto deboli, sono state spazzate via con facilità dai Talebani. In Panshir, ad esempio, la rivolta militare è fallita. La loro guida, Ahmad Massud, era già all’estero mentre i giovani venivano massacrati. E adesso quella provincia è invasa da 30mila soldati Talebani e ogni giorno ci sono persone che perdono la vita. Sono molto controllati, non possono nemmeno usare un telefono.

E le rivolte delle donne?
BR Le donne sono state coraggiose ma sono state sconfitte perché erano male organizzate. Hanno commesso un errore strategico fondamentale. Si sono riunite e si sono subito espresse apertamente e per i Talebani è stato facile ritrovarle nelle loro case, arrestarle, torturarle e ucciderle. Anche i membri delle loro famiglie vengono perseguitati, ancora adesso.

Che cosa avrebbero dovuto fare?
BR Avrebbero dovuto lavorare a lungo in clandestinità per organizzare una rivolta più grande, più profonda e più unita. Così avrebbero potuto sopravvivere e avere maggiore successo.

Quindi un lungo lavoro clandestino, è questo che, secondo lei, potrebbe funzionare?
BR Sì, non bisogna avere fretta. La resistenza deve essere clandestina e diffusa, non concentrata in un solo luogo, sarebbe troppo fragile. Restare nell’ombra, finché non si sia abbastanza forti da avere speranze di vittoria.

Esiste un consenso ai Talebani nel Paese, ad esempio tra la popolazione pashtun?
BR I Talebani della base sono stufi di questo malgoverno. Stanno facendo un gran lavoro di lavaggio del cervello, costruendo migliaia di madrase (istituti d’istruzione media e superiore per le scienze giuridico-religiose musulmane, ndr) per indottrinare la popolazione, per aumentare il loro consenso, ma non ce la fanno. La rigidità delle loro regole è respinta da tutti. Ovunque c’è una quotidiana disobbedienza civile, come quando ai matrimoni suonano e cantano lo stesso, nonostante i divieti. Addirittura all’interno dei Talebani alcune regole estreme sono rifiutate. Penso che proprio tra i pashtun i Talebani abbiano i loro più forti oppositori. L’ideologia estrema talebana non fa parte della nostra cultura. Gli afghani non sono mai stati religiosi radicali, poi, quando il regime comunista è caduto, l’Onu non si è opposto ai mujaheddin e ha lasciato che prendessero il potere con la loro ideologia estremista. È stato un grave errore non intervenire, non hanno evitato tutte le tragedie che da questo errore sono scaturite. Tragedie che hanno colpito soprattutto le donne. C’è stata tanta violenza contro le donne anche nel periodo passato però almeno si potevano denunciare questi casi, c’erano delle leggi a cui appoggiarsi, adesso ogni crimine è permesso, l’impunità è totale. Ascolto tutti i giorni storie orribili, anche nei racconti della mia famiglia.

Il governo talebano potrebbe sopravvivere senza il sostegno economico degli Stati Uniti?
BR 
I Talebani si sono appropriati delle miniere e delle altre risorse del Paese ma posso dire con sicurezza che, senza questi soldi, non potrebbero sopravvivere nemmeno sei mesi. Ne hanno bisogno per far funzionare la macchina governativa.

Se questo sostegno dovesse finire, potrebbe essere un vantaggio per far crollare il regime?
BR Non credo. Se i Talebani dovessero restare senza fondi, scoppierebbe una guerra civile, anche tra loro, perché le tensioni interne sono molto alte e, per le risorse, si scatenerebbero sicuramente lotte feroci. Sarebbe un periodo di guerre senza controllo, nessuno gestirebbe più il Paese, tutto sarebbe allo sbando. E questo non conviene nemmeno agli Stati Uniti.

Gli Stati Uniti potrebbero fare pressioni politiche sul governo talebano?
BR Certo. Gli Stati Uniti stanno giocando contro gli interessi della popolazione afghana. Hanno sempre fatto quello che volevano, consegnare il Paese ai Talebani, mettere due presidenti, gestire i governi fantoccio. Attraverso il ricatto economico potrebbero facilmente mettere pressione sul governo talebano e ottenere quello che vogliono, perfino organizzare delle elezioni, qualsiasi cosa. Ma non lo fanno.

Perché?
BR Non hanno nessun interesse per il miglioramento della situazione della popolazione afghana, l’importante è avere il controllo del Paese, per contrastare meglio la Cina e l’Iran. E per questo serve un Paese fragile, completamente dipendente. Se gli afghani fossero più forti non sarebbero più manipolabili.

C’è ancora una presenza militare statunitense sul territorio afghano?
BR Sul terreno sono molto attivi i servizi segreti non tanto i militari. Ma i Talebani sono in contatto con i soldati americani per addestramento e sostegno militare. Ora sembra che vogliano riprendersi la base di Bagram. Il cielo dell’Afghanistan è sempre nelle loro mani.

Che cosa le manca di più del suo Paese?
BR Le persone, la gente. La libertà di movimento che avevo. Qui sono costretta a stare sempre nello stesso posto, devo chiedere il permesso per viaggiare, per muovermi, sono sempre controllata. Con tutte le difficoltà, in Afghanistan non mi sentivo mai depressa o triste.

C’è ancora speranza in Afghanistan?
BR La guerra da noi dura da 50 anni. Anche adesso è una guerra, alle donne, alla vita, alla libertà, alla gioia, alla sopravvivenza. Ma nonostante tutto, la popolazione afghana continua a essere piena di vita e di speranze per il futuro. Quando parlo con i miei parenti mi dicono sempre: “Non ti preoccupare, tornerai presto. I Talebani rimangono ancora due anni e poi se ne vanno”. Sono loro a dare coraggio a me. Anche quando sento i miei amici, che erano soldati dell’esercito, mi dicono: “Noi ti stiamo aspettando, sappiamo che tornerai e siamo pronti a lavorare ancora con te”.

L’Afghanistan rimane un hub del terrorismo jihadista

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 18 giugno 2025.

Su una cosa Donald Trump e Joe Biden si sono trovati sempre d’accordo: grazie agli accordi di Doha e alla promessa dei Talebani, il terrorismo islamista, perlomeno quello che preoccupava gli USA, non avrebbe più albergato in Afghanistan. E, dato che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se poi qualche piccolo gruppo avesse continuato a dar fastidio a Cina e Russia, magari ci sarebbe potuto scappare anche un “aiutino”.

E pazienza se il ritorno dei Talebani avrebbe significato rigettare la popolazione afghana nell’incubo, se alle donne sarebbe stato tolto il futuro e per loro si sarebbero riaperte le porte dell’inferno, se i diritti umani sarebbero diventati carta straccia. Si, certo, negli Accordi c’erano dichiarazioni pompose sul rispetto delle donne e dei diritti umani, ma quello che realmente importava era che l’Afghanistan non rappresentasse più una minaccia per gli USA. Del resto, è per questo che il Paese ha subito un’occupazione durata 20 anni.

Oggi possiamo dire che questa si sta rivelando una grande illusione, anche se i Talebani continuano nella farsa: in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Doha lo scorso 28 febbraio, hanno dichiarato di aver adempiuto ai propri obblighi di impedire ai gruppi terroristici di operare in Afghanistan e pertanto di non sentirsi più vincolati dall’accordo.

Dichiarazione di fatto sconfessata dallo stesso Dipartimento di Stato USA, come si può appurare leggendo il Report del 30 aprile 2025 dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, ente indipendente del governo degli Stati Uniti, istituito per sorvegliare e verificare come vengono spesi i fondi statunitensi destinati alla ricostruzione dell’Afghanistan): “I gruppi terroristici hanno continuato a operare in Afghanistan e dall’Afghanistan, nonostante le persistenti preoccupazioni di Stati Uniti, Nazioni Unite e della regione circa il fatto che il Paese rimanga un rifugio per i terroristi, nonostante gli impegni assunti dai Talebani nell’Accordo di Doha del 2020… Il Dipartimento di Stato ha affermato nel suo rapporto annuale sul terrorismo, pubblicato nel dicembre 2024, che “gruppi terroristici come lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISIS-K) e il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) hanno continuato a trarre vantaggio dalle scarse condizioni socioeconomiche e dalle procedure di sicurezza irregolari [in Afghanistan] che rendono l’ambiente operativo più permissivo… Il Dipartimento di Stato ha inoltre dichiarato al SIGAR che ‘non è ancora chiaro se i Talebani abbiano la volontà e la capacità di eliminare completamente i rifugi sicuri per i terroristi’”.

E poi “lui”, il male assoluto per gli USA, al-Qaeda: “I talebani continuarono a fornire un ambiente permissivo ad al-Qaida in tutto l’Afghanistan. Il rapporto di febbraio del team [dell’ONU] riteneva che la strategia del leader di al-Qaida Sayf al-Adl di ‘riorganizzare la presenza di al-Qaida in Afghanistan e riattivare le cellule dormienti in Iraq, Libia, [Siria] e in Europa fosse indicativa dell’intenzione a lungo termine del gruppo di condurre operazioni esterne’”.

Nella valutazione annuale delle minacce del 2025, l’ODNI (Office of the Director of National Intelligence, ente federale degli Stati Uniti la cui missione è coordinare e supervisionare tutte le agenzie dell’intelligence statunitense) ha rilevato l’intenzione di al-Qaida di “prendere di mira gli Stati Uniti e i cittadini statunitensi attraverso i suoi affiliati globali”.

Non c’è che dire. Un bel risultato dopo 20 anni di occupazione e aver riconsegnato l’Afghanistan nelle mani dei Talebani. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le evidenze che dimostrano come l’Afghanistan stia diventando l’hub dei jihadisti.

Gli amici di al-Qaeda, protetti e coccolati

Il rapporto dei Talebani con al-Qaida si basa su un difficile equilibrismo tra il mantenimento di un rapporto storico con il gruppo terroristico ideologicamente più affine e il riconoscimento internazionale alla loro presunta lotta al terrorismo, primo passo per l’ingresso del cosiddetto Emirato Islamico dell’Afghanistan nella comunità internazionale.

Come è noto, lo stretto legame con al-Qaida del primo regime talebano (1996-2001) e il rifugio offerto al suo capo Osama bin Laden provocarono l’attacco USA all’Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati dal gruppo terroristico. Spostatosi in Pakistan dopo la caduta del regime, Osama bin Laden verrà ucciso il 6 maggio 2011 nel corso di un’operazione militare statunitense, ma cellule dell’organizzazione continueranno a essere presenti in Afghanistan.

All’inizio del 2021, le agenzie di intelligence statunitensi stimavano che al-Qaida fosse al minimo storico in Afghanistan contando meno di duecento membri. Ma un anno dopo, il numero totale di affiliati in Afghanistan era, secondo il Consiglio di sicurezza dell’ONU, raddoppiato, raggiungendo i quattrocento combattenti, con la maggior parte dei membri installati nelle province di Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika e Zabul. Fin dai primi mesi dopo l’agosto 2021, i principali leader del gruppo si sono trasferiti in Afghanistan, a cominciare dal successore di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, grazie ai saldi legami con i Talebani, in particolare con il potente “ministro” dell’interno Sirajuddin Haqqani. E sarà proprio in una casa di Haqqani che al-Zawahiri verrà ucciso da droni statunitensi nel luglio 2022.

Nel febbraio 2024, l’ONU segnala che al-Qaida gestisce campi di addestramento in 8 delle 34 province afghane (secondo alcune fonti oggi sono 10, di cui uno nel Panjshir, ex roccaforte del Fronte di Resistenza anti-talebano) e che il responsabile di questi campi si chiama Hakim al Masri. E il Rapporto ONU del febbraio 2025 afferma che “I Talebani mantengono un ambiente permissivo che ha consentito ad Al-Qaida di consolidarsi, grazie alla presenza di rifugi sicuri e campi di addestramento sparsi in tutto l’Afghanistan (vedi grafico).

Campi di addestramento di al-Qaida presenti in Afghanistan. Fonte: Long War Journal della Foundation for Defense of Democracies

I membri di basso profilo risiedono, con le loro famiglie, sotto la protezione dei servizi segreti talebani nei quartieri di Kabul (per esempio, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw e Wazir Akbar Khan), mentre i leader di alto livello sono dislocati in aree rurali fuori Kabul (come il remoto villaggio di Bulghuli nella provincia di Sar-e Pul), Kunar, Ghazni, Logar e Wardak. Alcuni Stati membri hanno segnalato che Hamza al Ghamdi, veterano dell’organizzazione, si trova nella zona di massima sicurezza di Shashdarak a Kabul con la sua famiglia. I Talebani hanno trasferito Abu Ikhlas Al-Masri (arrestato intorno al 2013 e liberato dopo il ritorno dei talebani) in un complesso altamente sicuro nel quartiere di Afshar a Kabul”.

Le relazioni tra i Talebani e gli esponenti di al-Qaida sono complesse e si articolano su più livelli anche perché, nell’arco di trent’anni di presenza in territorio afghano o nei campi profughi in Pakistan, tanti membri dell’organizzazione terroristica si sono sposati con donne di famiglie di Talebani o a loro vicine. Anche il rapporto “istituzionale” con l’organizzazione non è monolitico e varia a seconda del momento e dei singoli leader del gruppo terroristico, ma l’Afghanistan rimane un nodo strategico centrale per al-Qaeda. Come del resto dimostra il pamphlet pubblicato nel luglio 2024 su as-Sahab, il media di riferimento dell’organizzazione, attribuito a Sayf al-Adl, nome con il quale è conosciuto il cittadino egiziano Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane considerato il successore di al-Zawahiri, dove si legge: “Il popolo leale della Ummah [comunità islamica mondiale] interessato al cambiamento deve recarsi in Afghanistan, imparare dalle sue condizioni e trarre beneficio dalla sua esperienza [dei talebani]”. Al-Adl afferma poi che i musulmani dovrebbero considerare l’Emirato Islamico in Afghanistan come un eroe e un modello per costruire futuri stati islamici.

Affermazioni perfettamente in linea con quello che è sempre stato l’obiettivo principale di al-Qaeda: istituire un califfato panislamico e rovesciare i regimi corrotti “apostati” nel mondo islamico. Per farlo stringe alleanze con vari gruppi terroristici, come rileva anche il Report del SIGAR: “Al-Qaida ha continuato a espandere la sua portata al di fuori dell’Afghanistan rafforzando il coordinamento con Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), Movimento islamico del Turkestan orientale/Partito islamico del Turkestan (ETIM/TIP) e Jamaat Ansarullah”.

Il nemico numero 1: ISIS-K

Abbreviazione di Islamic State – Khorasan Province (Stato Islamico – Provincia del Khorasan), ISIS-K rappresenta uno dei gruppi jihadisti più pericolosi e complessi dell’Asia meridionale. Nato nel 2015, questo ramo regionale del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) si è rapidamente affermato come una minaccia significativa per la sicurezza non solo in Afghanistan e Pakistan, ma anche nell’intera regione dell’Asia Centrale. A capo dell’organizzazione c’è dal giugno 2020 Sanaullah Ghafari, afghano di etnia tagika noto anche con il nome di battaglia Shahab al-Muhajir, che ha trasformato l’ISIS-K in un’organizzazione con ambizioni globali. Il gruppo ha rivendicato attentati in diversi paesi, tra cui i più devastanti in Russia dove, nel marzo 2024, un attacco a una sala concerti vicino a Mosca ha causato almeno 137 morti, e in Iran dove, nel gennaio 2024, un doppio attentato suicida a Kerman ha ucciso quasi 100 persone durante una commemorazione per Qassem Soleimani.

La denominazione “Khorasan” fa riferimento a una storica regione dell’Asia centrale che include parti di Afghanistan, Iran, Pakistan e dei paesi limitrofi. Nel contesto jihadista, il nome ha un forte valore simbolico e apocalittico, legato alla convinzione che da quella terra nasceranno i combattenti dell’Islam negli ultimi tempi.

Fondato da ex militanti talebani pakistani (TTP), combattenti provenienti da al-Qaida e dissidenti talebani afghani che hanno scelto di aderire alla causa globale dello Stato Islamico, distinto dai tradizionali Talebani. Questa scissione ha segnato un punto di svolta nel panorama jihadista regionale, portando a una rivalità accesa e sanguinosa tra i due gruppi.

Come branca regionale dello Stato Islamico, ISIS-K mira a stabilire un califfato islamico rigoroso basato sulla sharia, estendendo la propria influenza su Afghanistan, Pakistan e oltre. A differenza dei Talebani, che hanno una visione più nazionale e tribale, ISIS-K si propone una jihad globale e più radicale, opponendosi anche ai Talebani che considerano “moderati” e insufficientemente rigorosi.

Dal 2015 ISIS-K ha condotto numerosi attacchi violenti e spettacolari, caratterizzati da un’elevata brutalità e un alto numero di vittime civili. Tra gli episodi più tragici, altre ai due già citati all’estero, spicca l’attentato suicida del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul, che causò oltre 180 morti, compresi tredici soldati statunitensi, durante l’evacuazione delle forze straniere e dei civili afghani. ISIS-K ha preso di mira in particolare le minoranze religiose sciite, come gli Hazara, organizzando attacchi contro moschee, scuole e mercati, oltre a operazioni contro i Talebani stessi.

La principale base di ISIS-K rimane l’Afghanistan orientale, soprattutto nelle province montuose di Nangarhar e Kunar, dove le forze talebane hanno difficoltà a controllare completamente il territorio. Oltre a Kabul, ISIS-K ha cercato di espandersi in altre province afghane e ha cellule operative in Pakistan, in particolare nelle regioni tribali di Waziristan e Belucistan. Il gruppo ha anche cercato di estendere la propria influenza in Asia Centrale, in paesi come Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sfruttando le frontiere porose e le fragilità politiche locali. E proprio questo “miscuglio” jihadista rappresenta un punto di forza di ISIS-K che, come spiega l’ONU, sta “astutamente utilizzando cittadini afghani per condurre attacchi in Pakistan, cittadini pakistani per condurre attacchi all’interno dell’Afghanistan, cittadini tagiki per condurre attacchi in Iran (Repubblica Islamica dell’Iran) e nella Federazione Russa e ha utilizzato un cittadino kirghiso per compiere un attacco nel cuore dei talebani, Kandahar”.

Lontani dall’aver “pacificato” il Paese, non solo i Talebani non sono in grado di proteggere i cittadini afghani dagli attentati terroristici dell’ISIS-K, ma il gruppo terroristico ha anche “beneficiato dell’incapacità dei talebani di proteggersi dall’infiltrazione e dalla corruzione tra i suoi stessi ranghi, nonostante i raid condotti per arrestare funzionari sleali”, come si legge nel Report ONU di febbraio 2025.

I fratelli pakistani del TTP

Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), conosciuto anche come i Talebani pakistani, è una coalizione jihadista sunnita nata nel 2007 con l’obiettivo dichiarato di rovesciare il governo del Pakistan e instaurare un emirato islamico basato sulla sharia. Nel tempo, il gruppo è diventato una delle principali minacce alla sicurezza del Pakistan, responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi della sua storia recente.

Fondato da Baitullah Mehsud, un influente comandante tribale della regione del Waziristan meridionale, insieme ad altri leader militanti attivi lungo la zona tribale al confine afghano-pakistano, TTP nasce in risposta alle operazioni militari lanciate dall’esercito pakistano contro gruppi affiliati ad al-Qaida  e ai talebani afghani, che godevano di rifugi sicuri nelle aree tribali.

Il movimento ha preso ispirazione ideologica dai Talebani afghani, ma è strutturalmente e operativamente indipendente da essi perseguendo specifici obiettivi: l’instaurazione della legge islamica in Pakistan; la fine della cooperazione del Pakistan con gli Stati Uniti e l’Occidente; la vendetta contro l’esercito pakistano per le sue operazioni nelle aree tribali e per il sostegno alla guerra statunitense contro il terrorismo.

Dalla sua fondazione, il TTP ha condotto centinaia di attentati, attacchi suicidi e imboscate contro obiettivi militari, governativi e civili attraversando diverse fasi di declino e rinascita. La morte di Baitullah Mehsud in un attacco drone USA nel 2009 fu seguita da lotte interne per la leadership; nel 2018, Mufti Noor Wali Mehsud è stato nominato nuovo leader. Sotto la sua guida, il gruppo ha cercato di riorganizzarsi, migliorare la comunicazione e sfruttare le divisioni settarie ed etniche del Paese. Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan ha offerto al TTP nuove opportunità logistiche e operative, rafforzando la sua presenza al confine.

Sebbene i talebani afghani abbiano negato formalmente di sostenere il TTP, è noto e riportato da diversi organismi internazionali che molti leader del TTP si rifugiano in Afghanistan e godono di protezione. Il Global Terrorism Index 2025 ha rilevato che gli attacchi del TTP sono aumentati di cinque volte dal ritorno al potere dei Talebani. Il Pakistan ha più volte chiesto a Kabul di estradare membri del gruppo, ma senza successo. Secondo il già citato Rapporto del SIGAR, nella seconda metà del 2024 si sarebbe verificata una maggiore collaborazione tra il TTP, i talebani afghani e al-Qaeda, con attacchi condotti sotto l’egida di Tehrik-e Jihad Pakistan, un’organizzazione ombrello. Infine, sempre secondo il SIGAR, il TTP ha istituito nuovi centri di addestramento nelle province afghane di Kunar, Nangarhar, Khost e Paktika, ha ampliato il reclutamento, includendo membri talebani afghani, e ha ricevuto sostegno finanziario dal regime talebano.

E, per concludere, il già citato ODNI, mette in guardia: “Le capacità del TTP, i legami storici con al-Qaida e il precedente supporto alle operazioni contro gli Stati Uniti ci preoccupano per la potenziale minaccia futura”.

Piccoli terroristi crescono

Se quelle descritte sono le organizzazioni principali che si stanno irrobustendo in Afghanistan, non sono le sole: “I gruppi terroristici hanno continuato a utilizzare il suolo afghano per addestrare e pianificare attacchi e un flusso “piccolo ma costante” di terroristi stranieri ha continuato a recarsi in Afghanistan e a unirsi a uno degli oltre due dozzine di gruppi terroristici lì basati”, si legge nel Rapporto ONU del febbraio 2025.

Diciamo che non c’è che l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, oltre agli Stati Uniti e l’Occidente in generale, neanche i paesi vicini possono dormire sonni tranquilli. Solo per citare alcuni gruppi: il Turkistan Islamic Party (TIP), è un gruppo uiguro, quindi particolarmente inviso alla Cina, con legami storici con i Talebani; Katibat Imam al-Bukhari e Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) sono gruppi uzbeki, legati a Talebani e al-Qaida ; per quanto riguarda il Pakistan non abbiamo solo il TTP, ma anche Lashkar-e-Taiba (LeT) e Jaish-e-Mohammed (JeM), anch’essi con legami storici con Talebani e al-Qaida .

C’è poi un ultimo, ma non secondario, elemento da considerare. In Afghanistan si sta smantellando il sistema scolastico e le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie. Il report pubblicato da UNAMA in aprile evidenzia come sia in atto la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Nel settembre 2024, il Ministero dell’Istruzione del governo di fatto ha annunciato un aumento dei centri di educazione islamica a 21.257, di cui 19.669 madrase, superando il numero totale di scuole pubbliche e private, pari a 18.337. Tutto ciò non può che portare a una radicalizzazione delle giovani generazioni con la crescita di nuovi militanti che potranno essere persino più pericolosi di quanto siano percepiti gli attuali Talebani.

Afghanistan remains a hub of jihadist terrorism

Donald Trump and Joe Biden have always agreed on one thing: thanks to the Doha Accords and the Taliban’s promise, Islamist terrorism, at least the kind that worried the US, would no longer be present in Afghanistan. And, since a leopard can’t change its spots, if some small group continued to bother China and Russia, maybe a little “help” could have slipped in.

And never mind if the return of the Taliban meant throwing the Afghan population back into the nightmare, if women would be robbed of their future and the gates of hell would reopen for them, if human rights would become waste paper. Yes, of course, the Accords contained pompous declarations about respect for women and human rights, but what really mattered was that Afghanistan no longer represented a threat to the US. After all, this is why the country has been under occupation for 20 years.

Today we can say that this is proving to be a great illusion, even if the Taliban continue the farce: on the occasion of the fifth anniversary of the Doha Agreement last February 28, they declared that they had fulfilled their obligations to prevent terrorist groups from operating in Afghanistan and therefore no longer felt bound by the agreement.

A statement that is in fact denied by the US State Department itself, as can be seen by reading the April 30, 2025 Report by SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, an independent body of the United States government, established to monitor and verify how US funds intended for the reconstruction of Afghanistan are spent): “Terrorist groups continued to operate in and from Afghanistan, despite persistent concerns by the United States, the United Nations, and the region that the country remains a haven for terrorists, despite the commitments made by the Taliban in the 2020 Doha Agreement… The State Department stated in its annual report on terrorism, published in December 2024, that “terrorist groups such as the Islamic State – Khorasan Province (ISIS-K) and the Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) continued to take advantage of poor socioeconomic conditions and irregular security procedures [in Afghanistan] that make the operating environment more difficult. permissive… The State Department also told SIGAR that ‘it is not yet clear whether the Taliban has the will and ability to completely eliminate safe havens for terrorists.’”

And then “him,” the ultimate evil for the US, al-Qaeda: “The Taliban continued to provide a permissive environment for al-Qaeda throughout Afghanistan. The [UN] team’s February report found that al-Qaeda leader Sayf al-Adl’s strategy of ‘reorganizing al-Qaeda’s presence in Afghanistan and reactivating sleeper cells in Iraq, Libya, [Syria] and Europe was indicative of the group’s long-term intention to conduct external operations.’”

In its 2025 annual threat assessment, the ODNI (Office of the Director of National Intelligence, a U.S. federal agency whose mission is to coordinate and oversee all U.S. intelligence agencies) noted al-Qaeda’s intention to “target the United States and U.S. citizens through its global affiliates.”

There’s no doubt about it. A great result after 20 years of occupation and having returned Afghanistan to the Taliban. But let’s look in detail at the evidence that shows how Afghanistan is becoming the hub of jihadists.

Friends of al-Qaeda, protected and pampered

The Taliban’s relationship with al-Qaeda is based on a difficult balancing act between maintaining a historic relationship with the ideologically closest terrorist group and international recognition of their alleged fight against terrorism, the first step towards the entry of the so-called Islamic Emirate of Afghanistan into the international community.

As is well known, the close ties with al-Qaeda of the first Taliban regime (1996-2001) and the refuge offered to its leader Osama bin Laden provoked the US attack on Afghanistan after the attacks of September 11, 2001, organized by the terrorist group. Having moved to Pakistan after the fall of the regime, Osama bin Laden was killed on May 6, 2011 during a US military operation, but cells of the organization will continue to be present in Afghanistan.

At the beginning of 2021, US intelligence agencies estimated that al-Qaeda was at an all-time low in Afghanistan, counting less than two hundred members. But a year later, the total number of affiliates in Afghanistan had, according to the UN Security Council, doubled, reaching four hundred fighters, with most of its members based in the provinces of Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika and Zabul. Since the first months after August 2021, the main leaders of the group have moved to Afghanistan, starting with bin Laden’s successor, Ayman al-Zawahiri, thanks to his strong ties with the Taliban, in particular with the powerful “minister” of the interior Sirajuddin Haqqani. And it will be in a house in Haqqani that al-Zawahiri will be killed by US drones in July 2022.

In February 2024, the UN reports that al-Qaeda runs training camps in 8 of the 34 Afghan provinces (according to some sources there are 10 today, including one in Panjshir, a former stronghold of the anti-Taliban Resistance Front) and that the person in charge of these camps is called Hakim al Masri. And the UN report of February 2025 states that “The Taliban maintain a permissive environment that has allowed al-Qaeda to consolidate, thanks to the presence of safe havens and training camps scattered throughout Afghanistan (see chart).

Al-Qaeda Training Camps in Afghanistan. Source: Long War Journal by the Foundation for Defense of Democracies

 

Low-profile members reside with their families under the protection of the Taliban intelligence services in Kabul neighborhoods (for example, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw and Wazir Akbar Khan), while high-level leaders are located in rural areas outside Kabul (such as the remote village of Bulghuli in Sar-e Pul province), Kunar, Ghazni, Logar and Wardak. Some Member States have reported that Hamza al Ghamdi, a veteran of the organization, is in the Shashdarak maximum security area in Kabul with his family. The Taliban have transferred Abu Ikhlas Al-Masri (arrested around 2013 and released after the return of the Taliban) in a highly secure complex in the Afshar neighborhood of Kabul”.

The relations between the Taliban and the members of al-Qaeda are complex and are articulated on several levels also because, over the thirty years of presence in Afghan territory or in refugee camps in Pakistan, many members of the terrorist organization have married women from Taliban families or close to them. Even the “institutional” relationship with the organization is not monolithic and varies depending on the moment and the individual leaders of the terrorist group, but Afghanistan remains a central strategic hub for al-Qaeda. As demonstrated by the pamphlet published in July 2024 on as-Sahab, the organization’s reference media, attributed to Sayf al-Adl, the name by which the Egyptian citizen Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane, considered al-Zawahiri’s successor, is known, where it states: “The loyal people of the Ummah [global Islamic community] interested in change must go to Afghanistan, learn from its conditions and benefit from its experience [of the Taliban]”. Al-Adl then states that Muslims should consider the Islamic Emirate in Afghanistan as a hero and a model for building future Islamic states.

Statements perfectly in line with what has always been al-Qaeda’s main objective: to establish a pan-Islamic caliphate and overthrow corrupt “apostate” regimes in the Islamic world. To do so, it forms alliances with various terrorist groups, as the SIGAR Report also notes: “Al-Qaeda has continued to expand its reach outside of Afghanistan by strengthening coordination with Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), East Turkestan Islamic Movement/Turkestan Islamic Party (ETIM/TIP), and Jamaat Ansarullah.”

Enemy number 1: ISIS-K

Short for Islamic State – Khorasan Province, ISIS-K is one of the most dangerous and complex jihadist groups in South Asia. Born in 2015, this regional branch of the so-called Islamic State (ISIS) has quickly established itself as a significant security threat not only in Afghanistan and Pakistan, but also in the entire Central Asia region. Since June 2020, the organization has been led by Sanaullah Ghafari, an Afghan of Tajik ethnicity also known by the nom de guerre Shahab al-Muhajir, who has transformed ISIS-K into an organization with global ambitions. The group has claimed attacks in several countries, including the most devastating in Russia where, in March 2024, an attack on a concert hall near Moscow caused at least 137 deaths, and in Iran where, in January 2024, a double suicide bombing in Kerman killed almost 100 people during a commemoration for Qassem Soleimani.

The name “Khorasan” refers to a historical region of Central Asia that includes parts of Afghanistan, Iran, Pakistan and neighboring countries. In the jihadist context, the name has a strong symbolic and apocalyptic value, linked to the belief that from that land the fighters of Islam will be born in the end times.

Founded by former Pakistani Taliban (TTP) militants, al-Qaeda fighters and Afghan Taliban dissidents who have chosen to join the global cause of the Islamic State, distinct from the traditional Taliban. This split marked a turning point in the regional jihadist landscape, leading to a heated and bloody rivalry between the two groups.

As a regional branch of the Islamic State, ISIS-K aims to establish a strict Islamic caliphate based on Sharia law, extending its influence to Afghanistan, Pakistan and beyond. Unlike the Taliban, who have a more national and tribal vision, ISIS-K aims for a global and more radical jihad, also opposing the Taliban who they consider “moderate” and insufficiently rigorous.

Since 2015, ISIS-K has conducted numerous violent and spectacular attacks, characterized by high brutality and a high number of civilian casualties. Among the most tragic episodes, in addition to the two already mentioned abroad, stands out the suicide attack of August 26, 2021 at Kabul airport, which caused over 180 deaths, including thirteen US soldiers, during the evacuation of foreign forces and Afghan civilians. ISIS-K has particularly targeted Shiite religious minorities, such as the Hazara, organizing attacks against mosques, schools and markets, as well as operations against the Taliban themselves.

The main base of ISIS-K remains eastern Afghanistan, especially in the mountainous provinces of Nangarhar and Kunar, where Taliban forces have difficulty fully controlling the territory. In addition to Kabul, ISIS-K has tried to expand into other Afghan provinces and has operational cells in Pakistan, particularly in the tribal regions of Waziristan and Baluchistan. The group has also sought to extend its influence in Central Asia, in countries such as Tajikistan, Uzbekistan and Turkmenistan, exploiting porous borders and local political fragilities. And it is precisely this jihadist “mixture” that represents a strong point of ISIS-K which, as the UN explains, is “cunningly using Afghan nationals to conduct attacks in Pakistan, Pakistani nationals to conduct attacks inside Afghanistan, Tajik nationals to conduct attacks in Iran (Islamic Republic of Iran) and the Russian Federation and has used a Kyrgyz national to carry out an attack in the heart of the Taliban, Kandahar”. Far from having “pacified” the country, not only are the Taliban unable to protect Afghan citizens from ISIS-K terrorist attacks, but the terrorist group has also “benefited from the Taliban’s inability to protect itself from infiltration and corruption within its own ranks, despite raids to arrest disloyal officials,” according to the UN Report of February 2025.

The Pakistani Brothers of the TTP

Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), also known as the Pakistani Taliban, is a Sunni jihadist coalition formed in 2007 with the stated goal of overthrowing the government of Pakistan and establishing an Islamic emirate based on Sharia law. Over time, the group has become a major threat to Pakistan’s security, responsible for some of the bloodiest attacks in its recent history.

Founded by Baitullah Mehsud, an influential tribal commander in the South Waziristan region, along with other militant leaders active along the tribal area on the Afghan-Pakistan border, TTP was born in response to military operations launched by the Pakistani army against groups affiliated with al-Qaeda and the Afghan Taliban, who enjoyed safe havens in the tribal areas.

The movement took ideological inspiration from the Afghan Taliban, but is structurally and operationally independent from them, pursuing specific objectives: the establishment of Islamic law in Pakistan; the end of Pakistan’s cooperation with the United States and the West; revenge against the Pakistani army for its operations in the tribal areas and for supporting the US war on terror.

Since its founding, the TTP has conducted hundreds of bombings, suicide attacks and ambushes against military, government and civilian targets, going through various phases of decline and resurgence. The death of Baitullah Mehsud in a US drone strike in 2009 was followed by internal leadership struggles; in 2018, Mufti Noor Wali Mehsud was appointed as the new leader. Under his leadership, the group has sought to reorganize, improve communication, and exploit sectarian and ethnic divisions in the country. The return of the Taliban to power in Afghanistan has provided the TTP with new logistical and operational opportunities, strengthening its presence on the border.

Although the Afghan Taliban have formally denied supporting the TTP, it is known and reported by several international bodies that many TTP leaders are taking refuge in Afghanistan and are being protected. The Global Terrorism Index 2025 found that TTP attacks have increased five-fold since the Taliban’s return to power. Pakistan has repeatedly asked Kabul to extradite members of the group, but without success. According to the aforementioned SIGAR Report, in the second half of 2024 there would have been increased collaboration between the TTP, the Afghan Taliban and al-Qaeda, with attacks conducted under the auspices of Tehrik-e Jihad Pakistan, an umbrella organization. Finally, according to SIGAR, the TTP has established new training centers in the Afghan provinces of Kunar, Nangarhar, Khost and Paktika, has expanded recruitment to include Afghan Taliban members, and has received financial support from the Taliban regime.

Finally, the aforementioned ODNI warns: “The TTP’s capabilities, historical ties to al-Qaeda and previous support for operations against the United States raise concerns about the potential future threat.”

Small Terrorists Grow

If those described are the main organizations that are growing stronger in Afghanistan, they are not the only ones: “Terrorist groups continued to use Afghan soil to train and plan attacks and a “small but steady” flow of foreign terrorists continued to travel to Afghanistan and join one of the more than two dozen terrorist groups based there”, reads the UN Report of February 2025.

Let’s just say that there is an embarrassment of choice and, above all, in addition to the United States and the West in general, even neighboring countries cannot sleep soundly. Just to name a few groups: the Turkistan Islamic Party (TIP), is a Uyghur group, therefore particularly disliked by China, with historical ties to the Taliban; Katibat Imam al-Bukhari and Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) are Uzbek groups, linked to the Taliban and al-Qaeda; as for Pakistan, we do not only have the TTP, but also Lashkar-e-Taiba (LeT) and Jaish-e-Mohammed (JeM), which also have historical ties to the Taliban and al-Qaeda.

There is one last, but not secondary, element to consider. In Afghanistan, the school system is being dismantled and religious subjects in a fundamentalist key are largely replacing other subjects. The report published by UNAMA in April highlights how the transformation of the country’s public education system into a religious model based on madrasas is underway. In September 2024, the de facto government’s Ministry of Education announced an increase in Islamic education centers to 21,257, of which 19,669 are madrasas, exceeding the total number of public and private schools, equal to 18,337. All this can only lead to a radicalization of the younger generations with the growth of new militants who may be even more dangerous than the current Taliban are perceived.

Clinica mobile nelle aree rurali

Le severe limitazioni imposte dai talebani, che vietano alle donne di viaggiare a più di 77 km da casa senza un tutore maschio, hanno fatto sì che molte donne dei distretti più remoti siano state scoraggiate dal cercare assistenza per i loro problemi di salute. Molte hanno manifestato sintomi significativi di disturbi da stress post-traumatico, depressione e ansia. Quasi la metà delle donne visitate riferiva ai medici della morte di uno o più membri della famiglia uccisi in guerra. Anche le condizioni economiche di estrema povertà di queste persone sono state riconosciute come uno dei principali motivi della richiesta di assistenza in questa provincia.

In seguito alle pesanti minacce dei talebani ai medici e personale sanitario della clinica “Hamoon Health Center”, di Farah, l’associazione afghana che lo gestiva ha deciso di chiuderla e di sostituirla con una clinica mobile e un team di medici che può raggiungere la popolazione dei villaggi più sperduti.

Le caratteristiche del progetto

Questo nuovo progetto propone un team mobile che andrà nelle aree rurali del Paese e fornirà servizi medici di base alle persone, con particolare attenzione ai bambini con malnutrizione e alle donne incinte.

L’équipe sanitaria mobile visiterà anche le aree colpite dai disastri naturali.

Con l’improvviso cambio di governo, la già instabile situazione finanziaria della popolazione è ulteriormente peggiorata. Attualmente le persone non hanno accesso a una corretta alimentazione, all’istruzione e ai farmaci.

Il progetto mira a fornire assistenza medica di emergenza a persone bisognose in varie province dell’Afghanistan, con particolare attenzione alle donne e ai bambini che non possono ottenere assistenza medica nelle loro zone di abitazione. Inoltre, in casi particolari le donne saranno trasferite, a spese del progetto, dalle aree remote del paese a Kabul per essere visitate da medici o ricoverate in ospedale.

Complessivamente, il progetto sosterrà almeno 20.000 persone nella Provincia di Farah. Il team di progetto creerà un piano e selezionerà le aree più bisognose della provincia, poi l’unità mobile visiterà l’area individuata con le attrezzature necessarie e fornirà i servizi medici alle persone.

Infine, l’Unità sanitaria si avvarrà del personale necessario:

  • un manager per supervisionare e gestire le attività del progetto e fornire rapporti al donatore
  • due medici, un uomo e una donna, per interagire facilmente con pazienti sia donne che uomini. Verrà assunta una ginecologa per prestare un’attenzione particolare alle donne incinte o con problemi ginecologici
  • un infermiere, per assistere i medici, dare istruzioni di base ai pazienti mentre i medici li visiteranno, fare iniezioni, assistere i bambini malnutriti
  • un farmacista, che aiuterà a somministrare le medicine ai pazienti prestando maggiore attenzione a spiegare l’uso del farmaco poiché la maggior parte dei pazienti è analfabeta
  • tre membri di personale di supporto – un impiegato, un addetto alla logistica e una guardia per supportare l’equipe durante le visite nei villaggi.