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Autore: Patrizia Fabbri

Ezidi

Storia e cultura di un popolo in lotta contro il suo genocidio.

Che sia stata l’eredità di antiche sette gnostiche a forgiare il credo degli Ezidi o che la religione di questo popolo, insediato nel nord-ovest dell’Iraq e al confine con la Siria, discenda dall’incontro tra gli insegnamenti delle confraternite sufiste e il lascito spirituale del patriarca di Costantinopoli e della Chiesa d’Oriente, quando lo Stato Islamico scatenò nella regione la furia micidiale dei suoi sicari, furono proprio gli Ezidi – accusati di eresia – a pagare un terribile tributo di sangue. Il libro di Carla Gagliardini, nel ripercorre la storia di questo genocidio, racconta gli effetti che ancora oggi l’aggressione dell’Isis produce sull’intera comunità, interrogandosi se siano da attribuire unicamente alle conseguenze dell’attacco oppure derivino anche da altre ragioni. Shengal, infatti, è un territorio strategicamente importante per attori locali e internazionali, a maggior ragione in un momento in cui il Medio Oriente attraversa una crisi profonda. Inoltre l’avversione delle altre religioni dell’area verso il culto ezida rende la condizione di questo popolo ancora più fragile. Ma altri elementi sono da tenere in considerazione quando si guarda alle prospettive e ai pericoli che continuano a minacciare gli Ezidi e il libro della Gagliardini prova ad affrontarli con l’attenzione rivolta all’esperienza dell’Amministrazione Autonoma di Shengal che, nata grazie a un gruppo di donne e uomini ezidi rientrati nel distretto dopo la caduta dello Stato Islamico, si traduce in una forma di autogoverno basata sui principi del confederalismo democratico, ispirato alle idee del leader curdo Abdullah Öcalan.

di Carla Gagliardini

RedStar Press, pp 244

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Il saluto delle donne di RAWA alle amiche italiane per il 25 novembre

Calorosi saluti dall’Afghanistan e dalle donne di RAWA alle nostre amiche italiane!

La lotta per l’eliminazione della violenza non è mai stata un giorno simbolico per le donne afghane, ma piuttosto il nostro campo di battaglia quotidiano. Sotto il governo dei Talebani e della loro mentalità medievale, la violenza e le restrizioni contro le donne costituiscono la parte principale della loro legge e ideologia di governo.

L’obiettivo dietro la chiusura delle scuole, il velo forzato, la frustata pubblica e l’umiliazione, l’imposizione quotidiana di nuove leggi patriarcali dell’età della pietra e innumerevoli altre atrocità è lo stesso: schiacciare lo spirito delle donne ed eliminarle da ogni sfera della società. Ma nessuna forza, minaccia o coercizione ha ancora permesso ai Talebani di spezzare il coraggio e la resistenza delle donne.

Per cinque decenni, le donne afghane sono state in prima linea della battaglia: contro gli invasori sovietici e i loro burattini, contro i jihadisti traditori e criminali, contro l’oppressione e lo spargimento di sangue dei talebani medievali e contro i servitori e gli agenti dell’intelligence occidentale, in particolare contro il governo guerrafondaio degli Stati Uniti e della NATO, che per decenni hanno nutrito e sostenuto questi criminali.

Abbiamo imparato da tempo che nessun salvatore verrà dall’esterno, nessun “accordo di pace” porterà giustizia e prosperità e nessuna potenza globale sacrificherà i propri interessi per la nostra nazione. La nostra liberazione verrà solo dalle mani capaci del popolo afghano sofferente ma unito e dalla voce forte, soprattutto dalle donne coraggiose incatenate nelle peggiori forme di violenza e patriarcato.

I talebani e i loro fratelli jihadisti credono che attraverso politiche e azioni fasciste e barbare possano prolungare il loro dominio sull’Afghanistan, ma si sbagliano fortemente. Una società governata dall’intimidazione e dal terrore sarà sempre pronta a esplodere.

Oggi, nella nostra terra intrisa di sangue, ogni donna che rifiuta un matrimonio forzato, ogni ragazza che studia segretamente, ogni madre che dice la verità nonostante il pericolo, in qualche modo resiste.

Queste azioni possono sembrare insignificanti agli occhi del mondo, ma anche tali azioni da parte delle nostre donne hanno terrorizzato e fatto andare nel panico il regime fascista e misogino dei talebani, spingendoli a imporre restrizioni ogni giorno più severe. La fermezza e la resistenza delle donne afghane sono state una luce nel cuore dell’oscurità e un grido di giustizia e liberazione.

La lotta contro l’imperialismo e il fascismo religioso è impossibile senza un movimento organizzato e unito con chiare richieste di indipendenza, libertà, giustizia e democrazia laica. Il fondamentalismo e il colonialismo usano divisioni etniche, regionali e religiose per disperdere e schiavizzare il popolo, ma donne e uomini consapevoli non devono cadere nella loro maledetta trappola.

Le donne afghane oppresse devono anche tracciare una linea rossa chiara tra le proprie fila e quelle donne svendute e degradate che collaborano con i loro nemici.

In questo 25 novembre, invitiamo ogni sorella afghana a trasformare il proprio dolore in potere affinché in un’unità con altre donne rivoluzionarie e amanti della libertà del mondo, la loro lotta possa diventare più forte. Ma ciò è possibile solo se i movimenti in cerca di libertà e le donne combattenti d’Italia e del mondo intero esprimono solidarietà con la nostra lotta.

Dovete sostenere fermamente politicamente le vostre sorelle afghane che hanno dimostrato coraggio e crescita di fronte al più feroce fondamentalismo religioso e all’imperialismo.

Il cammino di RAWA è proprio quello che Meena ha tracciato con il suo sangue e da esso ha acceso la torcia della resistenza.

Diciamo NO al riconoscimento e agli accordi vergognosi con i criminali talebani.

Raggiungiamo libertà e democrazia attraverso l’istruzione e la consapevolezza.

Associazione Rivoluzionaria delle Donne dell’Afghanistan (RAWA)

Novembre 2025

Attraversare la notte: a Roma le voci delle donne afghane che cercano la luce

Nella Biblioteca Cittadini del Mondo di Roma, il 21 novembre, si è acceso un piccolo spazio di ascolto e speranza.
Tra libri, volti attenti e una sala piena, si è parlato di Afghanistan, di donne, di lotta silenziosa e di libertà negate.
L’occasione è stata la presentazione di “Attraversare la notte”, il libro di Cristiana Cella che raccoglie settanta storie di donne costrette a vivere nell’Afghanistan governato dai talebani.

Storie dure, ma anche luminose.
Storie che parlano di chi continua a vivere, insegnare, proteggere, resistere.
Storie che non possono restare chiuse nelle pagine di un libro.

Cristiana Cella: «Le donne afghane vivono nel buio, ma continuano a inventare la luce»

Cella racconta l’origine del libro e il profondo legame che da anni la unisce all’Afghanistan “L’informazione è importante quando passa dalle testimonianze. Le donne afghane devono parlare con la loro voce, non solo per mostrare l’orrore in cui vivono, ma anche la loro forza e la loro resistenza, nonostante la notte scura in cui sono cadute.”
L’autrice lavora da oltre venticinque anni con il CISDA, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, supportando le associazioni afghane come RAWA, che continuano a operare in segreto per garantire istruzione, assistenza sanitaria e protezione alle donne.
Cella spiega quanto sia stato difficile raccogliere queste storie in un periodo in cui l’Afghanistan “è scomparso dai media”. Inoltre “Le donne in questo momento non parlano, c’è paura. Il controllo dei talebani è fortissimo. Abbiamo potuto ascoltarle solo in luoghi protetti, all’interno delle nostre associazioni, dove si sentivano al sicuro.”
Le storie raccolte sono spesso di dolore, ma anche di trasformazione: donne che ritrovano dignità attraverso il lavoro, ragazze che insegnano segretamente ad altre ragazze, madri che resistono alla povertà per garantire un futuro ai figli.
“Dalla disperazione totale può tornare la forza, può tornare la speranza. Le donne afghane hanno un coraggio che non si può spiegare.”
Ha descritto una resistenza femminile che non si spegne, nonostante tutto “La speranza c’è sempre. Le donne afghane sanno che qualcosa prima o poi cambierà, e si preparano per quel momento.”
Tra le storie che ha raccolto c’è una rete segreta fatta di educazione clandestina e solidarietà nascosta “Le ragazze che hanno studiato prima dei talibani ora insegnano ad altre ragazze in segreto. Questo passaggio di sapienza è la forma di resistenza più forte.”
Cristiana Cella ha sottolineato anche la necessità di una responsabilità internazionale:
“Le donne afghane non hanno alleati. L’Occidente ha una grande responsabilità storica. Dobbiamo rompere il silenzio e sostenere le loro voci.”

Una serata per dare voce al silenzio

L’evento è stato realizzato nella biblioteca Cittadini del Mondo dal CISDA con la collaborazione delle attiviste di Binario 15 e con il patrocinio del Municipio VII di Roma.
Insieme hanno costruito uno spazio dove la parola “Afghanistan” è tornata a significare persone, volti, vite e non solo notizie lontane.
Fin dall’inizio è stato chiaro che non si trattava solo di una presentazione, ma di un incontro umano. Un momento per fermarsi ed ascoltare, davvero.

CISDA: «Le donne afghane resistono ogni giorno, anche quando nessuno le vede»

Antonella Garofalo, attivista di CISDA, ha spiegato come molte delle storie del libro provengano proprio dalle reti femminili che in Afghanistan, nonostante il rischio, continuano a sostenersi e a documentare ciò che accade.
«Queste donne non possono manifestare. Non possono gridare. Ma resistono nelle case, nelle relazioni, nell’insegnamento segreto. E per noi è un dovere ascoltarle e raccontarle».
Ha ricordato che oggi l’Afghanistan è scomparso quasi del tutto dai media internazionali:
«Questo silenzio fa ancora più male. Per questo incontri come questo sono importanti».
Lorena Di Lorenzo – sociologa e presidente di Binario 15 – ha spiegato l’importanza dell’evento e del libro che raccoglie le testimonianze delle donne intervistate:
“Binario 15 è dal 2011 al fianco della diaspora afghana a Roma, con focus rivolto prevalentemente a donne e minori. Il nostro ruolo è fornire strumenti di autonomia e creare un ponte tra le persone arrivate da poco e i servizi del territorio. Il CISDA, a noi molto vicino per obiettivi, impegno sociale e politico, è da sempre un’organizzazione con cui siamo in rete. In occasione del 25 novembre abbiamo deciso di unire le nostre voci contro la violenza che subiscono le donne in Afghanistan in quanto donne e a cui sono esposte anche in Italia come donne con background migratorio.”
Raccontando la situazione delle donne in Afghanistan, Di Lorenzo ha evidenziato la gravità delle restrizioni e delle discriminazioni:
“Le donne in Afghanistan vivono in un clima di apartheid di genere. È una discriminazione che compromette tutti gli aspetti della propria vita, sia nella sfera pubblica che privata. Quando ce ne renderemo conto, sarà difficile recuperare gli anni di vita che queste generazioni stanno perdendo.”
Infine, ha sottolineato le speranze legate all’evento e al libro:
“Speriamo che le testimonianze vive e lucide di chi ha vissuto in prima persona la discriminazione e la violenza multidimensionale possano rafforzare dinamiche di solidarietà ma soprattutto di attivazione sociale e politica, partendo dal basso fino ad arrivare alle istituzioni.”
L’iniziativa di Binario 15 dimostra come la cultura e la condivisione delle esperienze siano strumenti fondamentali per combattere il silenzio, dare valore alle storie e promuovere un cambiamento concreto.
L’incontro non è stato solo una presentazione, ma un luogo di connessione. Per molte donne afghane presenti, è stato un momento per sentirsi viste, ascoltate, accolte. Per gli italiani, un’occasione per capire cosa significhi perdere ogni libertà in un solo giorno.
In un tempo in cui il mondo si muove veloce e spesso dimentica, l’evento ha ricordato a tutti una verità semplice: Raccontare è resistere. Ascoltare è un dovere.

 

L’articolo è stato pubblicato su Più Culture il 24 novembre 2025

Afghanistan: il Paese peggiore dove nascere donna

Essere donna in Afghanistan significa vivere ogni giorno in uno dei contesti più ostili del mondo. Dopo il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 — o, meglio, dopo la vergognosa fuga degli Stati Uniti e dei loro alleati — le libertà femminili, già fragili negli anni precedenti, sono state travolte da un’ondata di politiche che hanno annullato diritti fondamentali e relegato metà della popolazione all’invisibilità forzata. In un Paese in cui circa 23 milioni di persone necessitano di assistenza umanitaria, donne e bambini sono i più esposti. Alle difficoltà di sopravvivenza si aggiunge la necessità di sottostare alle regole imposte dal regime, che entrano nella quotidianità condizionando ogni gesto e trasformando la paura in una presenza costante.

Il divieto di istruzione

Tra le restrizioni più dolorose c’è il divieto per le ragazze di frequentare la scuola media,superiore e l’università. In Afghanistan una bambina può studiare solo fino ai 10-11 anni: dopo di allora, il futuro si chiude davanti ai suoi occhi. Non si tratta solo dell’impossibilità di ottenere un titolo di studio: significa condannare
intere generazioni alla dipendenza economica, alla vulnerabilità e all’impossibilità di costruire una vita autonoma.

La cancellazione dalla vita pubblica

Le donne non possono lavorare nella maggior parte dei settori, né accedere a parchi, palestre e luoghi culturali. Non possono viaggiare da sole senza un mahram, un accompagnatore maschio della famiglia.
Sono state escluse anche dalle ONG locali e internazionali, privando il paese di insegnanti, infermiere, assistenti sociali e professioniste che per anni hanno sostenuto i servizi di base.

L’imposizione del velo e il controllo dei corpi

L’abbigliamento femminile è rigidamente regolato: burqa o hijab integrale sono obbligatori e la loro mancata osservanza può portare a punizioni, arresti o violenze. Il corpo delle donne diventa così terreno di controllo ideologico: nascosto, sorvegliato, disciplinato.

Matrimoni forzati e violenza domestica

Con il collasso del sistema giudiziario e il ritorno a forme di giustizia tradizionale, le donne non hanno più alcuna tutela contro matrimoni precoci, matrimoni forzati o violenza domestica. Le possibilità di chiedere aiuto o denunciare abusi sono praticamente nulle.

Una crisi umanitaria che colpisce soprattutto le donne

Nel mezzo della peggior crisi economica e alimentare degli ultimi decenni, le donne — soprattutto vedove e capifamiglia — sono le prime a soffrire la mancanza di cibo, cure mediche e mezzi di sostentamento. In molte famiglie, essere nate donne significa essere
le ultime a mangiare, le ultime a ricevere cure, le prime a morire.

Il blackout di Internet: l’ombra sull’ultimo spazio di libertà

A metà settembre 2025 il regime talebano ha iniziato a sospendere l’accesso alla fibra ottica in diverse province — tra cui Balkh, Baghlan, Kunduz, Badakhshan, Takhar — sostenendo la necessità di “prevenire l’immoralità”. Il 29 settembre, secondo Human Rights Watch, è iniziata una interruzione più ampia che ha coinvolto anche le reti mobili, portando la connettività sotto l’1%. Per moltissime donne, Internet non è solo una finestra sul mondo, ma un’ancora di
salvezza: uno spazio per studiare, lavorare, creare reti di solidarietà. Con il blackout, anche quest’ultima possibilità sta crollando.
Le autorità talebane parlano di tutela dei “valori morali”, ma molti osservatori internazionali leggono questa decisione come un ulteriore passo verso il totale controllo politico e sociale.
Dopo il 2021, l’accesso delle ragazze all’istruzione superiore è stato praticamente annullato. Di fronte ai divieti, migliaia di donne avevano trovato nell’online un’alternativa.
Con lo shutdown, però, anche le classi virtuali — per molte l’unica fonte di speranza — sono scomparse. Le comunità di sostegno, i gruppi di denuncia degli abusi, gli spazi sicuri di condivisione si stanno dissolvendo, lasciando un profondo senso di isolamento e
disperazione. Il blackout non è un incidente tecnico: è una nuova arma repressiva che colpisce con particolare durezza le donne, spegnendo l’ultimo spazio di autonomia, studio e voce.

Resistenza e speranza

Nonostante tutto, molte donne afghane continuano a protestare, a insegnare in scuole clandestine, a mantenere vivo un filo di resistenza. Le loro manifestazioni — spesso represse con violenza — sono atti di coraggio straordinario, testimonianze di una determinazione che nessun divieto riesce a spegnere.
Definire l’Afghanistan “il Paese peggiore dove nascere donna” non è
un’esagerazione retorica: è la fotografia di un presente durissimo, in cui nascere femmina significa essere private sin dall’infanzia della possibilità di costruire il proprio destino.

Ed è anche un appello alla responsabilità internazionale: perché finché una donna non sarà libera in Afghanistan, nessuna conquista potrà dirsi davvero completa.

L’articolo è stato pubblicato sul blog di ANPI Nicola Grosa il 24 novembre 2025

«Così puntiamo a cambiare il diritto internazionale»

Era il 1999 quando l’espressione «apartheid di genere» entrò nelle sale delle Nazioni Unite. Abdelfattah Amor, allora relatore speciale ONU per l’eliminazione delle discriminazioni basate su religione o credo, definì così – «un sistema di apartheid nei confronti delle donne» – il trattamento riservato dai talebani alla popolazione femminile afghana. A quei tempi, le immagini dell’apartheid sudafricano erano fresche nella mente di tutti. Violenza, segregazione, oppressione, negazione dei diritti fondamentali. Era questo che anche le donne afghane stavano vivendo in quel momento, sotto il controllo del primo governo talebano (1996-2001). Ed è questo che stanno vivendo oggi, dopo il ritiro delle truppe statunitensi, la fine della Repubblica e il ritorno al potere degli «studenti» coranici.

Restrizioni alla libertà di movimento, divieto di studio e lavoro, divieto di parlare in pubblico. A quattro anni dalla caduta di Kabul, ne abbiamo parlato a più riprese, l’Afghanistan è tornato indietro nel tempo. Non è un caso, allora, che l’espressione «apartheid di genere», già largamente utilizzata dalle donne afghane un ventennio fa per descrivere la propria condizione, sia oggi ancora in uso. Ed è per questo che un gruppo della vicina Penisola, il Coordinamento italiano sostegno donne afghane (CISDA), punta a portare nuovamente il tema sotto i riflettori internazionali, con un’iniziativa che chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto quale crimine contro l’umanità (come già è il caso per l’apartheid razziale) all’interno dei Trattati internazionali. Ne abbiamo parlato con Graziella Mascheroni, presidente del CISDA.

Sin dal 1999 il CISDA è attivo per promuovere progetti di solidarietà a favore delle donne afghane. Ma nel suo statuto, voce “Oggetto e scopi”, viene esplicitato: tra gli obiettivi dell’associazione c’è quello di «realizzare una crescita ed uno sviluppo, sia a livello locale che internazionale, nella ricerca di una maggiore giustizia tra i popoli». Non stupisce, allora, che l’ente non profit si sia lanciato in un’azione particolarmente ambiziosa: cambiare il diritto internazionale, per combattere l’apartheid di genere in Afghanistan e nel mondo. «Per lanciare il nostro progetto abbiamo lavorato in modo molto approfondito, consultandoci con giuristi ed esperti di diritto internazionale», ci racconta Mascheroni. «Da questa collaborazione è nato un documento sul quale abbiamo basato la campagna “Stop fondamentalismi – Stop apartheid di genere”».

La campagna, si legge sul sito del CISDA, chiede che l’apartheid di genere sia riconosciuto come crimine contro l’umanità e si riconosca che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan. Inoltre, al fine di non legittimare i fondamentalisti al governo a Kabul, il CISDA chiede che l’ONU non dia riconoscimento né giuridico né di fatto al regime talebano, che il fondamentalismo talebano sia dichiarato illegale, che sia impedito il finanziamento e l’invio di armi da Paesi amici, che i rappresentanti talebani siano estromessi da incontri di diplomazia internazionale e riunioni ONU.

La petizione collegata alla campagna, aperta a dicembre 2024 e chiusa lo scorso aprile (ma firmare è ancora possibile), ha raccolto circa 2.000 firme e il sostegno di un’ottantina di associazioni. «La raccolta firma è stata inviata al governo italiano, perché si faccia portavoce degli obiettivi della campagna dinanzi alle istituzioni internazionali. Siamo in attesa, ora, di avere un’audizione in Senato», ci spiega Mascheroni, che sottolinea: «Il documento è stato inviato anche alla Sesta commissione ONU e alla Corte penale internazionale (CPI). Quest’ultima ci ha risposto spiegando i prossimi passi». Un grande orgoglio per una associazione come il CISDA, ci spiega la presidente, che tuttavia non si fa illusioni: «C’è ancora tantissimo da fare». Perché questa proposta di modifica dello Statuto di Roma (il trattato internazionale istitutivo della CPI) venga presa in considerazione, dovrà essere patrocinata da uno Stato membro. «Negli ultimi mesi ci siamo mossi per cercare l’appoggio di un Paese che senta l’importanza di questo tema». Sudafrica e Congo sono tra i papabili, ma ci vorrà ancora del tempo perché vengano avanzate proposte concrete. Certo è che se l’iniziativa dovesse avere successo, l’impatto sarebbe fondamentale, e globale.

Per le donne afghane ogni mese conta, perché ogni mese è peggiore del precedente. «La situazione continua a deteriorarsi», conferma la presidente del CISDA, che con i gruppi locali di sostegno alle donne mantiene stretti contatti. «E questo anche per colpa del progressivo riconoscimento – formale o informale – da parte di Paesi terzi, che con i talebani stanno portando avanti rapporti diplomatici». Proprio negli scorsi giorni, la Segreteria di Stato della migrazione (SEM) ha confermato di aver «invitato rappresentati del governo talebano non ufficiale all’aeroporto di Ginevra» per trattare il tema delle espulsioni di cittadini afghani verso il loro Paese d’origine. Negoziazioni che hanno permesso il ristabilimento di un canale con l’Afghanistan per le espulsioni di uomini la cui domanda di asilo è stata respinta.

A Kabul, intanto, le donne di RAWA – l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane, gruppo politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana – non hanno intenzione di mollare di fronte alle terribili condizioni di vita. «Le sentiamo regolarmente. Sono convinte che nessun vero cambiamento possa venire dall’esterno. Dicono che giustizia e libertà possano giungere solo attraverso la lotte cosciente e unita della popolazione. Questo è il credo di RAWA, che dagli anni Settanta – dall’invasione sovietica, passando per guerre civili, i governi talebani e anche il periodo americano – non ha mai smesso di lottare. Loro vivono da sempre in clandestinità e quindi stanno portando avanti il loro lavoro come fatto in passato. Più difficile, invece, operare per le ONG che fino a qualche anno fa lavoravano indisturbate e oggi devono stare invece molto attente alla sorveglianza dei talebani per portare avanti in segreto la formazione delle bambine, la cui istruzione è stata proibita».

Chi non fa parte di associazioni o gruppi, porta avanti l’opposizione come può. «Con il progressivo assestarsi del potere talebano, scendere in strada come nei mesi seguenti la caduta di Kabul non è più possibile. La resistenza si è quindi spostata sui social. Non è un caso se nelle ultime settimane alcune regioni dell’Afghanistan abbiano subito un blocco dell’accesso alla rete». E questo fenomeno, ci racconta Mascheroni, non riguarda solo le donne. «Tutta la popolazione è stanca, e anche gli uomini sono contrari al dominio talebano. La società afghana è patriarcale: nei centri abitati al di fuori delle grandi città, i capi villaggio  sono esclusivamente uomini. Eppure collaborano strettamente con le associazioni femminili con cui siamo in contatto, specialmente nelle zone colpite recentemente dai terremoti, dove i talebani si sono ben guardati dal portare aiuti».

Parallelamente alla campagna contro l’apartheid di genere, da anni il CISDA porta avanti una lunga serie di progetti in Afghanistan a sostegno della popolazione. «Grazie a un nostro generoso sponsor, a Kabul e in altre quattro province possiamo finanziare un corso di cucito che garantisce, parallelamente, l’alfabetizzazione delle bambine. Contemporaneamente sosteniamo un’unità mobile, un team sanitario che va di villaggio in villaggio a visitare i pazienti». In passato l’organizzazione italiana, spiega la presidente, finanziava «grandi case protette per le donne afghane, ma molte sono state chiuse dopo l’arrivo dei talebani nel 2021. In questo momento, quindi, stiamo aiutando uno “shelter” più piccolo – che passa quindi inosservato – che al momento ospita quattro donne vittime di violenza e i loro 9 figli». Ma non finisce qui. «Da una decina d’anni, il nostro progetto Vite preziose permette il sostegno a distanza per chi ha subito violenze: così sponsor esterni possono aiutare finanziariamente, di solito per un anno, una donna afghana in difficoltà. Giallo fiducia, invece, supporta una coltivazione di zafferano nelle zone di Herat. Le dodici donne che lavorano in questo campo partecipano a un corso di alfabetizzazione e a uno sui diritti umani».

Piccoli numeri che, moltiplicati per la loro capillarità, fanno la differenza in una resistenza che vede l’alfabetizzazione, come già evidenziato, tema principale. «In risposta alla chiusura degli istituti scolastici, sono sorte migliaia di piccole scuole clandestine che, sparse un po’ ovunque, vedono insegnanti mettere a disposizione la propria casa per portare avanti la formazione di piccoli numeri di ragazze. La risposta a simili iniziative è alta, perché c’è la consapevolezza che l’istruzione è alla base della società. Senza, ottenere o mantenere libertà diventa molto più difficile».

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino il 22 novembre 2025

Trattare con i Talebani per “contrastare” i flussi migratori. Il vero volto della solidarietà europea

A fine ottobre la Commissione europea ha scritto ai 27 Stati membri per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, come l’Afghanistan. Una strategia brutale che getta una luce inquietante sugli aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia, 18 novembre 2025

L’Unione europea sta rispondendo con prontezza alle richieste delle Nazioni Unite e delle agenzie umanitarie di inviare aiuti all’Afghanistan alle prese con il freddo che avanza, catastrofi naturali, crisi economica e sospensione dei finanziamenti statunitensi.

Ma è autentica solidarietà, generosa e disinteressata, o piuttosto un calcolato avvicinamento al governo talebano per convincerlo a riprendersi i “suoi” immigrati in Europa, in risposta alla sempre maggiore pressione delle forze di destra perché si liberino di questo “fardello”? Per provare a rispondere è utile fare un passo indietro e osservare come si sono mossi alcuni Stati europei in questi ultimi mesi.

L’isolamento in cui il governo di fatto dell’Afghanistan è stato confinato con le sanzioni comminate nei confronti dei ministri talebani, che impediscono loro di viaggiare, dovrebbe rendergli impossibile incontrare funzionari di Paesi dell’Unione, tanto più in Europa.

Invece la Germania già il 21 luglio non solo ha deportato a Kabul 81 migranti con il coordinamento dell’amministrazione talebana e l’aiuto del Qatar, ha persino invitato due rappresentanti diplomatici del governo talebano in Europa perché seguissero le pratiche dei respingimenti in futuro.

E questi personaggi non sono stati trattati da funzionari con mansioni “tecniche”: sono stati riconosciuti come nuovi portavoce facenti funzioni consolari, dopo che i precedenti della vecchia Repubblica hanno dato le dimissioni proprio per protesta contro l’invito ai “nuovi” delegati. Si è così scavalcato di fatto ogni impegno al non riconoscimento del governo talebano che gli Stati europei e la stessa Germania continuano a ribadire come loro vincolo imperativo, prefigurando un cambio della politica europea nei confronti del governo de facto.

La pensano così anche i Talebani, che infatti si sono affrettati a mettere in risalto il loro nuovo ruolo e a occupare tutti gli spazi resi disponibili in questo nuovo contesto, con grande rischio per gli emigrati e per le loro famiglie perché ora tutta la documentazione relativa ai profughi che vivono in Germania e alle loro famiglie rimaste in Afghanistan sono stati ceduti nelle loro mani.

Questa decisione di Berlino ha creato un gravissimo precedente, che altri Stati europei si sono affrettati a seguire. Infatti già il 29 luglio funzionari svizzeri hanno chiesto al loro governo un dialogo diretto con i funzionari dell’Emirato islamico dell’Afghanistan per facilitare il processo di rimpatrio forzato dei richiedenti asilo afghani.

Il 30 luglio anche la Svezia ha tentato di ricorrere alla burocrazia per rendere la vita difficile agli immigrati afghani e prepararne l’espulsione, dichiarando nulli i documenti di viaggio non regolari, unici documenti di cui sono in possesso i fuggitivi dall’Afghanistan.

Intanto i Talebani hanno alzato il tiro: hanno informato la Svizzera che non avrebbero più accettato i rimpatri che non fossero stati firmati da esponenti del proprio governo, imponendo così di fatto i loro funzionari, tanto che il 23 agosto si sono recati a Ginevra per aiutare a identificare chi dovesse essere deportato in Afghanistan.

Anche Vienna si è fatta avanti. A metà settembre una delegazione di cinque membri del ministero degli Esteri talebano si è recata nella capitale austriaca per discutere le missioni diplomatiche e i servizi consolari ai cittadini afghani che vivono in Austria e in altri Paesi europei.

Ma la tappa decisiva è stata l’istanza dei 19 Paesi europei che hanno sottoscritto il 19 ottobre di quest’anno una richiesta al Commissario europeo per gli Affari interni e le migrazioni affinché venga facilitato il rimpatrio, volontario o forzato, dei cittadini extra-europei senza permesso di soggiorno o asilo, chiedendo quindi che le deportazioni siano trattate come una “responsabilità condivisa a livello dell’Ue”.

A sottoscrivere il documento sono stati i governi di Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Italia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Austria, Polonia, Slovacchia, Svezia, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Si è poi aggiunta la Norvegia la quale, pur non essendo membro dell’Ue, è un Paese Schengen.

Questa stretta migratoria, se è molto grave perché rischia di ripercuotersi pesantemente su tutti i profughi rifugiatisi in Europa, ha una ricaduta ancora più inquietante quando i migranti presi di mira sono cittadini afghani, costretti a tornare a vivere sotto un regime dittatoriale e repressivo dal quale erano fuggiti spesso per salvare la pelle. Ma è ancor più grave per il risvolto internazionale che prefigura, perché si ripercuote sulle relazioni tra Europa e Afghanistan, facendo diventare il governo afghano protagonista di una trattativa che lo riconosce di fatto se non di diritto, secondo una scelta che sembra essere sempre più considerata necessaria anche ai Paesi occidentali in quanto giustificata da esigenze pragmatiche.

Infatti il respingimento degli afghani nel Paese di origine necessita dell’accordo con il governo dei Talebani, fondamentalista e gravemente persecutorio nei confronti delle donne, che nessuno al mondo tranne la Russia ha voluto finora riconoscere. Ma questo governo è disponibile a dare il suo consenso al rientro dei suoi concittadini solo in cambio di un avanzamento del suo posizionamento nel mondo verso il riconoscimento legale. Posizione che rimane sottotraccia nella richiesta di deportazione avanzata degli Stati europei.

A estendere la nuova “linea politica” ci ha pensato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, inviando il 22 ottobre una lettera a tutti i 27 Stati dell’Unione per esortarli ad accelerare i rimpatri e implementare gli accordi bilaterali con i Paesi extra-Ue, anche con quelli che non rispettano il diritto umanitario, tipo l’Afghanistan.

Quindi trattare con il governo talebano, aprendo al dialogo e ai suoi ambasciatori, riconoscendogli di fatto un ruolo ufficiale sebbene ciò contraddica le dichiarazioni che la stessa Ue continua a proclamare, è la nuova strategia europea per “ridurre” l’immigrazione. La politica di dialogo dell’Ue con il governo talebano è stata del resto ribadita anche dal nuovo rappresentante Ue per l’Afghanistan, Gilles Bertrand, che appena eletto si è recato a Kabul per confermare direttamente ai Talebani l’intenzione dell’Ue a portare avanti il processo di dialogo stabilito nell’ambito degli accordi di Doha 3 – quelli cioè che escludono qualsiasi trattativa sui diritti delle donne per far piacere ai Talebani- offrendo e chiedendo collaborazione a vari livelli.

È quanto del resto ha ribadito il Parlamento europeo nel suo ultimo comunicato in cui, mentre prende una decisa posizione contro l’apartheid di genere e denuncia le responsabilità dei Talebani, anziché proporre provvedimenti per isolarli stringe i legami attraverso viaggi in Afghanistan e contatti segreti tra diplomatici, giustamente denunciati da alcune deputate europee.

In questa ottica, assume una luce più inquietante e interessata l’erogazione di aiuti umanitari che Bruxelles sta garantendo a Kabul sotto varie forme: non appare come un libero impegno dei Paesi europei democratici, solidali nei confronti del popolo afghano affamato, ma invece come un sostegno al governo talebano per avere in cambio la deportazione dei migranti afghani e agevolare il consenso dell’opinione pubblica europea sempre più xenofoba.