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L’Afghanistan rimane un hub del terrorismo jihadista

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 18 giugno 2025.

Su una cosa Donald Trump e Joe Biden si sono trovati sempre d’accordo: grazie agli accordi di Doha e alla promessa dei Talebani, il terrorismo islamista, perlomeno quello che preoccupava gli USA, non avrebbe più albergato in Afghanistan. E, dato che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se poi qualche piccolo gruppo avesse continuato a dar fastidio a Cina e Russia, magari ci sarebbe potuto scappare anche un “aiutino”.

E pazienza se il ritorno dei Talebani avrebbe significato rigettare la popolazione afghana nell’incubo, se alle donne sarebbe stato tolto il futuro e per loro si sarebbero riaperte le porte dell’inferno, se i diritti umani sarebbero diventati carta straccia. Si, certo, negli Accordi c’erano dichiarazioni pompose sul rispetto delle donne e dei diritti umani, ma quello che realmente importava era che l’Afghanistan non rappresentasse più una minaccia per gli USA. Del resto, è per questo che il Paese ha subito un’occupazione durata 20 anni.

Oggi possiamo dire che questa si sta rivelando una grande illusione, anche se i Talebani continuano nella farsa: in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Doha lo scorso 28 febbraio, hanno dichiarato di aver adempiuto ai propri obblighi di impedire ai gruppi terroristici di operare in Afghanistan e pertanto di non sentirsi più vincolati dall’accordo.

Dichiarazione di fatto sconfessata dallo stesso Dipartimento di Stato USA, come si può appurare leggendo il Report del 30 aprile 2025 dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, ente indipendente del governo degli Stati Uniti, istituito per sorvegliare e verificare come vengono spesi i fondi statunitensi destinati alla ricostruzione dell’Afghanistan): “I gruppi terroristici hanno continuato a operare in Afghanistan e dall’Afghanistan, nonostante le persistenti preoccupazioni di Stati Uniti, Nazioni Unite e della regione circa il fatto che il Paese rimanga un rifugio per i terroristi, nonostante gli impegni assunti dai Talebani nell’Accordo di Doha del 2020… Il Dipartimento di Stato ha affermato nel suo rapporto annuale sul terrorismo, pubblicato nel dicembre 2024, che “gruppi terroristici come lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISIS-K) e il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) hanno continuato a trarre vantaggio dalle scarse condizioni socioeconomiche e dalle procedure di sicurezza irregolari [in Afghanistan] che rendono l’ambiente operativo più permissivo… Il Dipartimento di Stato ha inoltre dichiarato al SIGAR che ‘non è ancora chiaro se i Talebani abbiano la volontà e la capacità di eliminare completamente i rifugi sicuri per i terroristi’”.

E poi “lui”, il male assoluto per gli USA, al-Qaeda: “I talebani continuarono a fornire un ambiente permissivo ad al-Qaida in tutto l’Afghanistan. Il rapporto di febbraio del team [dell’ONU] riteneva che la strategia del leader di al-Qaida Sayf al-Adl di ‘riorganizzare la presenza di al-Qaida in Afghanistan e riattivare le cellule dormienti in Iraq, Libia, [Siria] e in Europa fosse indicativa dell’intenzione a lungo termine del gruppo di condurre operazioni esterne’”.

Nella valutazione annuale delle minacce del 2025, l’ODNI (Office of the Director of National Intelligence, ente federale degli Stati Uniti la cui missione è coordinare e supervisionare tutte le agenzie dell’intelligence statunitense) ha rilevato l’intenzione di al-Qaida di “prendere di mira gli Stati Uniti e i cittadini statunitensi attraverso i suoi affiliati globali”.

Non c’è che dire. Un bel risultato dopo 20 anni di occupazione e aver riconsegnato l’Afghanistan nelle mani dei Talebani. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le evidenze che dimostrano come l’Afghanistan stia diventando l’hub dei jihadisti.

Gli amici di al-Qaeda, protetti e coccolati

Il rapporto dei Talebani con al-Qaida si basa su un difficile equilibrismo tra il mantenimento di un rapporto storico con il gruppo terroristico ideologicamente più affine e il riconoscimento internazionale alla loro presunta lotta al terrorismo, primo passo per l’ingresso del cosiddetto Emirato Islamico dell’Afghanistan nella comunità internazionale.

Come è noto, lo stretto legame con al-Qaida del primo regime talebano (1996-2001) e il rifugio offerto al suo capo Osama bin Laden provocarono l’attacco USA all’Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati dal gruppo terroristico. Spostatosi in Pakistan dopo la caduta del regime, Osama bin Laden verrà ucciso il 6 maggio 2011 nel corso di un’operazione militare statunitense, ma cellule dell’organizzazione continueranno a essere presenti in Afghanistan.

All’inizio del 2021, le agenzie di intelligence statunitensi stimavano che al-Qaida fosse al minimo storico in Afghanistan contando meno di duecento membri. Ma un anno dopo, il numero totale di affiliati in Afghanistan era, secondo il Consiglio di sicurezza dell’ONU, raddoppiato, raggiungendo i quattrocento combattenti, con la maggior parte dei membri installati nelle province di Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika e Zabul. Fin dai primi mesi dopo l’agosto 2021, i principali leader del gruppo si sono trasferiti in Afghanistan, a cominciare dal successore di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, grazie ai saldi legami con i Talebani, in particolare con il potente “ministro” dell’interno Sirajuddin Haqqani. E sarà proprio in una casa di Haqqani che al-Zawahiri verrà ucciso da droni statunitensi nel luglio 2022.

Nel febbraio 2024, l’ONU segnala che al-Qaida gestisce campi di addestramento in 8 delle 34 province afghane (secondo alcune fonti oggi sono 10, di cui uno nel Panjshir, ex roccaforte del Fronte di Resistenza anti-talebano) e che il responsabile di questi campi si chiama Hakim al Masri. E il Rapporto ONU del febbraio 2025 afferma che “I Talebani mantengono un ambiente permissivo che ha consentito ad Al-Qaida di consolidarsi, grazie alla presenza di rifugi sicuri e campi di addestramento sparsi in tutto l’Afghanistan (vedi grafico).

Campi di addestramento di al-Qaida presenti in Afghanistan. Fonte: Long War Journal della Foundation for Defense of Democracies

I membri di basso profilo risiedono, con le loro famiglie, sotto la protezione dei servizi segreti talebani nei quartieri di Kabul (per esempio, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw e Wazir Akbar Khan), mentre i leader di alto livello sono dislocati in aree rurali fuori Kabul (come il remoto villaggio di Bulghuli nella provincia di Sar-e Pul), Kunar, Ghazni, Logar e Wardak. Alcuni Stati membri hanno segnalato che Hamza al Ghamdi, veterano dell’organizzazione, si trova nella zona di massima sicurezza di Shashdarak a Kabul con la sua famiglia. I Talebani hanno trasferito Abu Ikhlas Al-Masri (arrestato intorno al 2013 e liberato dopo il ritorno dei talebani) in un complesso altamente sicuro nel quartiere di Afshar a Kabul”.

Le relazioni tra i Talebani e gli esponenti di al-Qaida sono complesse e si articolano su più livelli anche perché, nell’arco di trent’anni di presenza in territorio afghano o nei campi profughi in Pakistan, tanti membri dell’organizzazione terroristica si sono sposati con donne di famiglie di Talebani o a loro vicine. Anche il rapporto “istituzionale” con l’organizzazione non è monolitico e varia a seconda del momento e dei singoli leader del gruppo terroristico, ma l’Afghanistan rimane un nodo strategico centrale per al-Qaeda. Come del resto dimostra il pamphlet pubblicato nel luglio 2024 su as-Sahab, il media di riferimento dell’organizzazione, attribuito a Sayf al-Adl, nome con il quale è conosciuto il cittadino egiziano Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane considerato il successore di al-Zawahiri, dove si legge: “Il popolo leale della Ummah [comunità islamica mondiale] interessato al cambiamento deve recarsi in Afghanistan, imparare dalle sue condizioni e trarre beneficio dalla sua esperienza [dei talebani]”. Al-Adl afferma poi che i musulmani dovrebbero considerare l’Emirato Islamico in Afghanistan come un eroe e un modello per costruire futuri stati islamici.

Affermazioni perfettamente in linea con quello che è sempre stato l’obiettivo principale di al-Qaeda: istituire un califfato panislamico e rovesciare i regimi corrotti “apostati” nel mondo islamico. Per farlo stringe alleanze con vari gruppi terroristici, come rileva anche il Report del SIGAR: “Al-Qaida ha continuato a espandere la sua portata al di fuori dell’Afghanistan rafforzando il coordinamento con Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), Movimento islamico del Turkestan orientale/Partito islamico del Turkestan (ETIM/TIP) e Jamaat Ansarullah”.

Il nemico numero 1: ISIS-K

Abbreviazione di Islamic State – Khorasan Province (Stato Islamico – Provincia del Khorasan), ISIS-K rappresenta uno dei gruppi jihadisti più pericolosi e complessi dell’Asia meridionale. Nato nel 2015, questo ramo regionale del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) si è rapidamente affermato come una minaccia significativa per la sicurezza non solo in Afghanistan e Pakistan, ma anche nell’intera regione dell’Asia Centrale. A capo dell’organizzazione c’è dal giugno 2020 Sanaullah Ghafari, afghano di etnia tagika noto anche con il nome di battaglia Shahab al-Muhajir, che ha trasformato l’ISIS-K in un’organizzazione con ambizioni globali. Il gruppo ha rivendicato attentati in diversi paesi, tra cui i più devastanti in Russia dove, nel marzo 2024, un attacco a una sala concerti vicino a Mosca ha causato almeno 137 morti, e in Iran dove, nel gennaio 2024, un doppio attentato suicida a Kerman ha ucciso quasi 100 persone durante una commemorazione per Qassem Soleimani.

La denominazione “Khorasan” fa riferimento a una storica regione dell’Asia centrale che include parti di Afghanistan, Iran, Pakistan e dei paesi limitrofi. Nel contesto jihadista, il nome ha un forte valore simbolico e apocalittico, legato alla convinzione che da quella terra nasceranno i combattenti dell’Islam negli ultimi tempi.

Fondato da ex militanti talebani pakistani (TTP), combattenti provenienti da al-Qaida e dissidenti talebani afghani che hanno scelto di aderire alla causa globale dello Stato Islamico, distinto dai tradizionali Talebani. Questa scissione ha segnato un punto di svolta nel panorama jihadista regionale, portando a una rivalità accesa e sanguinosa tra i due gruppi.

Come branca regionale dello Stato Islamico, ISIS-K mira a stabilire un califfato islamico rigoroso basato sulla sharia, estendendo la propria influenza su Afghanistan, Pakistan e oltre. A differenza dei Talebani, che hanno una visione più nazionale e tribale, ISIS-K si propone una jihad globale e più radicale, opponendosi anche ai Talebani che considerano “moderati” e insufficientemente rigorosi.

Dal 2015 ISIS-K ha condotto numerosi attacchi violenti e spettacolari, caratterizzati da un’elevata brutalità e un alto numero di vittime civili. Tra gli episodi più tragici, altre ai due già citati all’estero, spicca l’attentato suicida del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul, che causò oltre 180 morti, compresi tredici soldati statunitensi, durante l’evacuazione delle forze straniere e dei civili afghani. ISIS-K ha preso di mira in particolare le minoranze religiose sciite, come gli Hazara, organizzando attacchi contro moschee, scuole e mercati, oltre a operazioni contro i Talebani stessi.

La principale base di ISIS-K rimane l’Afghanistan orientale, soprattutto nelle province montuose di Nangarhar e Kunar, dove le forze talebane hanno difficoltà a controllare completamente il territorio. Oltre a Kabul, ISIS-K ha cercato di espandersi in altre province afghane e ha cellule operative in Pakistan, in particolare nelle regioni tribali di Waziristan e Belucistan. Il gruppo ha anche cercato di estendere la propria influenza in Asia Centrale, in paesi come Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sfruttando le frontiere porose e le fragilità politiche locali. E proprio questo “miscuglio” jihadista rappresenta un punto di forza di ISIS-K che, come spiega l’ONU, sta “astutamente utilizzando cittadini afghani per condurre attacchi in Pakistan, cittadini pakistani per condurre attacchi all’interno dell’Afghanistan, cittadini tagiki per condurre attacchi in Iran (Repubblica Islamica dell’Iran) e nella Federazione Russa e ha utilizzato un cittadino kirghiso per compiere un attacco nel cuore dei talebani, Kandahar”.

Lontani dall’aver “pacificato” il Paese, non solo i Talebani non sono in grado di proteggere i cittadini afghani dagli attentati terroristici dell’ISIS-K, ma il gruppo terroristico ha anche “beneficiato dell’incapacità dei talebani di proteggersi dall’infiltrazione e dalla corruzione tra i suoi stessi ranghi, nonostante i raid condotti per arrestare funzionari sleali”, come si legge nel Report ONU di febbraio 2025.

I fratelli pakistani del TTP

Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), conosciuto anche come i Talebani pakistani, è una coalizione jihadista sunnita nata nel 2007 con l’obiettivo dichiarato di rovesciare il governo del Pakistan e instaurare un emirato islamico basato sulla sharia. Nel tempo, il gruppo è diventato una delle principali minacce alla sicurezza del Pakistan, responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi della sua storia recente.

Fondato da Baitullah Mehsud, un influente comandante tribale della regione del Waziristan meridionale, insieme ad altri leader militanti attivi lungo la zona tribale al confine afghano-pakistano, TTP nasce in risposta alle operazioni militari lanciate dall’esercito pakistano contro gruppi affiliati ad al-Qaida  e ai talebani afghani, che godevano di rifugi sicuri nelle aree tribali.

Il movimento ha preso ispirazione ideologica dai Talebani afghani, ma è strutturalmente e operativamente indipendente da essi perseguendo specifici obiettivi: l’instaurazione della legge islamica in Pakistan; la fine della cooperazione del Pakistan con gli Stati Uniti e l’Occidente; la vendetta contro l’esercito pakistano per le sue operazioni nelle aree tribali e per il sostegno alla guerra statunitense contro il terrorismo.

Dalla sua fondazione, il TTP ha condotto centinaia di attentati, attacchi suicidi e imboscate contro obiettivi militari, governativi e civili attraversando diverse fasi di declino e rinascita. La morte di Baitullah Mehsud in un attacco drone USA nel 2009 fu seguita da lotte interne per la leadership; nel 2018, Mufti Noor Wali Mehsud è stato nominato nuovo leader. Sotto la sua guida, il gruppo ha cercato di riorganizzarsi, migliorare la comunicazione e sfruttare le divisioni settarie ed etniche del Paese. Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan ha offerto al TTP nuove opportunità logistiche e operative, rafforzando la sua presenza al confine.

Sebbene i talebani afghani abbiano negato formalmente di sostenere il TTP, è noto e riportato da diversi organismi internazionali che molti leader del TTP si rifugiano in Afghanistan e godono di protezione. Il Global Terrorism Index 2025 ha rilevato che gli attacchi del TTP sono aumentati di cinque volte dal ritorno al potere dei Talebani. Il Pakistan ha più volte chiesto a Kabul di estradare membri del gruppo, ma senza successo. Secondo il già citato Rapporto del SIGAR, nella seconda metà del 2024 si sarebbe verificata una maggiore collaborazione tra il TTP, i talebani afghani e al-Qaeda, con attacchi condotti sotto l’egida di Tehrik-e Jihad Pakistan, un’organizzazione ombrello. Infine, sempre secondo il SIGAR, il TTP ha istituito nuovi centri di addestramento nelle province afghane di Kunar, Nangarhar, Khost e Paktika, ha ampliato il reclutamento, includendo membri talebani afghani, e ha ricevuto sostegno finanziario dal regime talebano.

E, per concludere, il già citato ODNI, mette in guardia: “Le capacità del TTP, i legami storici con al-Qaida e il precedente supporto alle operazioni contro gli Stati Uniti ci preoccupano per la potenziale minaccia futura”.

Piccoli terroristi crescono

Se quelle descritte sono le organizzazioni principali che si stanno irrobustendo in Afghanistan, non sono le sole: “I gruppi terroristici hanno continuato a utilizzare il suolo afghano per addestrare e pianificare attacchi e un flusso “piccolo ma costante” di terroristi stranieri ha continuato a recarsi in Afghanistan e a unirsi a uno degli oltre due dozzine di gruppi terroristici lì basati”, si legge nel Rapporto ONU del febbraio 2025.

Diciamo che non c’è che l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, oltre agli Stati Uniti e l’Occidente in generale, neanche i paesi vicini possono dormire sonni tranquilli. Solo per citare alcuni gruppi: il Turkistan Islamic Party (TIP), è un gruppo uiguro, quindi particolarmente inviso alla Cina, con legami storici con i Talebani; Katibat Imam al-Bukhari e Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) sono gruppi uzbeki, legati a Talebani e al-Qaida ; per quanto riguarda il Pakistan non abbiamo solo il TTP, ma anche Lashkar-e-Taiba (LeT) e Jaish-e-Mohammed (JeM), anch’essi con legami storici con Talebani e al-Qaida .

C’è poi un ultimo, ma non secondario, elemento da considerare. In Afghanistan si sta smantellando il sistema scolastico e le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie. Il report pubblicato da UNAMA in aprile evidenzia come sia in atto la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Nel settembre 2024, il Ministero dell’Istruzione del governo di fatto ha annunciato un aumento dei centri di educazione islamica a 21.257, di cui 19.669 madrase, superando il numero totale di scuole pubbliche e private, pari a 18.337. Tutto ciò non può che portare a una radicalizzazione delle giovani generazioni con la crescita di nuovi militanti che potranno essere persino più pericolosi di quanto siano percepiti gli attuali Talebani.

Passo dopo passo nel silenzio dolente. Report dalla clinica mobile Hamoon

Nella terza settimana di maggio 2025, il team sanitario mobile di Hamoon ha intrapreso un viaggio che non solo ha attraversato la geografia, ma ha anche toccato i confini del dolore, dell’abbandono e del bisogno.

Un viaggio di oltre sei ore: da Kabul a Jalalabad e poi nel cuore del distretto di Dara-eNoor, verso un villaggio chiamato Janshegal; un luogo lontano e dimenticato, incastonato tra le aspre montagne della provincia di Nangarhar. Questo tortuoso sentiero montano che attraversa il pericoloso passo di Mahipar testimoniava a ogni curva anni di negligenza governativa; una distanza che sulla mappa potrebbe essere solo di pochi chilometri, ma in realtà è un muro tra le persone indigenti e povere e i servizi essenziali di base di cui non hanno mai beneficiato. Il villaggio di Janshegal, come un’isola isolata tra i meandri della montagna, privo di strade ben servite e veicoli adeguati, rimane privo delle più elementari strutture sanitarie, educative e di sostentamento.

Non c’è né una clinica né una scuola. Nessuna istituzione governativa o non governativa ascolta il grido silenzioso di queste persone. Il centro sanitario di base più vicino si trova a 5 chilometri di distanza, ma non è né adeguatamente funzionante né facilmente accessibile per la gente del posto. Donne e bambini di questo villaggio sono privati ​​dei loro diritti umani più elementari, come l’accesso all’assistenza sanitaria, un’alimentazione adeguata e acqua a sufficienza, per non parlare dell’educazione alla dignità umana. Gli uomini sono per lo più migranti che lavorano a giornata o disoccupati nel villaggio.

La vita ricade pesantemente sulle spalle delle donne che, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche, portano il peso con la schiena curva e il cuore saldo: dalla cura dei bambini e degli anziani della famiglia alla cucina, alla raccolta della legna da ardere, al trasporto dell’acqua e ad altre faccende quotidiane, oltre al duro lavoro nei campi e nell’agricoltura. Nella zona che abbiamo visitato, tutto parlava di lontananza e isolamento, ma una volta messo piede lì, ci siamo resi conto che l’isolamento non era solo geografico; era come se queste persone fossero state cancellate anche dalla memoria del mondo. Gli abitanti erano montanari, le cui case semplici e primitive erano costruite con le proprie mani, utilizzando pietra e legno raccolti dalle montagne e dalle foreste circostanti.

La deforestazione incontrollata e il contrabbando di legname in Pakistan non rappresentano solo un problema ambientale, ma anche una sofferenza per la popolazione locale, contro la quale il governo non ha fatto alcuno sforzo per intervenire. In questa zona, la pianura è considerata un tesoro e, oltre alla coltivazione, gli abitanti del villaggio la usano per raduni e varie cerimonie. Erano le 10 del mattino e il calore del sole gravava pesantemente sul pendio della montagna. Abbiamo visto gruppi di donne tornare dai campi: falci in mano, piedi impolverati, schiene curve sotto il peso della tristezza e di un dolore silenzioso. I loro sguardi mescolavano la stanchezza a una domanda silenziosa: “Siete venuti per restare?”. Non vedevano un medico da molto tempo, non avevano accesso alle medicine e nessuno a cui chiedere aiuto.

Si installa la clinica mobile

Quando il nostro team è arrivato a Janshegal, la prima sfida è stata trovare un’area pianeggiante dove allestire la tenda medica. Ovunque guardassimo, vedevamo case di pietra o ripidi pendii che rendevano difficile stare in piedi per qualche minuto. Dopo esserci consultati con gli anziani del villaggio, abbiamo deciso di esplorare diversi punti per trovare un posto adatto alla postazione della squadra; un luogo dove donne malate e bambini deboli potessero aspettare senza timore di cadere o di prendere un’insolazione.

Ne abbiamo valutate tre: uno vicino alle case, ma stretto e scivoloso; un altro con più alberi, ma più ripido e pericoloso; e il terzo, che alla fine abbiamo scelto, era una parte della montagna naturalmente terrazzata. Da un lato si affacciava sulla valle, e dall’altro si appoggiava alla montagna; gli altri due lati erano circondati da alberi ad alto fusto che fornivano un’ombra limitata ma rilassante.

Mentre scaricavamo l’attrezzatura e montavamo la tenda, la preoccupazione si è insinuata nei nostri cuori: questo caldo di mezzogiorno, questo sole cocente orientale, avrebbe potuto mettere a dura prova i corpi fragili di bambini e donne incinte e causare nuove malattie. Soprattutto nelle regioni montuose, la luce del sole è più diretta e l’aria più pesante. Eravamo preoccupati, così abbiamo cercato di creare ombra e di installare alcuni angoli al riposo. Ma ciò che ci ha insegnato una grande lezione è stata la reazione della gente del posto. Calmi e sorridenti, hanno ascoltato le nostre preoccupazioni, e un uomo anziano con voce stanca ma decisa ha detto: “Non abbiamo problemi con il caldo; dalla mattina alla sera, ogni giorno, lavoriamo sotto questo sole. Questo caldo è parte della nostra vita, non una minaccia”.

I pazienti aspettano fiduciosi

Le donne con il viso bruciato dal sole, le mani callose e il corpo stanco si sono sedute una alla volta. I bambini erano in braccio alle madri o giocavano tra i cespugli. Alcuni occhi erano pieni di paura e alienazione, altri ci guardavano con curiosità. Alcune donne all’inizio non hanno osato avvicinarsi ai medici. A causa della minaccia di un’improvvisa presenza della polizia religiosa (Amr bil Maroof), abbiamo preparato due tavoli separati per i medici uomini e donne. Nei primi momenti, la gente si è radunata da ogni parte; alcuni con i bambini in braccio, altri sostenevano i genitori anziani. Volti bruciati dal sole, ma ancora luminosi di speranza. In quei momenti, la nostra presenza non era solo una visita medica per loro, ma una finestra su un mondo dove forse qualcuno sente ancora, vede e porge una mano.

La prima paziente è stata Bibi, una donna di mezza età con pressione bassa e gravi sintomi di affaticamento, portata dal marito nella nostra tenda. Quando l’abbiamo visitata, ha mormorato di non aver preso medicine da anni e, nonostante la grave debolezza, saliva ancora ogni giorno in montagna per raccogliere i prodotti agricoli. Ha detto di avere sei figli e che suo marito è disoccupato. Era il simbolo di una donna divisa tra un corpo stanco e la maternità a tempo pieno, ma non ancora sconfitta. Le abbiamo prescritto sieri e farmaci e le abbiamo dato consigli nutrizionali che lei stessa sapeva essere impossibili da seguire perché diceva: “Non abbiamo sempre nemmeno il pane secco”.

Un altro uomo anziano di nome Kaka, con le mani tremanti e gli occhi pieni di dolore, è stato aiutato a farsi strada tra la folla. Al suo arrivo, aveva le lacrime agli occhi. Ci ha raccontato dei suoi due figli piccoli, che avevano prestato servizio nell’esercito governativo durante la repubblica e che erano stati uccisi, e di un terzo figlio, scomparso durante la migrazione. Aveva la pressione alta e i sintomi di una profonda depressione erano evidenti nel suo comportamento. Quando gli abbiamo prescritto delle medicine, disse con voce roca: “Le medicine potrebbero abbassarmi la pressione, ma che ne sarà di questo cuore…?”.

Una bambina di nome Maryam è entrata con uno shock nervoso e forti palpitazioni con segni di ansia cronica e disturbi psicologici. Le abbiamo parlato con gentilezza, le abbiamo somministrato i farmaci necessari e consigliato alla famiglia di offrirle un ambiente tranquillo. Il momento in cui un piccolo sorriso è apparso sulle sue labbra è stato forse una delle ricompense più silenziose e profonde del nostro viaggio.

In un altro angolo, un bambino si era nascosto dietro la tenda. Quando ci ci siamo avvicinati, abbiamo visto che aveva paura degli abiti bianchi e degli strumenti medici. Lo abbiamo calmato dolcemente con carezze e sorrisi. La paura del bambino è stato per noi un amaro promemoria: bambini che crescono non con ricordi di gioco e gioia, ma con ricordi di dolore, isolamento, abbandono e povertà.

Una giovane donna si è presentata dal medico e, dopo averle prescritto dei farmaci, il medico le ha prescritto di attaccarle immediatamente una flebo alla mano. La vista del poco sangue l’ha fatta svenire. L’équipe sanitaria si è radunata intorno a lei e il medico ha riesaminato attentamente le sue condizioni, scoprendo che, a causa di problemi ginecologici durante la gravidanza, soffriva di anemia, emorragie e grave debolezza fisica. A causa dell’affollamento, abbiamo chiesto che venisse riportata a casa per proteggerla dalla polvere e dal caldo. L’anziana madre l’ha portata in spalla e si è spostata rapidamente dalla cima della montagna alla mezza montagna dove si trovava la sua casa. Vedere questa scena è stato sorprendente ed emozionante per il nostro team, insieme alla sensazione che queste donne, a causa della mancanza di strutture, siano diventate così tenaci e laboriose. La dottoressa ha sistemato la paziente nella stanza e le ha avviato la flebo. Un’infermiera è rimasta con lei mentre la dottoressa tornava al punto di ritrovo dei pazienti. Al termine delle operazioni, abbiamo visitato di nuovo la donna e, constatando che si sentiva meglio, ci hanno offerto dell’acqua di sorgente fresca in segno di gratitudine.

Quel giorno, oltre 200 persone del posto sono state visitate e curate. Tra le malattie più comuni c’erano problemi digestivi, infezioni cutanee, anemia, disturbi ormonali, pressione sanguigna, mal di testa cronici, malattie respiratorie e dolori muscolari e scheletrici. Abbiamo prescritto farmaci a tutti i pazienti, distribuito i medicinali necessari e fornito anche consigli su igiene personale, alimentazione e cura dei bambini.

Il momento di lasciare il villaggio

Alla fine della giornata, quando il sole è scomparso dietro le montagne e il canto degli uccelli si sentiva in lontananza, gli abitanti del villaggio ci hanno salutato. Alcuni con le lacrime, altri con un sorriso, altri solo con uno sguardo. In quegli sguardi, c’era qualcosa che ci è rimasto impresso: un desiderio di ritorno, la speranza che noi tornassimo e una gratitudine inesprimibile a parole.

Sebbene la nostra missione sia stata breve, quel giorno rimase impresso nei cuori e nelle menti di tutti i membri del team. Ci siamo resi conto che l’assistenza sanitaria non consiste semplicemente nel curare un paziente: è la garanzia per il paziente di essere ascoltato, visto e non dimenticato. Con il cuore colmo di esperienza e consapevolezza, e con la certezza che la nostra presenza, con il vostro aiuto, sia una luce nell’oscurità, siamo tornati a casa.

Questo viaggio non sarebbe stato possibile senza il sostegno finanziario e umano di CISDA. Mentre ce ne andavamo, lo stesso anziano che ci aveva avvicinato per primo ci ha detto: “La montagna è sempre qui; se tornerete, i nostri cuori saranno più caldi di questo sole“.

Storie di vita quotidiana nel Centro Educativo sostenuto da CISDA

La regione nella quale si trova il Centro educativo sostenuto da CISDA si trova in una regione montuosa, caratterizzata da un territorio aspro, valli fertili e altitudini elevate. Il clima è generalmente freddo, soprattutto in inverno, con frequenti nevicate. Le estati sono miti, il che la rende una piacevole meta di fuga durante i mesi più caldi in altre parti del paese.

Il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 ha cambiato drasticamente la vita in tutto l’Afghanistan e anche quest’area ha dovuto affrontare sfide particolari.

Come in molte parti dell’Afghanistan, alle ragazze oltre la sesta elementare è vietato frequentare la scuola. Si tratta di una grave battuta d’arresto, l’area vantava uno dei tassi di alfabetizzazione e frequenza scolastica femminile più alti prima del ritorno dei talebani.

L’Università rimane aperta agli uomini, ma alle donne è stato vietato l’accesso all’istruzione superiore a livello nazionale alla fine del 2022, stroncando i sogni di molte giovani donne della provincia. Molti insegnanti ed educatori, soprattutto donne, sono stati rimossi dai loro incarichi o costretti a smettere di lavorare.

 

Il Centro educativo sostenuto da CISDA

Il Centro Educativo sostenuto da CISDA è diventato molto apprezzato dalla comunità locale grazie ai suoi insegnanti dedicati ed esperti, nonché all’offerta di servizi gratuiti.

In passato, si sono tenuti diversi incontri per celebrare diverse ricorrenze e gli studenti hanno partecipato attivamente all’organizzazione e alla realizzazione di questi eventi. Questi incontri hanno avuto un impatto significativo. Tuttavia, purtroppo, a causa delle rigide politiche del regime talebano negli ultimi tempi, il numero degli eventi è stato ridotto.

Vengono organizzate riunioni settimanali con il personale per migliorare il lavoro quotidiano al centro cercando di parlare dei progressi di ogni singolo bambino. Una volta al mese si tiene una riunione con i genitori in cui si discutono problemi e progressi dei bambini e delle bambine che frequentano i corsi; il riscontro dei genitori è molto positivo.

Un giorno alla settimana viene organizzata la visione di film, la lettura di poesie e presentazione di famosi poeti persiani, la lettura e discussione di articoli su importanti argomenti sociali, culturali e storici.

Il controllo dei Talebani sul Centro

Quest’anno, il Dipartimento dell’Istruzione della zona ha convocato più volte i funzionari di diversi centri educativi, imponendo loro norme molto severe; di conseguenza, molti centri educativi sono stati costretti a chiudere. Una volta alla settimana, inviano una notifica scritta o una delegazione va a valutare il centro; queste interruzioni complicano la gestione del Centro.

Il 12 settembre 2024, il Capo del Dipartimento dell’Istruzione dell’area ha riunito tutti i funzionari delle scuole private e dei centri educativi per una riunione. La riunione ha affrontato diversi punti:

  1. Tutte le scuole private non sono più autorizzate a offrire corsi, in particolare corsi di alfabetizzazione.
  2. Tutti i centri e le scuole private devono avere classi separate, anche dalla terza elementare in su.
  3. Un insegnante del genere appropriato deve essere assunto per ogni classe.
  4. Le scuole e i centri privati ​​devono informare il Ministero dell’Istruzione in merito al loro processo di assunzione, in particolare le scuole private, in modo che i registri di insegnamento degli insegnanti siano conservati.
  5. Un insegnante pubblico non può insegnare in una scuola privata.
  6. Le insegnanti donne dovrebbero avere la priorità nelle assunzioni e i loro stipendi dovrebbero essere aumentati.
  7. Gli insegnanti non dovrebbero essere licenziati arbitrariamente o senza un valido motivo, in particolare le insegnanti donne.
  8. Le studentesse devono indossare l’hijab riconosciuto. In caso di reclami o di disonore a una ragazza, il Dipartimento provvederà personalmente alla chiusura della scuola/centro educativo e ad intraprendere azioni legali.
  9. I centri educativi possono operare solo nell’ambito delle loro licenze. Ad esempio, se un centro è autorizzato a offrire corsi di lingua, non può offrire corsi in scienze o oratoria.
  10. Nessuna scuola o centro privato è autorizzato a offrire corsi di alfabetizzazione.
  11. Le scuole private non sono autorizzate ad ammettere studenti di età superiore alla settima elementare.
  12. Le scuole private non devono suonare o cantare l’inno nazionale durante il programma mattutino; al suo posto, dovrebbe essere eseguita una recita di versetti religiosi.

“Nonostante tutte queste restrizioni, stiamo facendo ogni sforzo per garantire che il nostro centro progredisca bene e che possiamo continuare ad aiutare le persone povere e bisognose di questa zona”, ci dicono gli organizzatori.

Alcune storie degli studenti del Centro

 

Le storie che ci mandano dal Centro sono racconti di dolore, sofferenza e povertà e dove il Centro Educativo rappresenta un piccolo spiraglio di speranza.

G. è uno degli studenti più laboriosi del Centro Educativo, proviene da una famiglia povera e vulnerabile, è orfano di padre e ora vive con la madre malata e quattro fratelli. G. trascorre il tempo a prendersi cura della madre malata e a svolgere le faccende domestiche. Dice: “Non abbiamo una sorella, quindi tutte le responsabilità ricadono su di me”. Quattro anni fa, G. ha dovuto abbandonare la scuola a causa di difficoltà economiche e problemi familiari. Tuttavia, quest’anno, incoraggiato dal direttore del Centro, è tornato a scuola e attualmente sta proseguendo gli studi dalla quarta elementare; anche il fratello minore studia in una scuola costruita da donatori stranieri per orfani. La famiglia vive in condizioni estremamente difficili: ci sono state molte notti e giorni in cui hanno sofferto la fame e sono sopravvissuti solo con patate e acqua bollita. Nonostante la loro resilienza, G. è ora profondamente preoccupato per la salute della madre e di uno dei fratelli e ha disperatamente bisogno di aiuto per portarli in ospedale e farli curare.

F. è una ragazza di 19 anni che ha perso entrambi i genitori diversi anni fa e vive con la famiglia di uno dei fratelli. Condivide la sua storia di vita con un dolore silenzioso e una profonda resilienza: “Siamo quattro sorelle e due fratelli. La mia sorella maggiore è disabile, fino a qualche anno fa era registrata presso il Ministero per i Martiri e i Disabili e riceveva un certo sostegno. Tuttavia, quando l’Emirato Islamico è salito al potere, questo sostegno è stato completamente interrotto. Uno dei miei fratelli ci ha abbandonati dopo la morte dei nostri genitori e da allora non è più tornato”. Ora, F. e le sue sorelle vivono con il fratello minore, R., che è l’unico che cerca di sostenerle: lavora come bracciante giornaliero; ogni mattina si reca al mercato sperando di trovare lavoro e spesso torna a casa a mani vuote. Nonostante la sua giovane età, R. porta sulle spalle l’intero peso della famiglia. F. aggiunge con dolore: “A volte la pressione della povertà e della disoccupazione diventa così opprimente che mio fratello scappa di casa per un po’, solo per sfuggire al dolore”. La famiglia di F. è intrappolata in un ciclo di povertà e vulnerabilità, senza un reddito fisso o un sostegno esterno. La loro storia è un grido d’aiuto, una richiesta di compassione, opportunità e la possibilità di vivere con dignità.

All’inizio della scorsa estate, la madre di K., uno degli studenti del Centro Educativo, si è recata personalmente al centro con una richiesta umile. Ha condiviso la dolorosa storia della sua famiglia e ha chiesto sostegno affinché suo figlio potesse continuare gli studi. Ha detto: “Il padre di K. soffre di una malattia grave e incurabile. Mio figlio ama profondamente studiare presso il vostro centro ed è molto desideroso di continuare. Chiedo sinceramente il vostro aiuto affinché non debba abbandonare gli studi”. Ha poi aggiunto: “Ho due figlie. Prima della malattia del padre, anche loro frequentavano le lezioni presso il centro. Ma dopo che si è ammalato, non ho più potuto permettermi di mandarle. Avevamo una casa, ma sono stata costretta a venderla per coprire le spese mediche di mio marito. I miei figli sono ancora molto piccoli. Il più grande è K., che ha 14 anni e attualmente frequenta la prima media in una scuola pubblica. Sono profondamente preoccupata per i miei figli: potrebbero soffrire la fame o essere privati ​​del loro futuro”.

O., una bambina di 12 anni e una delle studentesse del Centro Educativo, racconta la sua storia: “Vivo in una famiglia di otto persone. Mio padre è l’unico a portare a casa il pane. Tutti noi dipendiamo dal reddito di nostro padre. Mia madre è analfabeta e nessuno di noi è in grado di lavorare per sostenere la famiglia. Continua: “Mio padre riesce a malapena a guadagnare più di 100 afghani al giorno. Se facciamo colazione, non abbiamo cibo per cena. Prima che i talebani prendessero il potere, almeno potevamo avere pane, tè e a volte patate. Ma dal loro arrivo, ci è stato portato via tutto. Siamo vivi, ma non possiamo andare a scuola e non riusciamo nemmeno a trovare lavoro. Frequento il corso da oltre un anno, studio inglese e continuo la mia formazione. Voglio ringraziare lo staff di questo corso per averci dato un senso di speranza.”

H., una delle studentesse del Centro, una volta andò con sua madre a trovare il direttore del centro: “Prima ancora che la madre potesse iniziare a parlare, un nodo le si formò in gola. Le lacrime le salirono agli occhi. Il dolore della povertà era chiaramente visibile sui volti della madre e della figlia”, racconta la nostra referente del Centro. Dopo un lungo, doloroso silenzio, la madre di H. finalmente parlò: “Egregio Signore, ho quattro figli. Due di loro frequentano il vostro centro, gli altri due sono ancora molto piccoli e restano a casa. Ma il loro padre, a causa dell’estrema povertà e della disoccupazione di lunga durata, è diventato tossicodipendente. Sono passati quasi nove mesi, quasi un anno da quando è scomparso. Non sappiamo dove sia. Sono rimasta sola con questi piccoli.” Con voce tremante continuò: “Negli ultimi due mesi, io, i miei figli abbiamo digiunato durante il Ramadan. Siamo andati porta a porta, raccogliendo zakat e fitr. Siamo riusciti a radunare 3.000 afghani, che usavamo solo per sopravvivere. Ma ora non ci è rimasto niente”.

V., una studentessa del Centro Educativo, racconta con coraggio le difficoltà che lei e la sua famiglia hanno dovuto affrontare: “Eravamo molto piccoli quando mio padre, che aveva prestato servizio come soldato semplice nel precedente governo, fu ucciso dai talebani. Mia madre si assunse il peso di crescerci”. Continua con voce sofferente: “Abbiamo affrontato innumerevoli difficoltà. I ​​miei zii ci hanno costretti a lasciare la nostra casa. Ora mia madre soffre di danni ai nervi e di ipertensione a causa dello stress e del trauma che ha subito. Esce e chiede l’elemosina alla gente solo per portare qualcosa a casa. Io aiuto a gestire le nostre piccole spese come posso. Attualmente sto imparando l’inglese in questo corso e sono molto grata per tutto il supporto che mi avete fornito. In passato, non potevamo andare da nessuna parte per mancanza di soldi. Ma quest’anno siamo migliorati tantissimo.”

B. è una delle studentesse più motivate del Centro Educativo. Condivide le dolorose realtà della sua vita con silenziosa forza: “Sono la figlia maggiore in famiglia. Siamo in otto, cinque sorelle e un fratello. Ero in terza media quando i talebani arrivarono e chiusero le porte della scuola alle ragazze. Mio padre era un semplice bracciante durante il periodo della Repubblica: andava in piazza ogni giorno, trovando qualsiasi lavoro possibile solo per portare a casa un po’ di cibo per noi. Ma negli ultimi due anni non c’è stato lavoro. Mio padre è stato costretto ad andare a lavorare nelle miniere di carbone. Ha lavorato lì per sei mesi, ma poi si è infortunato e tutti i soldi che aveva guadagnato sono stati utilizzati per le sue cure. Per fortuna, con l’aiuto di Dio, ora è di nuovo in piedi, ma non può ancora lavorare. Ora io e mia madre andiamo al mercato a comprare vestiti, che cuciamo di giorno e fino a tarda notte, giusto per guadagnare qualcosa e mettere da mangiare in tavola. Prima possedevamo una piccola casa, ma l’abbiamo venduta per pagare le cure di mio padre. Ora viviamo in una stanza in affitto e da tre mesi non riusciamo a pagare l’affitto. Il padrone di casa viene ogni giorno minacciando di sfrattarci. B. conclude con un appello silenzioso: “Siamo persi. Non sappiamo più cosa fare. Che Dio abbia pietà di noi.”

L. racconta la sua storia con silenziosa resilienza: “Siamo una famiglia di dieci persone. Mio padre è diventato vecchio e debole, non può più lavorare. La maggior parte dei membri della nostra famiglia sono donne e non abbiamo una fonte di reddito stabile.” Continua: “Durante il precedente governo, mio ​​padre lavorava come custode presso un ente pubblico, ma quando il governo è cambiato, i talebani lo hanno licenziato. Da allora, è disoccupato e ogni mattina va in piazza sperando di trovare lavoro, ma torna a mani vuote, portando con sé solo tristezza e stanchezza. Giorno dopo giorno, il dolore e la pressione della vita sono diventati così pesanti che hanno iniziato a incidere sulla sua salute mentale. Mio padre ora non sta bene psicologicamente”.

P., una ragazza cresciuta in mezzo alle difficoltà, racconta la sua storia: “Ero solo una bambina, molto piccola quando ho perso mia madre. Dopo la sua morte, Mio padre mi lasciò con mia nonna e se ne andò, sposò un’altra donna e non tornò mai più. Io e mia nonna andammo a vivere a casa di mio zio e da quel giorno in poi la vita divenne piena di dolore e difficoltà. Ogni giorno uscivo con mia nonna, lavando i panni o lavorando come donna delle pulizie nelle case della gente per sopravvivere. Ma ora mia nonna è invecchiata e malata. Non può più lavorare. Le sue gambe le fanno costantemente male ed è cagionevole di salute. Siamo lasciati soli con infinite difficoltà. Anche trovare abbastanza da mangiare è una sfida quotidiana. Al momento, siamo registrati solo presso l’ufficio dell’Ayatollah Sistani. Ogni tre mesi ci danno un sacco di farina, una bottiglia da cinque litri di olio da cucina e un po’ di sale e zucchero. Questo è tutto l’aiuto che riceviamo. Andavo a scuola. Mi piaceva molto. Ma ho dovuto lasciare. Non potevo continuare. Speravo che un giorno avrei potuto terminare la mia formazione e magari trovare un lavoro. Cercherò di sfruttare ogni opportunità per imparare in questo centro e raggiungere i miei obiettivi”.

 

Per motivi di sicurezza sono stati tolti dal resoconto tutti gli elementi che potrebbero contribuire a identificarlo, ma ci sembra importante rendere note le attività del Centro e le difficoltà che i suoi studenti e insegnanti devono quotidianamente affrontare.

Un piccolo rifugio per ripararsi dalla violenza domestica

La violenza domestica in Afghanistan ha raggiunto livelli allarmanti, soprattutto dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021. Le donne vittime di abusi si trovano in una situazione di estrema vulnerabilità, con accesso limitato o nullo a protezione legale, rifugi sicuri o supporto psicologico.

Il 46,1% delle donne afghane tra i 15 e i 49 anni ha subito violenza fisica e/o sessuale da parte di un partner intimo nel corso della vita (United Nations Population Fund). Una ricerca pubblicata su PubMed evidenzia che le sopravvissute alla violenza domestica affrontano uno stigma significativo da parte di famiglie e comunità, spesso manifestato attraverso colpevolizzazione, vergogna e isolamento.

Come se ciò non bastasse, un rapporto delle Nazioni Unite ha documentato che le donne che denunciano violenze domestiche vengono spesso incarcerate se non hanno un parente maschio con cui vivere. Le donne che cercano aiuto rischiano di essere punite per “crimini morali”, come vivere da sole o tentare di fuggire da un marito violento. Inoltre, la legge islamica applicata dai talebani non distingue tra relazioni sessuali consensuali fuori dal matrimonio e stupro, trattando entrambi come “zina”, punibile con la lapidazione o la fustigazione.

Non sono più vietati i matrimoni forzati quindi le bambine vengono date in sposa ai miliziani a fronte di un compenso economico che consente alle famiglie di sopravvivere e di avere una bocca in meno da sfamare.

Assenza di protezioni legali

Il sistema giudiziario sotto i talebani è inaccessibile alla maggior parte delle donne. Il 79% delle donne intervistate in un rapporto congiunto IOM, Unama e UN Women ha riferito di non avere alcun contatto con servizi legali formali nell’ultimo anno. Molte cause vengono ignorate o respinte, specialmente se la donna non è accompagnata da un tutore maschio.

Le istituzioni che in passato offrivano assistenza legale gratuita, supporto psicologico e rifugi sono state smantellate. Le organizzazioni che gestivano centri di consulenza e rifugi, sono state costrette a chiudere o ridurre drasticamente le loro attività.

Lo stigma sociale impedisce alle donne di denunciare gli abusi. In molte comunità, la violenza domestica è considerata una questione privata, e le donne che cercano aiuto vengono spesso accusate di disonorare la famiglia.

La violenza fisica e psicologica e la mancanza di supporto, insieme alle limitazioni imposte alla vita delle donne afghane, hanno un impatto devastante su ragazze e donne adulte: secondo un’indagine di Afghan Witness, tra aprile 2022 e febbraio 2024 sono stati documentati 195 casi di suicidio femminile.

Il piccolo shelter sostenuto da CISDA

CISDA, nei suoi lunghi anni di attività, ha sostenuto la realizzazione e lo sviluppo di alcuni rifugi per donne vittime di violenza domestica.

Il progetto prevedeva una serie di interventi integrati finalizzati alla lotta alla violenza nei confronti delle donne, da un lato promuovendo il loro empowerment sociale, economico e legale e dall’altro l’affermazione della cultura dei diritti umani delle donne attraverso l’educazione alla legalità e il rafforzamento del sistema di giustizia.

Veniva fornita gratuitamente assistenza legale, psicologica e sanitaria quando necessario, e le donne erano supportate in tribunale per ottenere giustizia e un risarcimento per i crimini subiti. Le attività del progetto erano rafforzate sulla base delle relazioni stabilite con le organizzazioni di base, le ong locali già operanti sui temi dei diritti delle donne e con le istituzioni di riferimento.

Dall’agosto 2021 gli “Shelter” – Case rifugio per donne vittime di violenza – sono stati chiusi perché non era possibile garantire la sicurezza delle donne che si erano rifugiate negli shelter. Siamo però riuscite a sostenere ancora una piccola attività, con un “piccolo shelter sul quale, per ovvii motivi di sicurezza, non possiamo dare informazioni dettagliate.

Le donne e i bambini che vivono nel rifugio partecipano a programmi educativi organizzati, tra cui corsi di studio e formazione in attività di sartoria. Inoltre, vengono organizzate diverse attività ricreative, come attività sportive e celebrazioni speciali come la Giornata internazionale della donna (8 marzo) e gli anniversari della Giornata mondiale dell’infanzia.

Queste attivitàci ha scritto la nostra referente afghana che si occupa questo progetto – non solo contribuiscono a migliorare la loro qualità di vita, ma anche a ravvivare il loro spirito e la loro speranza. Una delle donne nel rifugio ha espresso la sua felicità di vivere qui e di vivere in un ambiente sereno. Ha anche notato che i suoi figli sono impegnati negli studi e spera di costruire un futuro luminoso e di successo per sé e la sua famiglia. Inoltre, una delle bambine ha detto che l’ambiente del rifugio è molto piacevole per lei ed è felice di poter studiare in un’atmosfera così solidale“.

Per queste donne e questi bambini è molto importante avere un posto sicuro dove vivere, aiutaci a continuare a sostenerlo: invia il tuo contributo nella modalità che più preferisci, qui puoi trovare tutte le informazioni su come fare.

Storie di resilienza e speranza nei corsi di alfabetizzazione e cucito

Nonostante i loro diritti siano stati violati e vivano sotto la costante minaccia di violenza, le donne e le ragazze afghane continuano a perseverare coraggiosamente. Alcune hanno creato nuovi gruppi della società civile per rispondere ai bisogni della comunità, mentre altre hanno cercano di riaprire loro attività e tornare al lavoro. Per tutte loro, la loro resilienza rappresenta un incredibile coraggio che spesso passa inosservato.

Ne è un esempio il report sui corsi di alfabetizzazione e cucito ricevuto nei giorni scorsi da una delle organizzazioni afghane. I corsi si svolgono in quattro province e vedono la partecipazione, in ogni realtà, di 20 studentesse per il corso di alfabetizzazione e 20 per quello di cucito.

Alfabetizzazione, cucito e socializzazione

Gli studenti di entrambe le classi provengono da diverse fasce d’età e sono stati suddivisi in tre gruppi in base alle competenze. “Il loro entusiasmo e la loro partecipazione attiva nei quattro centri – ci scrivono – dimostrano la loro volontà di sfruttare al meglio questa opportunità. In ogni provincia sono presenti due insegnanti, uno per ogni corso, per un totale di otto insegnanti reclutati per questo progetto. Tutti gli insegnanti sono molto dedicati e laboriosi, e investono tutte le loro energie nell’insegnamento agli studenti”.

I corsi di alfabetizzazione coprono varie materie, tra cui la lingua dari, la matematica di base, il disegno di base (per identificare gli oggetti) e i nomi di diversi esseri viventi e non viventi. Nei corsi di cucito, le studentesse imparano a tagliare i tessuti, a usare le macchine da cucire, a ricamare a mano e a confezionare abiti.

Ma non sono solo le attività pratiche a essere fondamentali: “Inizialmente, le studentesse erano scoraggiate per il loro futuro e si sono trovate sottoposte a una forte pressione psicologica. Tuttavia, partecipando attivamente alle lezioni, il loro morale è migliorato. Oltre al loro impegno nelle attività accademiche, le ragazze hanno anche partecipato attivamente ai programmi come la celebrazione del Giorno dell’Indipendenza del Paese, la Giornata degli Insegnanti e altri eventi ricreativi ed educativi. Queste esperienze hanno dato loro la speranza di un cambiamento e di un futuro migliore”.

Dalla loro istituzione nel giugno 2022, questi piccoli centri hanno offerto opportunità di alfabetizzazione e formazione professionale a 160 ragazze e donne in quattro province. Durante questo periodo, i residenti hanno mostrato rispetto e accolto con favore questi centri, permettendo alle loro ragazze di partecipare a questi corsi per migliorare le proprie competenze di alfabetizzazione e formazione professionale in un ambiente sicuro e solidale.

Nell’oscurantismo imposto dal governo talebano, i centri rappresentano anche un momento di incontro e socializzazione, come ci scrivono: “Il progetto ha anche facilitato la ricostruzione di un legame sociale di ragazze e donne anziane, offrendo loro l’opportunità di fare nuove amicizie e di entrare in contatto con altre persone della loro età in centri pacifici e sicuri”.

Storie di resilienza e speranza

Quelle delle donne e delle ragazze che frequentano i corsi sono storie di sofferenza, ma nel contempo di resilienza e speranza.

C’è S., una donna che vive in una precaria situazione perché nubile: “Prima di frequentare il corso di alfabetizzazione, ero molto malata mentalmente ed emotivamente. Ero sempre stanca e senza entusiasmo. Quando la nostra insegnante ha parlato dei diritti delle donne, ho sentito come se il mondo si fosse aperto per me“.

E poi c’è G., spostata da molti anni con un uomo molto più grande di lei e dipendente da sostanze stupefacenti, rimasta vedova con cinque figli: “La situazione economica di mio padre era pessima e per questo motivo sono stata costretta a un matrimonio indesiderato. Come sono sopravvissuta? Non mi sono mai arresa. I miei figli sono andati a scuola e hanno ricevuto un’istruzione. Ora mi amano tutti, ma sono molto malata mentalmente e fisicamente“. Allora G. decide di seguire il corso: “Da quando sono qui, mi sento come se fossi tornata giovane. Non voglio perdermi un solo giorno, perché il corso di alfabetizzazione mi ha portato gioie che nessun altro nella mia vita è stato in grado di darmi“.

Un piccolo problema di linguaggio aveva reso ancora più dura la vita di M.: “A scuola, venivo sempre presa in giro dagli altri studenti, il che mi faceva evitare le riunioni e persino la scuola. Il mio problema mi rendeva difficile parlare facilmente, e questo mi causava molto dolore“. Quando ha saputo del corso, aveva paura a partecipare proprio per questo piccolo problema, ma poi decide di iscriversi: “Ora parlo molto meglio e il mio insegnante mi incoraggia sempre. Mi dice che non devo vergognarmi e che devo credere in me stessa. Ora mi sento parte di una famiglia, con le mie amiche e le mie compagne di classe. Questo è un luogo dove posso parlare senza timore di essere giudicata e sentire che la mia voce è preziosa. Ringrazio di cuore la mia insegnante e i miei compagni di classe per aver aiutato donne e ragazze come me che hanno sofferto e per averci mostrato che possiamo superare i nostri problemi“.

A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionale

L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 26 maggio 2025.

È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche.

Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano, invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità.

Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo ma anche da alcuni esponenti delle stesse Nazioni Unite.

La conferenza si era conclusa senza impegni precisi ma aveva sancito la disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici in preparazione di altri appuntamenti e incontri.

Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi.

Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di mediazione.

Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo.

E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla volta -fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli proposti dalla comunità internazionale- così che sia più facile, senza l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposto una strategia che separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del settore privato e la cooperazione economica -che piacciono ai Talebani- da quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro indefinito “del prima o poi” -tanto le donne afghane sono resilienti-.

Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime.

Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”, si dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2023.

Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società civile e le reali vittime del governo.

In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse. Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria.

Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani, siano state le parti finora coinvolte.

Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica, puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero e proprio riconoscimento di legittimità.

In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo, ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica, accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”.

Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione?

Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci devono essere ascoltate”.