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Stop a bambine e ragazze

A giugno 2021, due mesi prima della presa del potere da parte dei talebani e venti anni dopo l’occupazione USA-NATO, il sistema scolastico afghano presentava già notevoli criticità.

La popolazione scolastica, secondo l’UNICEF, ammontava a 6,6 milioni nella scuola primaria (di cui 2,6 milioni di bambine, circa 4 su 10) e 3,1 milioni nella scuola secondaria (di cui 1,1 milioni di ragazze), mentre 4,2 milioni di bambini, di cui il 60% femmine, non frequentavano alcuna scuola.

Ma alla fine del ciclo primario, il 93% degli studenti non aveva comunque raggiunto il livello minimo di competenze.

Questo insuccesso va correlato alla permanente situazione di guerra, alla miseria e alla fame, alla mancanza di trasporti, al rischio di aggressioni e rapimenti durante il tragitto scuola-casa, ai matrimoni precoci, ai ruoli tradizionali, alla carenza e inadeguatezza degli edifici, spesso occupati da milizie armate, alla pesante corruzione, che ha vanificato i finanziamenti esteri, ma anche alla scarsa formazione del personale: solo il 38% degli insegnanti maschi e solo il 34% donne, destinate alle classi femminili, sono in possesso del titolo di studio richiesto (14° grado).

Brevi i turni di lezione, eccessivo il numero degli studenti per classe: tra 40 e 60.

Tra il 2001 e il 2021 il tasso di alfabetizzazione è raddoppiato (dal 17% a quasi il 30%), ma è rimasto fortemente disomogeneo per genere (l’analfabetismo femminile è tra l’84% e l’87%) e per aree geografiche, con le aree rurali fortemente penalizzate.

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, nell’agosto 2021, la riapertura graduale delle scuole ha escluso le ragazze a partire dal 7° grado (12 anni di età), causando forti proteste interne e condanne internazionali. Le pressioni dei donatori esteri, interessati a normalizzare le relazioni con il governo di fatto, si sono concretizzate in esenzioni da alcune sanzioni imposte precedentemente, come per esempio la risoluzione 2615 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 22 dicembre 2021, sostenuta da tre “General licences” USA, che si è concretizzata in donazioni per l’emergenza umanitaria e a favore dell’educazione delle ragazze: il 13 settembre 2021 ECW (il fondo ONU per emergenze educative), Italia e USA hanno versato 12 milioni di dollari; il 18 gennaio 2022 l’Unione Europea ha versato 50 milioni di euro per pagare gli insegnanti; il 25 gennaio 2022 l’Asian Development Bank ha versato 405 milioni di dollari per cibo, salute, educazione; il 1° marzo 2022 la Banca Mondiale un miliardo di dollari e così via.

Le pressioni per limitare l’oppressione di genere hanno inasprito il conflitto interno tra le fazioni al governo, da una parte coloro che vogliono trattare per ottenere fondi e dall’altra gli intransigenti. Malgrado determinate province abbiano riaperto alcune scuole alle ragazze, nel dicembre 2022 è stata vietata loro l’istruzione universitaria, e oltre 100.000 studentesse sono state espulse anche dallo studio di discipline (come medicina e pedagogia per la scuola primaria) in cui l’occupazione femminile viene parzialmente tollerata.

Intanto, la qualità dell’istruzione è totalmente compromessa: le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie, specie quelle scientifiche. Insegnanti e alunne sono sottoposte a misure vessatorie che scoraggiano la frequenza scolastica.

Infine, le istituzioni educative sono oggetto di attacchi terroristiche che colpiscono principalmente donne e ragazze: l’attacco contro il Kaaj Educational Center il 30 settembre 2022 a Kabul ha causato la morte di 54 persone e il ferimento di altre 114; la maggior parte delle vittime erano giovani donne e ragazze hazara che si stavano preparando per l’esame di ammissione all’università.

 

Informazione – Giornaliste e giornalisti bersaglio dei talebani

Dopo la presa del potere da parte dei talebani, la raccolta di notizie in Afghanistan da parte dei media locali è pressoché inesistente. Migliaia di giornalisti afgani, tra cui centinaia di donne i cui volti erano noti, sono stati bersaglio immediato della rappresaglia delle milizie talebane, costringendo molti di loro alla clandestinità o alla fuga.

Nella classifica mondiale sulla libertà di stampa di Reporters Sans Frontières del 2020, l’Afghanistan era al 122° posto tra 180 paesi e nella mappa globale di Freedom House era classificato come paese non libero.

Già nel precedente governo di Ashraf Ghani però, si era tentato di limitare il lavoro indipendente dei reporter con una proposta di legge che avrebbe voluto obbligare alla rilevazione delle fonti. Proteste da parte delle categorie coinvolte avevano bloccato il tentativo di ingerenze dell’autorità, giustificato dal timore di ritorsioni. La situazione oggi si è ulteriormente aggravata.

Il 20 luglio 2022 Unama ha pubblicato un rapporto sui diritti umani in Afghanistan  nel quale, a proposito di informazione, si legge: “Nei 10 mesi trascorsi da quando hanno preso il controllo dell’Afghanistan, le autorità de facto hanno chiarito la loro posizione sui diritti alla libertà di riunione pacifica, alla libertà di espressione e alla libertà di opinione. Hanno limitato il dissenso reprimendo le proteste e limitando la libertà dei media, anche arrestando arbitrariamente giornalisti, manifestanti e attivisti della società civile e imponendo restrizioni ai media”. Sempre secondo il rapporto Unama, sono stati colpiti 173 giornalisti e operatori dei media, 163 dei quali sono stati attribuiti alle autorità de facto. Tra questi vi sono stati 122 casi di arresto e detenzione arbitrari, 58 casi di maltrattamento, 33 casi di minacce e intimidazioni e 12 casi di detenzione. Durante il primo anno di regime sono stati uccisi anche sei giornalisti (cinque da parte dell’ISIS-K, uno da autori sconosciuti).

Il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) l’11 agosto 2022 ha pubblicato un report  in cui viene denunciata la situazione dell’informazione in Afghanistan a un anno dalla presa del potere da parte dei talebani. Censure, arresti, aggressioni, restrizioni alle donne giornaliste, fuga di giornalisti esperti hanno ridotto in modo allarmante la libertà di informazione.

Il Rapporto di Human Rights Watch del 2023 nella sezione Eventi 2022 – Libertà di stampa e parola, a proposito della libertà dei media e dell’informazione dichiara: “Le autorità talebane hanno attuato un’ampia censura e messo in atto restrizione e violenze contro i media afghani a Kabul e nelle province. Centinaia di media sono stati chiusi e si stima che l’80% delle giornaliste in tutto l’Afghanistan abbia perso il lavoro o lasciato la professione dalla presa del potere da parte dei talebani nell’agosto 2021”.

Attualmente la situazione è peggiorata. I giornalisti e le giornaliste afghani che vogliono restare nel loro paese e non andare via devono essere aiutati, perché l’evacuazione non può essere la soluzione. Le minacce che provengono dal regime talebano repressivo e rigido non possono impedire che esca la verità su ciò che sta accadendo nel paese.  A tale proposito abbiamo raccolto la testimonianza di chi dall’interno resta e continua a resistere.

 

Ci sono ancora emittenti radiofoniche o televisive che trasmettono a livello nazionale? Se sì, quanti e quali sono?

Sebbene molti canali radiofonici e televisivi siano stati chiusi dopo la presa del potere da parte dei talebani, molti sono ancora operativi. Naturalmente, c’è una severa censura imposta dai talebani e molti giornalisti, conduttori di notizie ed editori sono stati arrestati e minacciati. Pertanto, tutti i media sono molto attenti ai loro rapporti.

Che tipo di programmi vengono trasmessi, e in che lingua?

La maggior parte dei programmi di intrattenimento sono stati chiusi. Non viene messo in onda alcun film o serie, anche se a tema religioso. In passato venivano messe in onda molte soap opera dalla Turchia e dall’India tradotte in dari e pashto. La TV nazionale sta agendo secondo l’agenda dei talebani. Ma ora sono vietati.

I telegiornali possono trasmettere immagini?

Sì, i telegiornali trasmettono immagini, ma invece la maggior parte delle immagini dai cartelloni pubblicitari e dai negozi della città sono state rimosse.

È vero che non si possono più fare foto o video?

Ufficialmente, non è vietato. Diversi gruppi di talebani agiscono secondo i loro metodi. Mentre alcuni gruppi fermano le persone, controllano i loro telefoni cellulari e cancellano immagini e video, mentre altri gruppi non se ne preoccupano.

Ci sono giornaliste che possono lavorare? Dovrebbero coprirsi completamente?

Alla maggior parte delle giornaliste donne è vietato apparire sugli schermi televisivi, e poche appaiono, ma devono seguire rigorosamente gli le imposizioni dei talebani sull’hijab. Devono vestirsi di nero dalla testa ai piedi e persino indossare una maschera nera. Solo i loro occhi sono visibili.

Ci sono giornali o stampa clandestina?

Alcuni giornali e canali televisivi operano dall’estero, mentre hanno i giornalisti segreti all’interno dell’Afghanistan o acquistano la maggior parte del materiale dalle agenzie di stampa internazionali. Usano anche il materiale dei social media, condiviso dai netizens all’interno del paese.

Che tipo di media utilizza il regime talebano per la sua propaganda?

La TV e la radio nazionali.

 

I delitti contro le donne… non sono delitti

Per le donne in Afghanistan non c’è giustizia, c’è una mirata e ossessiva persecuzione di genere. Il Ministero della Giustizia e tutte le leggi che vige6vano nel paese sono state smantellate, così come il Ministero degli Affari femminili e tutti i programmi di sostegno alle donne vittime di violenza. L’unica legge in vigore nel paese è la sharìa, secondo l’interpretazione estrema dei talebani. Legge, declinata in innumerevoli divieti, sempre più numerosi, che escludono le donne dalla vita sociale e sospendono la vita stessa.

E se limitare i diritti delle donne e delle ragazze è il principale risultato previsto degli editti, diversi editti sono diretti agli uomini (per esempio, un dipendente pubblico rischia la sospensione dal lavoro se sua moglie o sua figlia non indossano “l’hijab adeguato”) contribuendo così ad aumentare il controllo sociale sulle donne.

I delitti contro le donne non hanno nemmeno la dignità di essere delitti, sono comportamenti, governati dalla sharia. Accettati. Accolti dentro la vita di ogni giorno. L’impunità è totale. La violenza domestica e sociale non è più reato. Non c’è più nessuna autorità alla quale appellarsi. Nelle corti talebane le decisioni, in ambito sia civile che penale, vengono prese dagli uomini in assenza delle donne. I codici cambiano e sono i talebani a possederli. La giustizia è sprofondata nel fanatismo. Basta la sharia.

Chiedere un intervento della corte talebana, mette le donne a rischio di violenza e violenza sessuale. Come si legge nel rapporto del giugno 2023 rilasciato dall’Human Rights Council dell’ONU, le donne che chiedono il divorzio o fuggono da situazioni domestiche violente sono le più colpite, poiché sono abitualmente costrette a tornare a relazioni violente. Gli esperti dell’ONU hanno sentito gli avvocati che gestiscono casi in cui donne che erano andate in tribunale chiedendo il divorzio sono state ammonite dal giudice con osservazioni del tipo “la tua mano non è rotta, la tua gamba non è rotta, perché vuoi il divorzio?”, “Ottieni prima il consenso di tuo marito” e categoricamente “non puoi divorziare”. Il ritorno forzato delle donne a partner violenti è stato ulteriormente esacerbato da un editto secondo cui qualsiasi caso di divorzio risolto durante l’era della Repubblica può essere rivisto da un giudice dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.

Le donne che lavoravano in ambito giuridico, avvocate, procuratrici, giudici, sono senza lavoro, vivono nascoste e minacciate per la loro passata attività a favore delle donne. Sono anche il bersaglio di uomini condannati per le violenze inflitte e liberati dai talebani. Uomini che cercano tenacemente vendetta.

Com’era prima: la giustizia nei 20 anni di occupazione USA/NATO

La violenza strutturale contro le donne non è stata intaccata nel corso degli ultimi 20 anni, nonostante la propaganda. Le opportunità c’erano, ma non per tutte. A fronte di alcune donne che riuscivano ad affermare la propria autonomia e a percorrere la propria strada professionale, spesso con gravi rischi (attacchi alle scuole e alle studentesse, omicidi mirati dei talebani alle donne professionalmente attive, minacce e intimidazioni), il resto del mondo delle donne afghane soffocava nel silenzio e nella quotidiana violenza che raggiungeva l’87% delle donne.

La giustizia per i reati commessi contro di loro restava una chimera ma esistevano fondamentali strutture di sostegno per le donne: Centri di Aiuto Legale, con assistenza legale, medica e psicologica, Case Protette, Ministero degli Affari Femminili, associazioni e Ong molto attive. L’impunità per i delitti contro le donne è rimasta comunque molto alta in tutto questo periodo.

Le leggi in vigore 2001/2021

Eppure le leggi buone c’erano. Il sistema giudiziario era stato riformato proprio dagli italiani Eccole.

Ratificata nel 2003, la CEDAW (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne).

Nel 2004 la Costituzione prevede l’Articolo 22: “I cittadini afghani, sia uomini che donne, hanno gli stessi diritti di fronte alla legge.” L’efficacia di questo articolo è però indebolita dall’Articolo n. 3: “Nessuna legge può essere contraria ai principi e alle disposizioni della sacra religione dell’Islam”, la sharia dunque è fondamento del diritto e non può essere ignorata in alcun caso.

Nel 2009 la legge EVAW( Eliminazione della violenza contro le donne, trasformata in legge da Karzai ma mai ratificata dal Parlamento) prevede sanzioni penali per i colpevoli di 17 forme diverse di violenza e criminalizza le tradizioni dannose, ba’d (bambine date in spose per riparare un torto) e badal, (scambio di ragazze e bambine tra famiglie.)

Solo il 5% dei casi è trattato con la procedura penale sotto la legge Evaw (Unama ’16); nell’80% dei casi funziona o la mediazione familiare o la Giustizia Parallela, sistema giuridico informale basato sulla sharìa e sulle leggi tribali tradizionali.

In pochi si rivolgono alla Giustizia governativa per gli alti costi della corruzione.

Purtroppo, le buone leggi, nei 20 anni di occupazione, sono state poco usate e molto ostacolate.

Le strutture del potere, che avrebbero dovuto applicarle, come il Parlamento o il Governo delle diverse province, erano saldamente in mano ai Signori della Guerra, potenti capi tribali, fondamentalisti feroci, che si erano macchiati di innumerevoli crimini di guerra oppure ai talebani che continuavano a governare parte del paese. Proteggere le donne e condannare i colpevoli di violenza non era certo una loro priorità. Ostacolare i percorsi intrapresi per ottenere giustizia, era prassi comune nella quale venivano utilizzate minacce, intimidazioni, omicidi.

I sistemi giuridici. La difficile scelta delle avvocate

Come ci hanno spesso raccontato le avvocate che si battevano per i diritti delle donne, quando si è di fronte a una cliente in difficoltà, bisogna sostenere e coltivare il loro coraggio ma rispettarne la paura. Difendere le donne e pretendere i loro diritti fondamentali era un’attività molto rischiosa per la cliente e per l’avvocata. Si potevano seguire percorsi legali diversi per cercare di ottenere giustizia, a seconda delle situazioni e dei rischi.

Processo Penale. Denunciare penalmente l’uomo violento sotto la legge Evaw, era una strada piena di ostacoli.        Si prevedeva la condanna dell’aggressore, (che spesso scontava pene molto brevi perché era in grado di minacciare i giudici o corrompere le autorità) e diventava quindi più probabile la ritorsione violenta da parte dell’accusato e della sua famiglia.

Il processo civile alla Family Court. Non erano previste condanne né pene né denunce, il colpevole rimaneva impunito, ma si poteva ottenere almeno il divorzio, un prezioso pezzo di carta che sanciva la libertà della donna dal marito violento.

Mediazione Familiare. Era sempre il primo gradino, entrare nella famiglia, discutere, ottenere rassicurazioni e impegni positivi. Mettere sotto sorveglianza. Raramente efficace.

La Shura, Corte Tradizionale, Assemblea degli anziani e dei religiosi. Nella shura è in vigore la sharìa e le decisioni raramente sono a favore della donna. Ma, a volte, era l’unica strada e poteva sancire una separazione dal marito violento.

Chi ancora combatte per la giustizia delle donne

Nell’oscuro vuoto nel quale il paese è precipitato, dove la giustizia per le donne si è sbriciolata e se ne nega perfino l’esistenza, ci sono donne che mantengono vive piccole luci di protezione.

Organizzazioni di donne coraggiose come RAWA, HAWCA, OPAWC, continuano a cercare di difendere le donne, schivando, come possono, i divieti e le sanzioni talebane. Scuole segrete, dove ancora si parla di diritti e di giustizia per le donne, dove si trovano conforto e aiuto, piccoli appartamenti nascosti e sicuri dove le donne a rischio possono rifugiarsi, dopo la chiusura degli shelter, e cercare di vivere una vita protetta, nell’ombra.  È proprio nell’ombra, dove le donne si nascondono, che si coltiva la speranza.

La vita in un paese – prigione

Per più di due decenni l’Afghanistan ha detenuto un primato drammatico: la maggior parte dei rifugiati registrati dalle Nazioni Unite proveniva da qui, da questo territorio stretto tra vicini ingombranti, ecologicamente fragile, culturalmente ibrido, ma percepito come immobile.

Il “primato” è passato poi ai siriani piegati dalla guerra civile, ma gli afghani non hanno mai smesso di emigrare, come testimoniano alcuni rapporti del 2020, il rapporto dell’Unhcr “Global Trends” e le recenti dichiarazioni dell’Alto commissario dell’ONU per i Rifugiati, Filippo Grandi, secondo il quale “la crisi da migrazioni forzate dall’Afghanistan è una delle più ampie e delle più prolungate nei sette decenni di storia dell’Unhcr”.  Ancora oggi circa 2,7 milioni di rifugiati afghani vivono fuori dal Paese, mentre altri 2,6 milioni sono sfollati interni, costretti a lasciare le proprie case per insicurezza, calamità naturali, povertà o per scelta. L’Afghanistan rimane il secondo Paese al mondo per numero di rifugiati.

Risale al 2012 la stipula di un accordo tripartito tra Afghanistan, Pakistan e Iran, mediato dalle Nazioni Unite, con cui l’ONU immaginava di favorire il rimpatrio volontario della maggior parte degli afghani. Grazie all’ONU circa 5,3 milioni di persone sono rimpatriate dal 2001. Ma molte altre rimangono all’estero, a dispetto del “Solutions Strategy for Afghan Refugees”, l’accordo tripartito. Il Joint-Way Forward, l’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato a Bruxelles nell’ottobre 2016 prevede il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venga rigettata dai Paesi membri.  l’Europa ha condizionato lo stanziamento di milioni di euro in aiuti allo sviluppo all’accettazione dei rimpatri. E ha trovato un alleato nella Turchia, che nel 2018 ha cominciato a condurre veri e propri rimpatri di massa di afghani, senza chiedere l’assistenza dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Secondo un rapporto pubblicato nel novembre 2019 dall’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), sarebbero 19.390 gli afghani rispediti indietro dai Paesi dell’Unione europea tra il 2015 e il 2017, di cui circa la metà forzatamente, mentre l’Eurostat indica che nel 2019 sarebbero stati notificati a cittadini afghani 26.900 ordini di lasciare l’Unione europea. Dal 1° gennaio a metà aprile 2019, sarebbero invece 4.219 gli afghani rimpatriati forzatamente dall’Unione europea e dalla Turchia (la maggior parte – 3.560 – dalla Turchia).

Per quanto riguarda la situazione dopo la presa del potere dei talebani, nel report di maggio 2023 l’International Rescue Committee ha accusato i leader dell’Unione Europea di “sconcertante negligenza” nei confronti dei rifugiati afghani, molti dei quali rimangono intrappolati in condizioni “simili a quelle di una prigione” sulle isole greche. “Gli afghani rappresentano ora la terza più grande popolazione di rifugiati a livello mondiale e le esigenze di reinsediamento dei rifugiati afghani nell’area dell’UE sono rapidamente aumentate, quasi triplicando di anno in anno, passando da 96.000 nel 2022 a oltre 273.000 nel 2023”. Nei primi mesi c’è stato un forte impegno da parte dei paesi dell’UE per aiutare gli afgani a rischio ad accedere a percorsi di protezione verso l’Europa, ma oggi, segnala IRC, questi impegni “stanno venendo meno, con 271 rifugiati afgani reinsediati nell’UE lo scorso anno, che soddisfano meno dello 0,1% del fabbisogno attuale”.

In Afghanistan però anche le città sono insicure. Inoltre il sistema-istituzionale è incapace di soddisfare i bisogni degli sfollati interni, che crescono ogni anno, anche a causa dei cambiamenti climatici, e non è in grado di assorbire la spinta demografica e sociale di quanti rientrano dall’estero. Nel solo mese di marzo 2020, sono stati 16.000 i migranti afghani senza documenti rientrati nel Paese. Da gennaio a inizio settembre 2020, sono stati più di 376.000 gli afghani rientrati da Iran e Pakistan. In un solo mese, dal 22 agosto al 21 settembre, sarebbero 81.000 quelli rientrati dall’Iran. Sono parte di quell’immenso bacino di lavoratori informali che non potranno più sostenere le famiglie. La storia delle migrazioni afghane insegna che gli afghani hanno alle spalle una lunga storia di migrazioni, interne, regionali, transnazionali, che precedono il conflitto. La mobilità è sempre stata parte del panorama sociale e culturale afghano. Guerra, insicurezza e povertà non sono dunque le uniche matrici delle migrazioni: la guerra ha intensificato e reso più drammatico un processo già in atto.

In questo contesto già difficile, la mobilità delle donne è diventata ancora più limitata, in particolare nelle aree più conservatrici, come nelle province di Kandahar, Khost e Helmand dove MSF ha condotto alcune interviste  che testimoniano l’estrema difficoltà di spostamento per donne e ragazze.

Ma anche a Kabul la situazione non è migliore: alcuni operatori di MSF hanno riferito che alle donne che viaggiano da sole senza un mahram (uomo con il quale una donna ha un legame familiare) nei taxi condivisi a volte viene chiesto di sedersi sul sedile posteriore dell’auto e coprire il costo di tutti e tre i posti poiché nessun altro è autorizzato a condividere il taxi con loro. Ciò aggiunge un ulteriore onere finanziario e può rendere il viaggio di una donna in una struttura sanitaria due o anche tre volte più costoso di quello di un uomo. Ciò influisce sulla capacità delle donne di raggiungere un ospedale (incidendo sull’accesso a un’assistenza sanitaria primaria e secondaria adeguata e tempestiva), un posto di lavoro o qualsiasi altro luogo: è un problema che MSF aveva già segnalato nel 2014 ma che da allora è ulteriormente peggiorato.

Il divieto di accesso delle donne e delle ragazze agli hammam (bagni pubblici), ai parchi e alle palestre, insieme alle politiche del maharam e dell’hijab, ha creato un ambiente in cui è difficile per le donne e le ragazze lasciare le proprie case. Nelle parole di un’ex studentessa, “le donne sono in carcere, non possono lavorare, studiare o uscire. Siamo depresse”, si legge nel report rilasciato nel giugno 2023 dall’Human Rights Council dell’ONU che, inoltre, riferisce che i gruppi di più di tre o quattro donne vengono regolarmente dispersi dai funzionari, sostenendo la necessità di prevenire le proteste. Un intervistato ha spiegato che “anche se un piccolo gruppo di ragazze si siede insieme, i talebani chiedono cosa stanno facendo”.

In bilico tra conflitti e crisi climatica

L’Afghanistan sta affrontando una crisi umanitaria senza precedenti; la convergenza dei conflitti e dei rischi climatici aggrava ulteriormente l’insicurezza alimentare ed economica della popolazione. Da un lato il paese subisce da più di 40 anni un conflitto armato le cui responsabilità sono segnatamente delle potenze regionali e mondiali che su quel terreno si confrontano per estendere la propria influenza su un territorio di estrema rilevanza geostrategica. Dall’altro, la situazione è aggravata dagli effetti del climate change che mettono in luce una ulteriore profonda ingiustizia: pur avendo contribuito al cambiamento climatico globale in maniera ridotta – un afghano produce mediamente 0,2 ton di emissioni di anidride carbonica all’anno, rispetto alle quasi 16 dell’americano medio – l’Afghanistan registra un aumento delle temperature superiore alla media globale.

Il paese è annoverato tra i più vulnerabili al mondo ai cambiamenti climatici a causa della combinazione di una bassa capacità di adattamento, ovvero di prevenire o ridurre al minimo i danni ambientali, e di una elevata esposizione agli impatti climatici. Solo nel 2022 sono state colpite 228 mila persone da fenomeni climatici violenti e improvvisi. Ad essere più esposti a tali rischi sono le donne, i bambini e le comunità rurali che vivono nei territori più remoti.

Le conseguenze sono l’accelerazione della crisi sociale con ulteriori violenze, fanatismi, guerre per l’accaparramento della terra, dell’acqua, delle risorse oltre a migrazioni di massa: da oltre 40 anni milioni di cittadini afghani sono in fuga.

Quasi 4 milioni di sfollati interni vivono in campi profughi, privi dei più elementari servizi. Recenti analisi ipotizzano che altri 5 milioni di persone potrebbero essere costrette a migrare dall’Afghanistan a causa dei soli disastri climatici entro il 2050.

Alluvioni e frane sono un pericolo naturale frequente in Afghanistan. I fenomeni di pioggia intensa sono aumentati tra il 10 e il 25% nel corso degli ultimi 30 anni. Allo stesso tempo l’Afghanistan deve misurarsi con una delle più gravi siccità che abbia mai visto. Secondo l’ONU questo rischia di trasformarsi, da evento episodico, a evento annuale entro il 2030. I principali sistemi di irrigazione dipendono dalla quantità di neve che cade l’inverno precedente sulle montagne dell’Hindu Kush o sugli altipiani centrali. A lungo termine, la perdita dei ghiacciai potrebbe compromettere radicalmente l’approvvigionamento idrico e idroelettrico della regione. Il loro restringimento, fenomeno comune in tutto il globo, e l’aumento delle temperature hanno conseguenze molto più gravi per l’Afghanistan che altrove, con la desertificazione di oltre il 75% della superficie totale del paese. Ciò significa che meno di un terzo della popolazione ha accesso ad acqua potabile pulita; migliaia di bambini muoiono ogni anno a causa della contaminazione e delle scarse condizioni igienico-sanitarie.

La distribuzione idrica è inoltre inficiata da cattiva gestione e carenze infrastrutturali, tenendo in considerazione che solo una piccola percentuale degli investimenti in Afghanistan sono stati indirizzati al settore durante l’occupazione NATO. Allo stesso tempo, i bombardamenti e gli attacchi dei talebani agli impianti per terrorizzare la popolazione hanno distrutto la rete di irrigazione costruita dai contadini secondo metodi antichi.

Le conseguenze sociali di questa situazione sono ancor più gravi se si considera che l’80% della popolazione dipende dall’agricoltura per la sussistenza e la coltivazione del grano è molto suscettibile alla carenza d’acqua. A queste colture si sostituiscono i campi di papaveri da oppio, molto più resistenti alla siccità e importante canale di finanziamento dei talebani.

Oltre alle cause ambientali, solo nel 2021, migliaia di agricoltori e coltivatori non sono stati in grado di piantare i raccolti annuali a causa dei combattimenti; la metà di quelli coltivati è andato perso e il prezzo del grano è aumentato del 25%.

L’interazione tra cambiamento climatico, catastrofe umanitaria e assenza di governo dei fenomeni spinge le persone ad arruolarsi nelle file delle milizie talebane e verso la radicalizzazione in una spirale sempre più devastante per il paese.

La discriminazione nei confronti di donne e ragazze  acuisce la loro vulnerabilità: i contadini ridotti alla miseria vendono il bestiame e cedono le figlie ancora bambine in sposa in cambio di denaro per poter sfamare il resto della famiglia o per ripagare i debiti. La siccità rende infertili i terreni e le inondazioni spazzano via case e beni e riducono la produttività agricola, portando gli uomini a migrare verso le aree urbane in cerca di lavoro. Le donne devono prendersi cura della famiglia ma sono esposte a maggiori rischi di violenza domestica, molestie sessuali, tratta e matrimoni precoci e forzati, oltre a subire numerose limitazioni alla loro libertà, dagli spostamenti alla possibilità di istruzione e di lavoro.

Rappresentanza? Partecipazione? Non c’è posto per le donne

La partecipazione delle donne all’attività politica attiva è un diritto conquistato dalle donne afghane nei lunghi anni di lotta e, sebbene tra mille difficoltà, fino all’agosto 2021 le donne erano presenti nelle istituzioni afghane. Prima dell’agosto 2021, le donne costituivano il 27% dei membri nella Camera Bassa del Parlamento, il 22% nella Camera Alta e il 30% nella pubblica amministrazione, e ricoprivano ruoli chiave nel governo, nelle commissioni indipendenti e nel sistema giudiziario.

La presenza femminile in queste istituzioni non significava automaticamente l’appartenenza di queste donne a formazioni democratiche, molte di esse erano infatti legate ai gruppi fondamentalisti, ai vari signori della guerra e agli stessi talibani (così come la componente maschile del governo e del parlamento nei 20 anni di occupazione del paese da parte delle forze USA/NATO). Ciò non ha impedito al viceministro degli Affari esteri ad interim di annunciare, il 31 agosto 2021, che nessuna donna avrebbe occupato posizioni dirigenziali di vertice in un governo talebano. Le donne sono ora totalmente escluse dalla vita politica e pubblica in Afghanistan. Non c’è una sola donna che ricopra cariche pubbliche o politiche, e un numero limitato rimane nella pubblica amministrazione.

Il 18 settembre 2021, gli uffici del Ministero per gli affari femminili sono stati convertiti negli uffici del Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, noto per il suo famigerato record di soppressione dei diritti delle donne. L’abolizione degli organi legislativi e del Ministero per gli affari femminili ha eliminato la rappresentanza delle donne e il loro accesso al processo decisionale, e di fatto il loro diritto alla partecipazione politica.

Contestualmente all’eliminazione della rappresentanza politica anche la partecipazione alla vita politica e sociale e duramente repressa. Le donne hanno partecipato all’assemblea di emergenza del 2002 (Loya Jirga), hanno svolto un ruolo attivo nella Loya Jirga costituzionale del 2003 e hanno partecipato come elettori e candidate alle successive elezioni presidenziali e parlamentari. Le donne hanno rappresentato oltre il 30 per cento dei votanti tra il 2004 e il 2019. Oggi sono escluse da ogni forma di partecipazione alla vita politica e pubblica.

Dall’agosto 2021, le donne hanno guidato manifestazioni pubbliche pacifiche rivendicando il diritto all’istruzione, al lavoro, alla partecipazione alla vita pubblica e alla libertà di movimento e di espressione. Queste proteste sono state duramente represse con intimidazioni, arresti, detenzioni arbitrarie. Gli esperti dell’Human Rights Council dell’ONU, nel report del giugno 2023, hanno ricevuto numerosi rapporti credibili di ufficiali talebani che picchiano brutalmente, arrestano arbitrariamente e detengono donne manifestanti, molte delle quali sono state successivamente rilasciate a patto che cessassero il loro attivismo e rimanessero in silenzio sul loro trattamento. Le vittime riferiscono di aver subito violenza di genere, inclusa violenza sessuale, spesso assimilabile alla tortura, da parte di ufficiali talebani che cercavano informazioni sugli organizzatori della manifestazione.