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Autore: Patrizia Fabbri

Sulla pelle degli afghani si disputa un nuovo “grande gioco”, al ribasso

Una piccola mossa diversiva sullo scacchiere internazionale della grande partita afghana e l’esistenza insignificante di milioni di donne e bambini precipita in un baratro. “Quando scende la notte, tutti teniamo gli occhi fissi sulla porta, nella speranza che magari qualcuno ci porti qualcosa da mangiare”, racconta Fatima, mamma di tre figli che non riesce più a sfamare, a un’attivista di una Ong locale che a sua volta ha perso il lavoro a causa del decreto emesso dai Talebani a fine dicembre in cui si vieta alle donne di svolgere anche questo tipo di attività.

La nostra fonte ci racconta poi la storia di una collega, Sanam, impiegata in un’altra Ong locale, che come lei ha perso il lavoro: il marito è disoccupato e tossicodipendente, lei ha terminato con grande fatica i suoi studi e questo le ha permesso di mantenere i suoi tre figli (Ali, Zia e Hamad) che sono ancora piccoli e vanno a scuola. “Dopo la proibizione del lavoro femminile nelle istituzioni non governative, non abbiamo niente da mangiare anche per un giorno intero -è il racconto di Sanam-. Io ho incubi la notte e talvolta parlo da sola. Mi sento molto depressa e appena chiudo gli occhi vedo il giorno in cui moriremo tutti di freddo e di fame. Ogni giorno, senza eccezione, mio marito mi picchia perché non ci sono soldi in casa. Se non fosse per i miei figli non ci penserei un momento e metterei fine alla mia vita miserabile. La morte è peggio di questa vita?”.

In Occidente i commentatori di geopolitica discutono sul perché, nel volgere di pochi giorni, i Talebani abbiano deciso di aggiungere altre due assurde proibizioni alla lunga lista che impedisce alle donne afghane di esistere. Il 20 dicembre 2022 il ministero dell’Istruzione ha promulgato il divieto per le studentesse di frequentare le università pubbliche e private, comprese le facoltà in cui la loro presenza era ancora tollerata. Nemmeno le ragazze ormai vicine alla laurea -e che nel volgere di pochi anni avrebbero potuto garantire servizi essenziali alla popolazione- potranno continuare a studiare. Due giorni dopo, il 24 dicembre, è stata la volta del ministro dell’Economia che ha vietato alle donne di lavorare anche nelle Ong (internazionali e soprattutto locali) anche per quei residui interventi volti a contenere la catastrofe umanitaria che travolge il Paese.

Scelte suicide, da parte di uno Stato che rischia seriamente di collassare completamente. Perché queste scelte e perché adesso? Secondo la BBC persian, tra agosto e novembre 2022 le istituzioni internazionali hanno consegnato al governo di Kabul 560 milioni di dollari. Per le Nazioni Unite i Talebani hanno cercato sempre più di indirizzare queste risorse verso uomini a loro fedeli. Così, mentre i funzionari pubblici continuano a non essere pagati (benché il loro numero sia molto ridotto e l’amministrazione sia quasi inesistente) i soldi sono stati utilizzati per finanziare la sicurezza (ovvero le milizie talebane, unica opportunità di lavoro per uomini ridotti alla fame) e per risarcire le famiglie degli attentatori suicidi. Alla popolazione neanche le briciole. Ma molti più posti di blocco lungo le strade, dove ormai le donne non si vedono più.

A fine novembre 2022 si è riunito a Ginevra il consiglio di amministrazione del Fondo fiduciario per l’Afghanistan (Afghan fund) per discutere dell’impiego di 3,5 miliardi di dollari (su un totale di 7,1 miliardi di riserve estere di Kabul congelate dopo la presa del potere dei Talebani) che potrebbero essere sbloccati per coprire i pagamenti del debito afghano alle istituzioni finanziarie internazionali. Oltre che per pagare le importazioni di energia, la stampa dei passaporti e altri servizi, stabilizzando inoltre la valuta locale. Anche se, secondo la Banca mondiale, la valuta locale si starebbe già stabilizzando grazie ad altre entrate dei Talebani e questo intervento non sarebbe necessario.

Tra i quattro fiduciari del Fondo, oltre all’ambasciatore statunitense in Svizzera e a una funzionaria del ministero degli Esteri elvetico, compaiono un ex governatore della Banca centrale afghana e un accademico statunitense che fa parte del Consiglio supremo dell’istituto. Vale la pena ricordare che durante gli anni dell’occupazione occidentale il sistema finanziario afghano si è rivelato estremamente permeabile alla corruzione.

L’episodio più eclatante è stato il fallimento della Kabul bank, fondata nel 2004 e coinvolta sei anni dopo in uno scandalo epocale: i signori della guerra al potere, sostenuti dalla Nato, hanno fatto sparire quasi un miliardo di dollari. L’indagine giudiziaria che ne è seguita ha le tinte fosche di un thriller, come testimonia il documentario “Inside the billion dollar Kabul Bank crash” di Al Jazeera. “Il disastro bancario ha colpito i risparmi di molte famiglie afgane e ha lasciato un’eredità che ha contribuito agli eventi in Afghanistan a distanza di anni”, denuncia l’emittente. Che ben documenta, grazie a WikiLeaks, anche le responsabilità degli Stati Uniti nel coprire i principali responsabili, per i loro strettissimi legami con il governo afghano allora in carica, così da evitare che lo scandalo compromettesse totalmente la credibilità del sistema politico-finanziario a tutela occidentale.

Le trattative in corso a Ginevra mostrano come, a fine 2022, i rapporti tra Washington e Kabul si stiano distendendo. Il ministro della Difesa afghano ha cavalcato questa apertura, recandosi in visita negli Emirati Arabi, dove ha incontrato il 6 dicembre scorso il primo ministro Mohammed bin Rashid Al Maktoum per discutere di affari e della possibilità di un governo “più inclusivo”. Una prospettiva caldeggiata dagli Usa e da parecchi governi occidentali, che vorrebbero poter superare il mancato riconoscimento diplomatico del regime che gli stessi hanno aiutato a reinsediarsi a Kabul con la firma degli accordi di Doha. L’obiettivo finale sembra essere quello di contrastare gli ottimi affari che i loro concorrenti internazionali stanno negoziando con i Talebani. Il 7 gennaio 2023 la Cina ha firmato un contratto della durata di 25 anni per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio intorno al fiume Amu nel Nord dell’Afghanistan: un investimento da 540 milioni di dollari nei primi tre anni. A questo si aggiungano altre trattative commerciali in corso tra i Talebani e la Russia, l’Iran, la Turchia, il Pakistan, l’Arabia Saudita, potenze regionali in concorrenza con l’Occidente.

Il rischio di venire tagliati fuori da ricchi affari ammorbidisce l’intransigenza di facciata dei governi europei e di quello statunitense. Questi ultimi devono fare un minimo i conti con la propria opinione pubblica, rispetto alle violazioni dei diritti umani (con una particolare attenzione alla condizione femminile) da parte dei talebani: per questo motivo non sono nelle condizioni di riconoscere apertamente il governo talebano senza prima ricevere segnali di ravvedimento sui provvedimenti contro le donne e apertamente contrari al diritto, adottati dall’estate 2021 in poi.

In questo terribile gioco al ribasso, le fazioni più radicali dei Talebani puntano sulla possibilità di rafforzare il proprio peso all’interno delle diverse correnti del loro stesso governo. Così mentre il loro ministro della Difesa a Dubai discute della possibilità di un governo “inclusivo” a Kabul vengono promulgati nuovi editti a spese delle donne. “Un governo ‘inclusivo’ sarebbe una catastrofe -ci dicono le attiviste di Rawa (l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan)-. Significherebbe includere esponenti del passato regime, fondamentalisti e misogini quanto i Talebani. E proprio in quanto tali disposti a condividere con loro il potere. E non sarebbe un vantaggio per le donne afghane nemmeno se tra loro sedessero anche esponenti femminili, legate a quelle famiglie e a quei partiti: la loro presenza servirebbe solo a legittimare il sistema vigente, senza portare alcuna differenza sostanziale.”

Nelle cancellerie occidentali i principi dell’autodeterminazione e della democrazia non trovano applicazione quando si tratta di definire l’assetto politico di un Paese come l’Afghanistan. Prospettare come soluzione un “governo inclusivo”, senza domandarsi come questo possa definirsi rappresentativo della volontà della maggioranza della popolazione, significa proseguire sulla linea di condotta che ha consentito il ritorno dei Talebani. Significa negare alle organizzazioni anti-fondamentaliste, in particolare a quelle che sono espressione delle donne, come Rawa, la possibilità di far sentire la propria voce. “Il suo nome è Fatima, ma viene chiamata mamma-di-Zahir, perché in Afghanistan non è comune per una donna mantenere il proprio nome, dopo la nascita di un figlio maschio. Fatima ha tre bambini: Zahir, il più piccolo, Samia (15 anni) e Halima (nove). Sette anni fa Fatima ha perso suo marito in un incidente stradale e per tutto questo tempo si è guadagnata da vivere come ricamatrice -ci racconta un’attivista afghana-. La sua unica speranza erano le figlie, che ha sempre mandato a scuola in modo che un giorno potessero proseguire gli studi e trovare un buon lavoro”.

Ma con il ritorno dei Talebani, le porte delle scuole si sono chiuse per le ragazze e l’unica speranza di Fatima si è spenta: le sue figlie non possono più studiare, inoltre con la miseria e la disoccupazione che ha colpito il Paese, nessuno consegna più qualcosa da ricamare a Fatima. Oggi la donna e i suoi bambini vivono in una piccola stanza umida, senza bagno né cucina. Passano giorni e notti interi sopportando i morsi della fame; qualche volta i vicini offrono loro un po’ del proprio cibo.

Attraverso il racconto dell’attivista è possibile ascoltare l’eco terribile della parole di Fatima: “Quando scende la notte, tutti teniamo gli occhi fissi sulla porta, nella speranza che qualcuno ci porti qualcosa da mangiare. A vedere i miei figli che tremano, esausti per la fame e il freddo, faccio esperienza della morte più e più volte, ogni momento. C’è un corso clandestino di alfabetizzazione vicino casa mia. Vado a seguire questo corso con le mie figlie per due ore al giorno. Quando l’insegnante ha detto a Samia e Halima di non venire più, perché loro erano già state studentesse e non avevano bisogno di imparare a leggere e scrivere, ho spiegato che noi venivamo lì per riscaldarci almeno due ore al giorno. Io vedo i miei figli morire ogni secondo e vorrei ogni secondo non essere mai nata”.

Pubblicato su Altraeconomia n. 256

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Parliamo di donne in Afghanistan con Reha Nawin e Silvia Ricchieri

Podcast realizzati dall’Associazione Orlando di Bologna dedicati alla situazione delle donne in Afghanistan che dopo il ritorno dei talebani nell’agosto 2021 quei pochi diritti faticosamente e lentamente conquistati sono stati cancellati.

L’associazione Orlando ne parla in questo podcast con Reha Nawin, sociologa afghana e attivista per i diritti umani ora rifugiata in Italia, e con Silvia Ricchieri, cooperante di COSPE, una Ong dal 2002 attiva in Afghanistan e in Italia in progetti a sostegno delle donne afghane.

Parliamo di donne in Afghanistan con Sapeda e Cristina Rossi

Podcast realizzati dall’Associazione Orlando di Bologna dedicati alla situazione delle donne in Afghanistan che dopo il ritorno dei talebani nell’agosto 2021 quei pochi diritti faticosamente e lentamente conquistati sono stati cancellati.

L’associazione Orlando ne parla in questo podcast con Sapeda, studentessa e attivista afghana ora rifugiata in Italia, e con Cristina Rossi, attivista di CISDA, associazione da quasi vent’anni attiva in Afghanistan e in Italia a sostegno delle donne afghane.

Stop Border Violence

La rete di Coalizione euro-afghana sostiene la campagna Stop Border Violence.

Cisda ha deciso di rispondere all’appello delle forze laiche e democratiche  afghane – RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan) e a Hambastagi (Solidarity Party of Afghanistan) e di  creare una alleanza tra queste e le Associazioni e le Reti Europee che, pur agendo in ambiti specifici, quali ad esempio il disarmo, pace e antimilitarismo, eguaglianza di genere, questione migratoria, fuoriuscita dalla Nato, individuino terreni comuni di azione per promuovere una reale democrazia sia in Afghanistan, sia in Italia e in Europa.

Essere parte attiva della rete di Coalizione euro-afghana significa anche agire in un’ottica di sostegno reciproco per mandare a buon fine le campagne e le azioni promosse o adottate dalla coalizione.

Stop Border Violence è un’iniziativa di cittadinanza europea (obiettivo, un milione di firme) per costringere la Commissione Europea a garantire e applicare a tutte le persone, comprese coloro che sono in ingresso e in transito in Europa, quanto previsto nell’art. 4 della carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea contro la tortura.

Aggiornamento importante: L’iniziativa è stata registrata dalla Commissione Europea il 12 gennaio 2023. Con questa iniziativa, noi cittadini europei rivendichiamo il nostro diritto ad essere governati secondo civiltà e legalità. La raccolta delle firme inizierà il 10 luglio 2023. Si invita alla più ampia partecipazione e diffusione in tutta l’Unione Europea.  Leggi il comunicato.

Bibi Khadija

Ho 49 anni, tantissimi qui. La guerra civile, la furia dei mujahiddin, signori della guerra, che ancora ci governano, è stata un incubo di quattro anni. Si è portata via mio marito e mio figlio maggiore. Io e mia figlia viviamo con la famiglia di mio cognato, siamo in 12. Non c’è giorno che non mi gridino addosso : ‘sei tu il problema, da anni ti diamo da mangiare gratis!’. ‘Certo, dico io, avete ragione. Io voglio lavorare e guadagnare il pane per me e per mia figlia.’ Allora loro urlano ancora di più, uno scandalo, mi dicono che sono una puttana, mi picchiano, tutti, e mi chiudono in casa. Ma io riesco lo stesso a procurarmi qualcosa, vado a fare le pulizie dai vicini, di nascosto, così quando non ci danno da mangiare, posso comprare qualcosa per noi. Difficile trovare un motivo per continuare. Forse è il sogno, ci penso sempre, mi dà forza, prima o poi ce la farò. Vorrei poter vivere da sola con mia figlia e lavorare insieme per decidere ogni giorno la nostra vita, come vogliamo, io e lei. Un sogno. Ma sono pronta a tutto per realizzarlo.

Aggiornamenti

Il sostegno di Lucia e in seguito di Elisa, che la sostiene da anni, le cambia la vita, le permette di uscire dalla trappola del ricatto familiare. L’umiliazione più grande e quotidiana, chiedere cibo, vestiti, medicine sempre alla famiglia del cognato e subire i loro ricatti, finisce all’improvviso. Un grande sospiro di sollievo, potersi comprare quello di cui si ha bisogno. Cerca di convincere i parenti a permettere che lavori fuori casa.
Sì, le dicono, magnanimi, lavora pure ma lo stipendio lo dai a noi. La prospettiva non le piace e continua a combattere e a lavorare. Le assistenti di Hawca l’aiutano a tenersi i soldi. Ma trovano finalmente la soluzione radicale per la sua vita. Bibi e la figlia vanno a vivere in un orfanotrofio conosciuto da Hawca.
Lì stanno in pace, Bibi lavora come cuoca per la struttura e la figlia può studiare. È davvero un grande successo. Ma, purtroppo, non dura. Per motivi economici questo orfanotrofio la licenzia.
Va a vivere con altre quattro famiglie in una stanza a casa di un parente. Non riesce a trovare un altro lavoro. Ha un vicino ricco e generoso che l’aiuta nelle spese di tutti i giorni ma senza l’aiuto di Elisa non ce la farebbe.

Aggiornamento gennaio 2023

Khadija manda tutto il suo affetto ai suoi sponsor e spera che continueranno ad aiutarla.

“Noi poveri, dice, possiamo arrangiarci nelle altre stagioni ma, quando viene l’inverno, dobbiamo fronteggiare enormi difficoltà. Non possiamo comprare vestiti caldi per noi e per i bambini, non possiamo scaldare le nostre stanze e i bagni, non possiamo comprare cibo sano e per questo ci ammaliamo molto facilmente. I materiali combustibili per scaldarci sono diventati molto cari. Negli anni scorsi abbiamo potuto comprare del carbone, ma adesso il carbone è salito molto di prezzo e non possiamo più permettercelo.” Soprattutto ora, Khadija ha molto bisogno di sostegno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

 

Basera, Bamyan

Mi chiamo Basera e ho 14 anni. Vivo nella provincia di Bamyan, nel centro dell’Afghanistan. Tutto è cominciato dalla scuola. Non perché io ci andassi, no. Non c’era ancora, la stavano costruendo, non lontano da casa mia. Chissà se mio padre mi avrebbe permesso di frequentarla? Intanto era solo un mucchio di pietre. Ma c’era movimento, gente che veniva da fuori, per portare i materiali da costruzione.

Lui passava col camion, ogni giorno. Portava le pietre, rotolavano giù, con quel suono di cascata, la polvere entrava in casa. Un pomeriggio, il suo camion è andato a sbattere contro un albero. Mio padre lo ha tirato fuori dalla macchina, non si era fatto niente purtroppo. Intorno a quell’albero ha girato la mia vita, come girano i jin, gli spiriti.
Dalla parte sbagliata. Mio padre ha accolto in casa Sarvar, così si chiama, e gli ha offerto il tè. L’ho preparato io e gliel’ho portato. Mi ha guardato, in un modo che non avevo mai visto. Non mi piaceva. Il futuro, da noi, ti arriva addosso e non puoi fare niente, ma lo senti arrivare.
Mi tremavano le mani e mi sono vergognata perché le tazze tintinnavano. Lui si è messo a ridere, anche mio padre. Mi sono coperta con il velo e sono scappata via. Da quel giorno è venuto spesso a casa, quando passava col camion. Mi cercava con gli occhi, immobile, come il gatto col topo. La mia famiglia si è spostata in un altro villaggio, a Elaq, è venuto anche lì. Mio padre era contento, Sarvar gli piaceva.
Ma quel giorno la mia famiglia non c’era. Ero sola, lavavo le pentole. Lui ha capito, ha sorriso. È entrato in casa, da padrone. Non sapevo cosa fare, le gambe di pietra. L’acqua saponata per terra scorreva via. C’era caldo, silenzio. Solo le mosche si sentivano.
Non sono riuscita neanche a gridare. Senza suoni poteva non esistere.

Sono scappata nella stalla quando son tornati i miei. Mia madre mi ha sgridato perché non avevo finito di lavare le pentole. Non ho detto niente. Ancora silenzio. Una paura basta. Quando mio padre mi guardava scappavo via. Ma lo sapevo, ogni mattina, quando mi svegliavo. Il bambino nella pancia non poteva nascondersi ancora per molto.
Mia madre ha capito. Ha urlato parole cattive. La vergogna della famiglia. Non si può affrontarla quella. Mio padre non doveva sapere.
Avremmo risolto da sole la faccenda. Da sole? Come? Non mi ha risposto. Silenzio, di nuovo.

Mi ha svegliato, a notte fonda, mi ha portato nella stalla. Mi ha tagliato il ventre con un coltello per togliere il bambino. Ha chiesto aiuto a mio fratello. Lui non voleva.

Poi gliel’ho chiesto io e allora è venuto con ago e filo e mi ha ricucito la ferita. Ma qualcosa è andato storto, continuavo a perdere sangue, anche quello non poteva nascondersi. Il dolore di pietre nella pancia. Mio padre ha saputo. Mi hanno portato all’ospedale e mi hanno curato. Lì si poteva parlare.
Intanto mio padre ha trovato Sarvar. Lo hanno arrestato, volevano arrestare anche mia madre. Mio fratello è andato in prigione al suo posto. Ora sono qui, al sicuro. Sto meglio. Ma non posso starci per sempre. Vorrei tornare a casa ma ho paura che mio padre mi uccida. Vorrei vivere e vorrei tanto andare a scuola.

Aggiornamenti precedenti

Basera rimane a lungo in ospedale e poi nella Casa Protetta di Hawca. Il padre la vuole a casa ma Basera ha paura di essere uccisa. In Afghanistan la vergogna dello stupro ricade spesso sulla vittima, delitto d’onore. Con il lungo e paziente lavoro di Hawca, la famiglia capisce il male che le ha fatto.
Basera accetta di tornare a vivere con loro, sotto lo stretto controllo delle assistenti sociali di Hawca. Ciro le è vicino con il suo affetto e il suo aiuto economico. La sua vita continua a migliorare. I problemi fisici sono ormai dietro le spalle ma deve essere ancora seguita dallo psicologo per il trauma subito.

Arrivano anche Eri e Marco a sostenere la sua vita. È cambiata, è felice della sua vita, è una ragazza allegra, ha ritrovato se stessa. Quando i problemi di sicurezza e le difficoltà della vita l’angosciano, ritrova la forza pensando a chi sta peggio di lei e non ha nessun aiuto.
Segue la scuola con profitto, studia molto, impara l’inglese e, oltre a questo, cuce vestiti per le persone del suo quartiere, sogna di aprire un negozio. È sempre più brava ed è fermamente decisa a diventare una grande stilista. Pensa ogni giorno ai suoi sponsor e prega per il loro successo.

 Aggiornamento gennaio 2023

Basera è molto felice di avere degli sponsor così amorevoli vicino a lei. Ecco cosa ci dice: “Il vostro sostegno mi ha dato speranza nella vita e fiducia in me stessa. Se voi non foste entrati nella mia vita, davvero non so dove sarei e cosa mi sarebbe successo. Adesso hanno chiuso per noi tutte le porte: istruzione, lavoro, svago, parchi, scuole, palestre, parrucchieri, viaggi… ma noi stiamo combattendo per sopravvivere e per difendere i nostri diritti. Non farsi distruggere dipende da noi.” Basera insegna, tiene corsi di cucito e sartoria (da sempre vorrebbe diventare una stilista famosa) per donne e ragazze. È molto felice del suo lavoro: “Il denaro che mi mandate lo uso per comprare materiale per i miei corsi e cibo per la famiglia. Quando poi ho esaurito il denaro per il materiale, allora facciamo pratica con i vecchi vestiti che le ragazze portano. Tagliamo, cuciamo e inventiamo nuovi modelli. Purtroppo anche questa risorsa finisce. Ma non ci scoraggiamo. I miei sogni guardano lontano. Il mio desiderio è di avere un giorno un Centro per le Donne, un posto dove stare insieme e cucire i nostri abiti per poi venderli al mercato e vederli addosso alle altre donne con i colori finalmente liberi di esistere.”

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.