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La vita in un paese – prigione

Pubblicazione: 6 Settembre 2023

Per più di due decenni l’Afghanistan ha detenuto un primato drammatico: la maggior parte dei rifugiati registrati dalle Nazioni Unite proveniva da qui, da questo territorio stretto tra vicini ingombranti, ecologicamente fragile, culturalmente ibrido, ma percepito come immobile.

Il “primato” è passato poi ai siriani piegati dalla guerra civile, ma gli afghani non hanno mai smesso di emigrare, come testimoniano alcuni rapporti del 2020, il rapporto dell’Unhcr “Global Trends” e le recenti dichiarazioni dell’Alto commissario dell’ONU per i Rifugiati, Filippo Grandi, secondo il quale “la crisi da migrazioni forzate dall’Afghanistan è una delle più ampie e delle più prolungate nei sette decenni di storia dell’Unhcr”.  Ancora oggi circa 2,7 milioni di rifugiati afghani vivono fuori dal Paese, mentre altri 2,6 milioni sono sfollati interni, costretti a lasciare le proprie case per insicurezza, calamità naturali, povertà o per scelta. L’Afghanistan rimane il secondo Paese al mondo per numero di rifugiati.

Risale al 2012 la stipula di un accordo tripartito tra Afghanistan, Pakistan e Iran, mediato dalle Nazioni Unite, con cui l’ONU immaginava di favorire il rimpatrio volontario della maggior parte degli afghani. Grazie all’ONU circa 5,3 milioni di persone sono rimpatriate dal 2001. Ma molte altre rimangono all’estero, a dispetto del “Solutions Strategy for Afghan Refugees”, l’accordo tripartito. Il Joint-Way Forward, l’accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul firmato a Bruxelles nell’ottobre 2016 prevede il rimpatrio – anche forzato – di tutti quegli afghani la cui richiesta di asilo venga rigettata dai Paesi membri.  l’Europa ha condizionato lo stanziamento di milioni di euro in aiuti allo sviluppo all’accettazione dei rimpatri. E ha trovato un alleato nella Turchia, che nel 2018 ha cominciato a condurre veri e propri rimpatri di massa di afghani, senza chiedere l’assistenza dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni.

Secondo un rapporto pubblicato nel novembre 2019 dall’Afghanistan Human Rights and Democracy Organization (Ahrdo), sarebbero 19.390 gli afghani rispediti indietro dai Paesi dell’Unione europea tra il 2015 e il 2017, di cui circa la metà forzatamente, mentre l’Eurostat indica che nel 2019 sarebbero stati notificati a cittadini afghani 26.900 ordini di lasciare l’Unione europea. Dal 1° gennaio a metà aprile 2019, sarebbero invece 4.219 gli afghani rimpatriati forzatamente dall’Unione europea e dalla Turchia (la maggior parte – 3.560 – dalla Turchia).

Per quanto riguarda la situazione dopo la presa del potere dei talebani, nel report di maggio 2023 l’International Rescue Committee ha accusato i leader dell’Unione Europea di “sconcertante negligenza” nei confronti dei rifugiati afghani, molti dei quali rimangono intrappolati in condizioni “simili a quelle di una prigione” sulle isole greche. “Gli afghani rappresentano ora la terza più grande popolazione di rifugiati a livello mondiale e le esigenze di reinsediamento dei rifugiati afghani nell’area dell’UE sono rapidamente aumentate, quasi triplicando di anno in anno, passando da 96.000 nel 2022 a oltre 273.000 nel 2023”. Nei primi mesi c’è stato un forte impegno da parte dei paesi dell’UE per aiutare gli afgani a rischio ad accedere a percorsi di protezione verso l’Europa, ma oggi, segnala IRC, questi impegni “stanno venendo meno, con 271 rifugiati afgani reinsediati nell’UE lo scorso anno, che soddisfano meno dello 0,1% del fabbisogno attuale”.

In Afghanistan però anche le città sono insicure. Inoltre il sistema-istituzionale è incapace di soddisfare i bisogni degli sfollati interni, che crescono ogni anno, anche a causa dei cambiamenti climatici, e non è in grado di assorbire la spinta demografica e sociale di quanti rientrano dall’estero. Nel solo mese di marzo 2020, sono stati 16.000 i migranti afghani senza documenti rientrati nel Paese. Da gennaio a inizio settembre 2020, sono stati più di 376.000 gli afghani rientrati da Iran e Pakistan. In un solo mese, dal 22 agosto al 21 settembre, sarebbero 81.000 quelli rientrati dall’Iran. Sono parte di quell’immenso bacino di lavoratori informali che non potranno più sostenere le famiglie. La storia delle migrazioni afghane insegna che gli afghani hanno alle spalle una lunga storia di migrazioni, interne, regionali, transnazionali, che precedono il conflitto. La mobilità è sempre stata parte del panorama sociale e culturale afghano. Guerra, insicurezza e povertà non sono dunque le uniche matrici delle migrazioni: la guerra ha intensificato e reso più drammatico un processo già in atto.

In questo contesto già difficile, la mobilità delle donne è diventata ancora più limitata, in particolare nelle aree più conservatrici, come nelle province di Kandahar, Khost e Helmand dove MSF ha condotto alcune interviste  che testimoniano l’estrema difficoltà di spostamento per donne e ragazze.

Ma anche a Kabul la situazione non è migliore: alcuni operatori di MSF hanno riferito che alle donne che viaggiano da sole senza un mahram (uomo con il quale una donna ha un legame familiare) nei taxi condivisi a volte viene chiesto di sedersi sul sedile posteriore dell’auto e coprire il costo di tutti e tre i posti poiché nessun altro è autorizzato a condividere il taxi con loro. Ciò aggiunge un ulteriore onere finanziario e può rendere il viaggio di una donna in una struttura sanitaria due o anche tre volte più costoso di quello di un uomo. Ciò influisce sulla capacità delle donne di raggiungere un ospedale (incidendo sull’accesso a un’assistenza sanitaria primaria e secondaria adeguata e tempestiva), un posto di lavoro o qualsiasi altro luogo: è un problema che MSF aveva già segnalato nel 2014 ma che da allora è ulteriormente peggiorato.

Il divieto di accesso delle donne e delle ragazze agli hammam (bagni pubblici), ai parchi e alle palestre, insieme alle politiche del maharam e dell’hijab, ha creato un ambiente in cui è difficile per le donne e le ragazze lasciare le proprie case. Nelle parole di un’ex studentessa, “le donne sono in carcere, non possono lavorare, studiare o uscire. Siamo depresse”, si legge nel report rilasciato nel giugno 2023 dall’Human Rights Council dell’ONU che, inoltre, riferisce che i gruppi di più di tre o quattro donne vengono regolarmente dispersi dai funzionari, sostenendo la necessità di prevenire le proteste. Un intervistato ha spiegato che “anche se un piccolo gruppo di ragazze si siede insieme, i talebani chiedono cosa stanno facendo”.

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