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Il CISDA ricorda Meena, la fondatrice di RAWA a trentacinque anni dal suo martirio!

Carissima Meena,

non abbiamo avuto il privilegio di conoscerti di persona perché, quando abbiamo avuto la fortuna di incontrare le nostre sorelle di RAWA, eri già stata assassinata da malvagi fondamentalisti che non volevano che le donne prendessero la parola, decidessero il loro destino, studiassero e fossero consapevoli dei loro diritti, manifestassero nelle strade e chiedessero un futuro migliore per loro e per il loro paese.

In una parola, che si organizzassero nella società per costruirne una nuova e migliore. Le donne organizzate, per questi fondamentalisti, e anche per le cosiddette società capitaliste “moderne”, rappresentano un pericolo; la nostra e la vostra lotta deve essere la stessa, perché solo se siamo unite potremo liberarci.

Meena, sei stata un esempio e un’ispirazione per molte donne e ragazze afgane; non ti hanno dimenticato e, dal momento in cui hai perso la vita, hanno deciso di continuare la tua lotta perché sanno che è l’unico modo per cambiare le cose, per migliorare la società e dare speranza alle donne e a tutto il popolo.

E tu sei stata, e sei, un’ispirazione anche per noi, qui in Italia: il tuo coraggio e la tua determinazione ci hanno dato la forza di stare per molti anni dalla parte di RAWA e del popolo afgano e di lottare per la liberazione delle donne in tutto il mondo.

Sei tra le tante donne che sono state martirizzate per le loro idee e la loro lotta: Rosa Luxembourg, Sakine Cansiz, Leyla Şaylemez, Fidan Doğan e tutte le donne curde che hanno dato la vita per sconfiggere l’ISIS e il fondamentalismo e costruire una nuova società, Marielle Franco, Berta Cáceres, Nadia Murad, Frozan Safi e migliaia di altre, uccise, incarcerate e torturate ogni giorno. Il sistema patriarcale di tutto il mondo teme la nostra lotta e sa bene che, se unite, le donne cambieranno il mondo in meglio.

Cara Meena, ora il tuo paese è di nuovo nelle mani dei talebani brutali e ignoranti, che vogliono mettere a tacere la voce delle donne, ma noi sappiamo che le nostre sorelle di RAWA si opporranno con forza a questo nemico che conoscono molto bene dall’esperienza passata; sappi che noi non ci tireremo indietro, e continueremo a sostenere la loro lotta con tutta la nostra forza.

La resistenza è vita!

Con amore e solidarietà!

Le vostre sorelle del CISDA

Rete Haqqani

La rete Haqqani è un’organizzazione militante islamica sunnita fondata da Jalaluddin Haqqani, che emerse come uno dei principali signori della guerra afghani e comandante degli insorti durante la guerra antisovietica; era un membro della fazione Hezb-e Islami guidata dal famoso comandante dei mujahedin Younis Khalis.

Da Centro Nazionale Antiterrorismo

Jalaluddin in seguito si alleò con i talebani afghani come ministro degli affari tribali e di frontiera di quel gruppo quando i talebani detenevano il potere in Afghanistan tra la metà e la fine degli anni ’90. Era un noto collaboratore di Osama Bin Laden ed è stato riconosciuto come uno dei mentori più vicini a Bin Laden durante gli anni della formazione del fondatore di al-Qaeda nella guerra in Afghanistan degli anni ’80. Sirajuddin Haqqani, il figlio di Jalaluddin, attualmente guida le attività quotidiane del gruppo, insieme a molti dei suoi parenti più stretti.Sirajuddin nell’agosto 2015 è stato nominato vice del nuovo leader talebano Mullah Akhtar Mohammed Mansur, cementando l’alleanza tra gli Haqqani e i talebani.

La rete Haqqani ha sede principalmente nel Waziristan settentrionale, in Pakistan, e conduce operazioni transfrontaliere nell’Afghanistan orientale e a Kabul. Il gruppo è composto principalmente da membri della tribù Zadran.

La rete Haqqani è responsabile di alcuni degli attacchi di più alto profilo della guerra afghana, compreso l’assalto del giugno 2011 all’hotel intercontinentale di Kabul, condotto in collaborazione con i talebani afghani, e due grandi attentati suicidi, nel 2008 e nel 2009, contro l’Ambasciata dell’India a Kabul. Nel settembre 2011, gli Haqqani hanno partecipato a un assalto di un giorno contro i principali obiettivi a Kabul, tra cui l’ambasciata degli Stati Uniti, il quartier generale della Forza internazionale di assistenza alla sicurezza (ISAF), il palazzo presidenziale afghano e il quartier generale della Direzione nazionale della sicurezza afghana. Più di recente, nell’ottobre 2013, le forze di sicurezza afghane hanno intercettato un camion bomba schierato dagli Haqqani contro la Forward Operating Base Goode nella provincia di Paktiya. Il dispositivo, che non è esploso, conteneva circa 61.500 libbre di esplosivo ed era il più grande camion bomba mai costruito.Il gruppo è anche coinvolto in una serie di attività criminali in Afghanistan e Pakistan, tra cui estorsioni, rapimenti a scopo di riscatto e contrabbando.

Il governo degli Stati Uniti nel 2012 ha designato la rete Haqqani come organizzazione terroristica straniera a causa del suo coinvolgimento nell’insurrezione afghana, negli attacchi al personale militare e civile degli Stati Uniti e negli interessi occidentali in Afghanistan, e per i suoi legami con i talebani e al-Qaeda . Oltre a designare il gruppo, i membri chiave sono stati anche designati individualmente. I leader di Haqqani Saidullah Jan, Yahya Haqqani e Muhammad Omar Zadran, così come il capo delle operazioni suicidi Qari Abdul Ra’uf (noto anche come Qari Zakir) e Ibrahim Haqqani, rimangono designati per sanzioni finanziarie o sono nelle liste dei più ricercati degli Stati Uniti. (fonte Centro Nazionale Antiterrorismo).

Dal Ministero della Difesa

La rete si finanzia col narcotraffico, i rapimenti, le estorsioni e le donazioni provenienti dal Golfo Persico. Ha un nucleo di diverse centinaia di fedelissimi, cui si aggiungono fra i 10 e i 15mila combattenti. Opera come una componente semiautonoma del movimento talebano ed è vicina alle posizioni qaediste. Attiva nelle province di Khost, Paktia e Paktika, la rete ha la sua roccaforte a Miramshah ed è un punto di riferimento per i combattenti jihadisti di tutto il mondo. In Waziristan, ha costituito un’amministrazione parallela, che impone la giustizia shariatica, recluta combattenti, riscuote le tasse e garantisce un livello di sicurezza minimo alla popolazione locale.

Jalaluddin Haqqani ne è al tempo stesso l’ispiratore, la guida e il nume tutelare. Si è fatto un nome a inizio anni ’70, lanciando i primi appelli alla guerra santa contro il regime afghano di Mohammed Daoud Khan. Membro della tribù dei Zadran, Jalaluddin lega la sua fama alla madrassa Haqqania, ove ha studiato un gran numero di quadri talebani. Stabilisce prestissimo il suo feudo nella zona tribale del Waziristan Settentrionale che, durante il jihad antisovietico (1979-1989), assurge a sancta sanctorum dei mujaheddin afghani, all’epoca aiutati da Washington.In quel periodo, la rete s’internazionalizza. Stringe legami con volontari di tutte le nazionalità, afghani, pachistani, del kashmir e indonesiani, pronti a combattere l’uomo di fiducia di Mosca a Kabul, Babrak Karmal. Lungi dal biasimarlo, gli Stati Uniti sostengono vivamente Jalaluddin. Sono gli anni della guerra fredda, che giustificano alleanze talvolta innaturali. Jalaluddin è ricevuto da eroe di guerra alla Casa Bianca, presidente Ronald Reagan.

L’amministrazione americana, come altri partner munifici (Arabia Saudita, Cina e altri), si profonde in aiuti generosi: quasi 12 miliardi di $ in totale, affluiti tramite l’ISI nelle zone tribali pachistane.I sostegni si moltiplicano, fino al Golfo Persico, lasciando intravvedere la futura ramificazione della rete al di là delle frontiere afghane. Anche i temibili servizi d’intelligence militare pachistana soccombono presto alle sirene del clan, convinti di aver trovato un ottimo alleato per bilanciare le ambizioni afghane dell’India. É negli anni ’80 che nasce l’embrione della futura al-Qaeda, appoggiata dal clan Haqqani. Molti combattenti passano per il campo d’addestramento di Zhawar Kili, gestito dagli Haqqani nella provincia di Khost. La vicinanza fra i due movimenti si rafforza nel decennio successivo: espulso dal Sudan (1996), Osama bin Laden trova rifugio e basi nelle retrovie del clan, pronto a lanciare la grande offensiva contro l’Occidente.L’ambizione degli Haqqani travalica il quadro regionale, ma è sul fronte afghano che se ne misura la statura di combattenti: è grazie a loro che i talebani conquistano Kandahar (1994), Herat (1995) e K abul (1996). Jalaluddin è ricompensato con il portafoglio delle Frontiere, posto semi-onorifico che conserverà fino alla caduta del regime, nell’autunno 2001.

Gli attentati dell’11 settembre non modificano il quadro: il clan rinnova la sua fiducia ad al-Qaeda, fino a scontrarsi con una parte della shura di Quetta, favorevole a prendere le distanze dai qaedisti. I destini s’incrociano nuovamente quando gli americani e la CIA cominciano la campagna di bombardamenti mirati: dal 2004 ad oggi (2014 data dell’articolo), i droni hanno permesso di eliminare oltre 2.500 nemici, con un picco di attacchi a partire dal 2008. Nel frattempo, Jalaluddin ha ceduto le redini al figlio Sirajuddin, considerato da Washington più radicale ed efferato del padre. Sulla sua testa pende una taglia di 5 milioni di $. Dal momento in cui è assurto al vertice dell’organizzazione, Sirajuddin si è sforzato di estendere la sua sfera d’influenza ad altre province dell’est afghano (Ghazni, Logar e Wardak). Ha colpito Kabul, destabilizzato il regime Karzai e sabotato i timidi negoziati di pace. Ha voluto che il fratello Badruddin assumesse il comando militare dell’organizzazione, prima di esser eliminato da un Reaper a stelle e strisce. Ha stretto legami con gruppi terroristici stranieri, come l’Unione del jihad islamico. Ha dotato il network di un apparato d’intelligence, addestrato gli uomini al combattimento urbano e dato loro strumenti adeguati al conflitto: mortai, lanciagranate, munizioni, razzi RPG e fucili mitragliatori AK-47. Secondo fonti dell’intelligence statunitense, sarebbe un membro a tutti gli effetti della shura Majlis, che di al-Qaeda è il Consiglio esecutivo. (fonte Ministero Difesa)

da La Repubblica

Serajuddin ascese alla guida del network degli Haqqani nel 2007, quando suo padre Jalaluddin, fondatore del gruppo, era ormai troppo malato per poter rimanere alla guida. Sotto la sua giovane ed energica guida gli Haqqani cominciarono ad avanzare rivendicazioni di un maggior peso a livello della Shura di Quetta, invano. La mancanza di meritocrazia significava che l’attivismo militare degli Haqqani non si traduceva in promozioni verso i vertici della struttura dei talebani. Dopo qualche mese di tiro alla fune con Quetta, Serajuddin decise di dichiarare l’autonomia del gruppo, mettendolo fuori della catena di comando della Shura di Quetta. Da allora per sette anni si sono considerati come pari titolo della Shura di Quetta. E’ come risultato di questa decisione che gli americani l’hanno per molti anni considerata come una organizzazione completamente separata. Solo nell’estate del 2015 gli Haqqani si sono reintegrati sotto la Shura di Quetta, dopo che l’allora leader Akhtar Mohammad Mansur aveva nominato Serajuddin suo vice e co-optato diversi altri membri del network in altre posizioni di potere.

Gli Haqqani sotto Serajuddin si sono sempre considerati come una forza più professionale rispetto ai talebani del sud. Le tattiche degli Haqqani sono sempre state strettamente “asimmetriche”: attacchi di guerriglia, mine e attacchi terroristici. Gli Haqqani si sono anche distinti per la loro “professionalizzazione” degli attacchi suicidi e nel corso del tempo hanno conquistato un quasi monopolio di questa tattica all’interno dei talebani. Hanno investito nella formazione sistematica di terroristi suicidi, che i loro addestratori preselezionavano ancora in età scolare nei seminari gestiti dal gruppo, e poi preparavano al sacrificio supremo nel corso di lunghi anni di indottrinamento. Sotto Serajuddin si sono anche intensificati i rapporti con la jihad globale. Al Qaeda ha per molti anni considerato gli Haqqani e specificamente Serajuddin con il parner principale. (fonte la Repubblica)

 

Il 2022 inizia con una Buona Notizia

Siamo finalmente riuscite a trasferire con successo i fondi raccolti a favore di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – RAWAهمبستگی Solidarity e Humanitarian Assistance for the Women and Children of Afghanistan (HAWCA).

Fondi che andranno soprattutto a portare aiuto agli sfollati e alle famiglie più indigenti, ma anche a tenere in vita i progetti messi in piedi negli anni passati: la cooperativa di donne che coltiva zafferano grazie a Insieme si può e Costa Family Foundation o.n.l.u.s., la protezione di donne vittime di violenza e i corsi di alfabetizzazione per donne (ora necessariamente clandestini), fondamentali per dar loro l’opportunità di conoscere i loro diritti.

Per le attiviste e gli attivisti afghani è stato un anno davvero difficile e molto di ciò che erano riusciti a costruire è stato spazzato via dall’arrivo dei talebani e dalla tragedia umanitaria in corso, con 22 milioni di persone ridotte alla fame.

Eppure non si stanno dando per vinti, continuano la loro lotta e il loro lavoro di base. Noi saremo al loro fianco, come da 21 anni a questa parte.

Un grazie di cuore a tutti coloro che hanno scelto di darci fiducia e sostenere l’impegno delle nostre compagne e dei nostri compagni!

Grazie!

Care sostenitrici e cari sostenitori,
da due mesi a questa parte abbiamo capito quanto, nei passati venti anni, la nostra piccola associazione sia riuscita a seminare; il nostro impegno nel far sì che l’Afghanistan non venisse dimenticato ha prodotto, allo scoppiare della crisi e alla presa del potere da parte dei talebani, un fiume di solidarietà e di attenzione nei confronti nostri ma soprattutto delle nostre compagne di RAWA e di tutti i compagni e compagne afghani che in questi anni abbiamo testardamente continuato a sostenere e a incontrare, in Italia e nella loro terra.

Questo fiume ininterrotto di solidarietà ha prodotto dozzine di incontri, di interviste, di contatti di cui vogliamo fare tesoro, ma anche, nel concreto, 170.000 euro di donazioni, che stanno crescendo via via che passano i giorni.

Le vostre donazioni andranno a buon fine e saranno destinate:

  • alle nostre compagne di RAWA, che sono rimaste nel loro paese per portare avanti la loro lotta politica e il lavoro di base che hanno sempre fatto, soprattutto con le donne: classi di alfabetizzazione, microcredito, aiuto a fuggire da una situazione di violenza, assistenza medica ai più poveri;
  • ai compagni e alle compagne di Hambastagi che portano aiuto a coloro che sono scappati dalla guerra e che si trovano in campi di sfollati e andranno incontro a un inverno durissimo;
  • alle ospiti della casa per donne maltrattate di Hawca, che oggi sono state messe in luoghi sicuri, in cui non temere altre violenze;
  • alle bambine e ai bambini degli orfanotrofi di AFCECO, anche loro portati in luoghi sicuri, per assicurargli di continuare a vivere con dignità;
  • alle donne che coltivano lo zafferano, che stanno portando avanti il loro lavoro nel campo.

Da parte di tutte noi un grosso grazie per la fiducia che avete riposto in noi; continueremo, per quanto possiamo, a portare attenzione sull’Afghanistan e sulle sue genti, vittime di guerre e fondamentalismi da quarant’anni, e a essere solidali con coloro che hanno deciso di restare e lottare.

Uniamoci alla resistenza delle donne afghane

“Noi alzeremo la nostra voce ancora più forte e continueremo la nostra resistenza e la nostra lotta per la democrazia e i diritti delle donne!”

RAWA

L’invasione dell’Afghanistan da parte degli USA e dei paesi NATO, fatta con il pretesto di sconfiggere il terrorismo e liberare le donne, è stata un gigantesco fallimento.

La guerra ha prodotto 241.000 vittime e oltre 3,5 milioni di sfollati ().Oggi l’Afghanistan produce il 90% dell’eroina mondiale, la corruzione all’interno delle cosiddette istituzioni afghane ha raggiunto livelli spaventosi (l’Afghanistan è al 165o posto su 180 paesi nelle statistiche di Transparency International) e il paese ha pochissime e gravemente carenti infrastrutture, scuole, ospedali.

In questi 20 anni di occupazione militare gli USA hanno speso 2.300 miliardi di dollari, la Germania 19 miliardi di euro e l’Italia 8,7 miliardi di euro.

La “liberazione delle donne” non è stata garantita: l’87% delle donne afghane è ancora analfabeta;le donne che hanno avuto la possibilità di studiare e lavorarecostituiscono un’esigua minoranza, usata dall’Occidente per dimostrare il successo dell’occupazione.

Quanto al terrorismo, oggi in Afghanistan è più che mai rampante; il paese è stato regalato ai talebani, dal 2015 è attiva la violentissima cellula ISIS Khorasan e i signori della guerra a cuinel 2001 la coalizione di potenze occidentali ha dato il potere sono pronti a rialzare la testa nel caso in cui i talebani non assicurino loro una fetta della torta.

Chiediamo che i governi e le istituzioni dei paesi dell’Unione Europea:

  • non forniscano nessun riconoscimento al regime dei talebani;
  • avviino azioni di supporto alle forze laiche e democratiche afghane come RAWA (RevolutionaryAssociation of the Women of Afghanistan, http://www.rawa.org/index.php) e Hambastagi (Solidarity Party of Afghanistan, http://hambastagi.org/new/en/);
  • dicano “basta” a imperialismo, militarismo, fascismo e fondamentalismo religioso e smettano di usare i diritti delle donne per altri interessi;
  • cessino la politica di contenimento delle migrazioni fondata sull’esternalizzazione e la militarizzazione delle frontiere e cancellino qualsiasi pratica di respingimentoe detenzione;
  • organizzino corridoi umanitari e ponti aerei per l’evacuazione immediata di coloro che sono in pericolo;
  • blocchino, anche attraverso il disinvestimento nell’industria degli armamenti, il ciclo perverso delle “guerre infinite” che imprigiona l’Afghanistan e buona parte delle popolazioni del Medioriente;
  • istituiscanoun osservatorio speciale per il monitoraggio delle violazioni dei diritti delle donne e dei diritti umani in Afghanistan;
  • cessino di ubbidire in silenzio ai diktat degli Stati Uniti e di partecipare alle loro guerre, che portano solo più fondamentalismo, più emigrazione, più povertà; rendano conto del loro operato in questi lunghi 20 anni di guerra in Afghanistan.

COSTRUIAMO INSIEME UNA RETE MONDIALE DI DONNE RESISTENTI

talebani hanno picchiato i miei bambini all’aeroporto

Un afgano ha raccontato al Cisda perché non è riuscito a imbarcarsi per l’Europa. Sfiorare la salvezza e non riuscire ad afferrarla. È quanto è capitato, ieri all’aeroporto di Kabul, alla famiglia di Ahmed (nome di fantasia per tutelare l’identità di un nostro conoscente). Nonostante avessero diritto ad accedere a uno dei voli verso un paese europeo, Ahmed, la moglie e i due bambini non ci sono riusciti a causa della calca e delle violenze dei talebani e hanno dovuto rinunciare a partire. Ora temono ritorsioni.
Questo il drammatico messaggio di Ahmed al Cisda (Coordinamento italiano sostegno donne afgane onlus).
“Io, mia moglie e i miei figli siamo andati all’aeroporto di Kabul nelle prime ore del mattino per essere evacuati. Abbiamo attraversato l’inferno. Non trovo le parole per descrivere la situazione.
Migliaia di persone cercano di entrare in aeroporto. Le ore che abbiamo trascorso lì erano un incubo. Ci sono stati momenti in cui eravamo senza fiato, mentre le persone spingevano e tiravano.
Molti avevano aspettato per giorni fuori dall’aeroporto. Abbiamo cercato continuamente di avvicinarci al cancello, ma persino spostarci di un centimetro era difficile. Tutti stavano cercando di fuggire dal paese, ma non sapevano come entrare nell’aeroporto. Mia moglie e i nostri due bambini hanno dovuto assistere alle scene peggiori della loro vita.”
“Come padre, è stato il momento più difficile, perché stavo facendo del mio meglio per portarli al sicuro dall’altra parte del muro verso un futuro migliore, ma assistevo alla loro
paura mentre venivamo picchiati senza pietà. I miei figli non avevano mai visto i talebani, ma ora hanno sperimentato la loro brutalità. Mi sentivo impotente, perché non potevo proteggerli mentre venivano picchiati. Ho dovuto supplicare i talebani di risparmiare almeno i bambini. I proiettili sono stati sparati indiscriminatamente e chiunque avrebbe potuto essere colpito. Non riuscivo a trattenere le lacrime, perché non avevo mai immaginato che i miei figli e la mia famiglia avrebbero vissuto l’umiliazione che avevo vissuto io 25 anni fa.”

“Mia moglie, laureata in legge e attivista, è stata picchiata sulla testa e si è sentita umiliata anche nell’animo. Mi ha detto che non aveva la forza di alzarsi in piedi dopo aver visto il nostro bambino impallidire e sul punto di svenire per la paura.
Mia figlia e mio figlio mi stringevano forte le mani. Piangevano, mi dicevano che saremmo stati uccisi e mi chiedevano di tornare a casa. Il mio bambino non riusciva a respirare per la paura e ho pensato che lo stavo perdendo. Mia figlia non urlava più. Le uscivano solo lacrime che le rigavano le guance.”
“Ho provato in tutti i modi a contattare qualcuno per chiedere aiuto, ma non è stato possibile. La mia famiglia ha attraversato l’inferno; inferno non è nemmeno la parola giusta. Volevo portarli lontano dal pericolo, invece li ho messi in pericolo e ora sono traumatizzati.”
“Da quando abbiamo lasciato l’aeroporto, la mia famiglia è così spaventata! I miei bambini temono che i talebani bussino alla porta, ci portino via e ci uccidano. Sto cercando di consolarli, ma le nostre vite sono a rischio e non so quali saranno le conseguenze, dopo che i talebani hanno visto che abbiamo tentato di imbarcarci e poi siamo tornati a casa.
Non volevo che i miei figli subissero quello che ho passato io 25 anni fa, nel brutale periodo dei talebani al potere. Le scene di oggi all’aeroporto mi hanno riportato alla mente quei ricordi.”
“C’è un grande peso sul mio cuore. Come proteggerò la mia famiglia? La vita è ingiusta. Forse abbiamo i giorni contati e non so quando busseranno alla nostra porta.
Ringrazio chi ha tentato di farci uscire dal paese, ma credo che questo non sia il modo giusto. All’aeroporto ci siamo sentiti come gettati di fronte ai lupi e ognuno faceva del suo meglio per sopravvivere. Ma siamo esseri umani, nessuno dovrebbe combattere contro gli altri e calpestare donne e bambini. Vogliamo un’evacuazione dignitosa!
So che più a lungo resteremo a Kabul, più sarà pericolosa la situazione che dovremo affrontare, ma, vedendo la mia famiglia traumatizzata e rischiando di perdere i miei figli nel caos, dopo più di 20 ore di attesa non abbiamo potuto fare altro che tornare a casa.”