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Fatima, Takar

Ho 35 anni e sono di Takar, una zona povera e dimenticata del Nord Est. Anni fa mio padre mi ha fatto sposare con un uomo di 60 anni che aveva moglie e sei figli.
Ero spaventata ma poi mio marito, un contadino, ha mostrato di essere un brav’uomo. Mi vuole bene. Mi protegge dalla sua famiglia che mi odia.
Per me sono nemici, tanti e forti. Mi dicono sempre: “Quando nostro padre morirà, ti butteremo fuori di casa, finalmente!” In questi anni mi sono ammalata. Ho un tumore alla gola che mi fa soffrire. Mio marito prende un po’ dei suoi guadagni per curarmi, così loro mi odiano sempre di più. Ho un figlio e una figlia ma i soldi per la scuola non ci sono. Mio marito non sta bene adesso e ho paura. Che sarà di me e dei miei figli quando lui morirà?
Ho bisogno di avere un po’ di soldi miei per curarmi e mandare i bambini a scuola e magari metterne un po’ da parte per quando lui non ci sarà più e io sarò sola contro tutti.

Aggiornamento

Quando il marito si ammala gravemente Fatima si rivolge ad Hawca, è molto spaventata per il suo futuro e quello dei suoi figli.
L’aiuto di Augusto, Nicoletta e Viviane, le dà un po’ di autonomia. Si sente più forte nella sua battaglia. Diventa fondamentale quando il marito muore e la famiglia si scatena.
La cacciano di casa ma si terranno i figli se non sposa un uomo della famiglia odiata. Fatima non ci sta. Lascia la casa del marito e va a vivere in un posto sicuro con i figli. Trova un lavoro come domestica. Il guadagno, insieme al denaro degli sponsor, le permette di vivere e di mandare a scuola i figli.
Ma è poco, non riesce a farsi aumentare il compenso e sta cercando qualcosa di più redditizio. La famiglia non smette di tormentarla, di riproporle il matrimonio con i parenti. La scelta di Fatima, per loro, è una vergogna. Per Fatima la salvezza, la rinascita. Non ci pensa proprio a tornare indietro.
È felice della sua nuova vita, della fine del suo incubo. Non avrebbe mai potuto farcela senza i suoi amici italiani, dice. Senza di loro non avrebbe avuto altra scelta che cedere al ricatto e consegnare la sua vita alla brutalità di quella famiglia, com’è destino per le vedove afghane.

Aggiornamento gennaio 2023

“Sfortunatamente, dice Shafiqa, non siamo riusciti a contattare Fatima. Abbiamo mobilitato tutte le nostre amicizie e conoscenze in Takhar, dove Fatima vive, e abbiamo sperato di trovare sue notizie recenti. Purtroppo non c’è niente di preciso e strade che possiamo seguire per contattarla. Queste persone hanno risposto di aver sentito dire che la famiglia è andata in Iran e che i loro parenti non sono in contatto con loro. Per ora, quindi, non c’è niente di nuovo. Speriamo tutti che stiano bene e che riescano a vivere meglio in Iran.”

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Farzana

Farzana ha 21 anni ed è del secondo distretto di Yakawlang. Studia all’Università di Bamyan, storia, una materia a cui si è appassionata. E’ entrata all’Università per i suoi meriti, con una borsa di studio ed è contenta della sua scelta. All’inizio vuole diventare una giornalista ma si rende subito conto che è difficile trovare un lavoro in questo campo. Quello che fa, a un certo punto, non le basta più. Si rende conto che per aiutare le donne del suo paese deve svolgere una professione diversa. Molte donne muoiono ogni giorno di parto e per malattie ginecologiche. Uno dei tassi più alti del mondo. Essere un’ostetrica è il lavoro migliore per far fronte a questi disastri. Le appare sempre più evidente la necessità urgente di ostetriche per le donne della sua zona. Adesso quindi si è concentrata sulla facoltà di Ostetricia. Si è avvicinata alla politica e ha affiancato i militanti del Partito della Solidarietà, Hambastagi, nel lavorare al rinnovo di un monumento. Ha lavorato sodo, cazzuola, martello e cemento, per dimostrare ai suoi compagni che le donne non sono affatto più deboli degli uomini.

Anche lei ha bisogno di sostegno per proseguire la sua strada e aiutare le donne della sua zona, una delle più povere del paese.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Fahema

Mio padre. Come fa un padre a non sapere?
Cosa pensava il giorno di due anni fa quando ha deciso di farmi sposare quest’uomo?
Il destino non c’entra. Come si fa a regalare a una figlia l’inferno?
Non posso fargliele queste domande, le faccio a me stessa, da due anni mi rimbombano nella testa. Poteva informarsi, no? In fondo lo sapevano tutti che si drogava e che la prima moglie era morta, uccisa dalle sue botte. Avanti un’altra, io. Forse è la droga che glielo fa fare, che tira fuori il buio profondo della sua anima. Non ha fatto che picchiarmi da quando sono entrata in questa casa. Non ha avuto rispetto nemmeno dei figli che aspettavo. Ho abortito per le sue botte, tre volte.
Tre bambini persi. Sono stata male, molto, problemi ginecologici. Ma per me non ci sono medicine né medici. Nemmeno da mangiare o da vestirmi. Quel poco che ho, me lo danno i miei fratelli, quello che serve a tenermi in vita.
Adesso vivo con loro ma non mi sento protetta. Non possono sostenermi ancora per molto, devo trovare un lavoro. Me lo ripetono tutti i giorni. Ma non è facile nelle mie condizioni di salute. E le cure di cui ho bisogno costano. Ho paura che mio marito venga a riprendermi e ho paura del futuro.

Aggiornamenti

Da quando Angela e Marianella sono al suo fianco, la vita di Fahema migliora. I fratelli la lasciano vivere stabilmente con loro dato che può sostenersi e soprattutto curare le sue molte ferite. Pian piano risolve i suoi gravi problemi ginecologici per gli aborti, le botte e la malnutrizione.
Sta meglio e comincia a sognare e programmare. Vorrebbe finire gli studi, andare all’Università, trovare un lavoro buono ed essere completamente indipendente.
Di matrimoni non vuole più sentir parlare e spera tanto di liberarsi del suo aguzzino per sempre. Non è cosa facile. Il marito insiste a chiederle di tornare, promettendo gentilezze e cure.
Fahema non ci casca e continua a studiare.
Finalmente il sospirato divorzio arriva, assistita dalle avvocate di Hawca, liberandola dall’angoscia.
Resiste ai fratelli che vorrebbero farla risposare. Insegna Corano ai bambini e i suoi allievi aumentano, è brava. È molto orgogliosa, anche se guadagna poco e vorrebbe insegnare anche altre materie. Alla scuola di Hawca ottiene il diploma di inglese e computer, che l’aiuteranno nella ricerca del lavoro e coltiva i suoi progetti.
Nessuno potrà più fermarla adesso!

Aggiornamento gennaio 2023

“Fahema sembrava molto felice quando l’ho sentita al telefono, riferisce Shafiqa. Lei e il marito hanno deciso di andare in Iran nei prossimi giorni”. Ecco cosa le ha detto: “Finché vivrò resterò in debito per l’aiuto che Hawca e la mia sponsor mi hanno dato. Avete salvato la mia vita e , con il vostro aiuto sono stata in grado di vivere una vita buona, piena di felicità, con mio marito. Sono incinta adesso e per il futuro dei miei figli, abbiamo deciso di andare a vivere in Iran. Io ho insegnato tanto e sarà difficile per me restare lontana dai miei studenti e dalle loro famiglie, ma era necessario prendere una decisione. Porterò con me i bei ricordi dei miei studenti. La persona che amerò sempre è la mia sponsor, tanto tanto amorevole, che mi ha sostenuto per molti anni e mi ha permesso di affrontare i miei problemi, di essere in grado di studiare e di essere capace di comprendere il vero significato della vita.” Fahema ha chiesto di far arrivare il suo messaggio alla sua sponsor. Le chiede di non dimenticare mai le donne afghane e, se ha i mezzi per aiutare un’altra Fahema, sarebbe molto bello che se ne prendesse cura, in modo che anche questa donna possa diventare consapevole e possa fronteggiare a testa alta qualsiasi ingiustizia.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

A Kabul un rifugio clandestino salva le donne dalla violenza domestica

Nonostante le crescenti difficoltà, una rete di afghane continua a gestire piccoli appartamenti dove accoglie vittime di abusi in fuga da padri e mariti che godono di un’impunità totale sotto il regime talebano. Il racconto di alcune attiviste.

Il luogo è segreto. Giriamo per le strade dissestate di Kabul, tra i mucchi di neve sporca, per far perdere le tracce a qualche eventuale inseguitore. Ce ne potrebbero essere tanti: commanders, Talebani, parenti che minacciano, mariti che vogliono indietro le loro mogli per continuare a fare scempio delle loro vite, vicini ansiosi di denunciare, polizia al soldo dei warlords. La strada è deserta quando arriviamo alla meta, tutto tranquillo. Siamo allo shelter, la casa protetta per le donne vittime di violenza gestita da una rete di afghane (di cui non possiamo rivelare il nome per motivi di sicurezza) con cui il Cisda collabora da vent’anni e che oggi lavora sotto la minaccia talebana. Si sono appena trasferite, lo fanno spesso, per sicurezza.

La stanza dove ci accolgono è grande, il pavimento coperto da tappeti rossi, una grande stufa al centro. Le donne che qui hanno trovato protezione se ne stanno sedute, in silenzio, si coprono e si scoprono con il velo, cullano i bimbi che hanno in braccio. Soprattutto ci guardano con un’intensità timida e solenne. Siamo in sei, ci sentiamo goffe in quella stanza di silenzio caldo e profumato di legna. Nessuno parla. Niente si muove.

Dietro agli occhi di ognuna si agita qualcosa oltre la serietà da sfingi. Poi, ecco il miracolo. Una di noi, Cristina, costruttrice di ponti, estrae dallo zaino una polaroid. Inquadra, scatta, estrae la foto, la mostra. Sorride, col suo contagioso sorriso. Pochi minuti e sono tutte in piedi, eccitate, vogliono essere fotografate con noi, con i bimbi, tra loro. Tengono in mano le immagini come tesori. Ci si guardano come in uno specchio, stupite di essere belle, stupite di essere. Faticano a riconoscersi. Il rito non vuole finire.

Scorrono fiumi di parole, in dari, in pashtu, in italiano. Il dolore sembra rarefarsi, evapora via da quella stanza piena di vita. Tutte vogliono ora raccontare le loro storie e iniziano a farlo nella loro lingua madre e nella madre di tutte le lingue, i gesti. Affannosamente le storie prendono forma. Sono affidate a noi queste storie pesanti come macigni. Raccontate con semplicità, ora che si sentono finalmente al sicuro. Era il 2017.

Nei vent’anni di occupazione degli Stati Uniti e della Nato, la violenza contro le donne, in tutte le sue forme, non è mai diminuita. Una tragedia che riguardava l’87% della popolazione femminile. I diritti sbandierati erano per poche e i cammini della maggior parte erano costellati di rabbia, attentati, violenza quotidiana, umiliazione, impensabili privazioni, nonostante le leggi. Ma allora, almeno, seppure con difficoltà, le donne attiviste potevano organizzare la salvezza per alcune di loro. Qualcuna ce la faceva a riprendersi la sua vita, a studiare e lavorare. C’erano centri legali, case protette, avvocate che difendevano le donne in tribunale. Insegnanti che rendevano le studentesse consapevoli dei loro diritti. Il 15 agosto 2021, in una notte, questo shelter, come tanti altri, è stato sgomberato nella fretta silenziosa della paura. Per i Talebani le case protette sono bordelli e le donne in cerca di aiuto prostitute. Se le avessero trovate il loro destino sarebbe precipitato.

“L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima” – Shafiqa N.

Oggi, sotto le aberranti leggi talebane, le donne non hanno scampo. Non c’è più niente: né giustizia, né tribunali, né scuole, né rifugi, né possibilità di salvarsi. Sono abbandonate alla violenza domestica, sociale e politica, senza speranza. “Il Paese si è trasformato in un inferno dove la vita delle persone è controllata nei minimi particolari -racconta Shafiqa N., che in questo inferno continua a lavorare al fianco delle donne-. Le minacce di morte, arresti e torture sono sempre sopra la nostra testa. Le persone spariscono. La paura non risparmia nessuno. La giustizia è stata sostituita dalla religione, la sharia è l’unico riferimento dei Talebani e non considera la violenza contro le donne un crimine. L’impunità totale, la connivenza e il sostegno ai comportamenti criminali maschili, hanno reso gli abusi domestici prassi quotidiana che raggiunge picchi mai visti prima. La disoccupazione è salita alle stelle e gli uomini senza lavoro restano a casa, frustrati, e se la prendono con le proprie mogli, anche se prima non lo avevano mai fatto. Il numero dei matrimoni precoci continua a salire. Le bimbe a scuola non ci possono andare, i padri hanno bisogno di soldi e temono che i Talebani, come spesso fanno, vengano a prendersele per darle ai loro miliziani. Così le vendono in spose sempre più presto. Mentre camminano per strada, le donne vengono controllate in continuazione dai Talebani per verificare se l’hijab è portato secondo le regole. Se qualcosa è fuori posto, sono minacciate di morte e picchiate. I mariti, disoccupati, costringono mogli e figlie a mendicare per strada. Non è un bel posto. Sono sempre più spesso prede facili di molestie e violenza sessuale da parte di Talebani o altri uomini che approfittano della loro fragilità. Da metà novembre le ragazze non possono più accedere alle palestre, ai parchi e a quei locali dove prima potevano farlo anche se in stanze e momenti separati dagli uomini. Vietato rilassarsi, divertirsi, respirare: hanno chiuso perfino i parrucchieri. Chi disobbedisce subirà ritorsioni e il locale con tutto quello che contiene sarà distrutto. Erano molte le donne che lavoravano in questo ambito che si aggiungeranno alla schiera delle recluse. Gli uomini, protetti dalla mentalità talebana, si sentono liberi di molestare e violentare le ragazze come meglio credono, in qualsiasi situazione”.

“A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli” – Latifa, insegnante

Latifa è insegnante. Oggi, in Afghanistan, ci vuole molto coraggio per fare questo lavoro. “Quello che è rimasto del sistema educativo è completamente controllato dai Talebani. Ogni giorno una loro squadra si presenta in classe. Si possono usare solo i loro libri, siamo sottoposti a continui esami di sharia. Se sbagli qualcosa, perdi il posto. Le ragazze che frequentano l’università sono sempre più spesso molestate da professori e presidi, vengono considerate strumenti del loro piacere. Le scuole governative come quelle private sono ispezionate continuamente. A Mazar, una delle province in cui le ragazze possono andare a scuola fino alle superiori, nelle classi non si respira. Letteralmente. Per la costrizione all’hijab che copre bocca e naso e rende difficile fare lezione, per l’ossessiva presenza dei controlli, delle minacce di rettori e insegnanti che pagano o costringono i ragazzi a diventare loro spie. A riferire e registrare gli insegnanti. Ogni lezione deve cominciare con il nome di dio e, se non succede, il nostro stipendio viene tagliato per quel giorno”. Latifa è incerta, ha paura a parlare ma quando è sicura di non essere ascoltata, denuncia: “Il direttore prende le ragazze più belle e le obbliga ad avere rapporti con lui”.

Nell’ultima classe delle elementari, le bambine sono costrette ad essere esaminate dalle insegnanti. Se sono alte o presentano i primi segni di pubertà vengono allontanate. La libertà di espressione è demolita, nessuno deve lamentarsi della gestione talebana della loro vita. Arresti e omicidi sono all’ordine del giorno.

Gli spazi per le donne che non si rassegnano e continuano la loro battaglia, sono pochi. Ma nessuna di loro si arrende. Camminano in mezzo agli ostacoli con lucida consapevolezza. Di rifugi per le donne ci sarebbe bisogno più del pane. “Non possiamo più gestire uno shelter con tante donne, saremmo subito scoperte e potrebbe finire molto male -continua Shafiqa-. I Talebani considerano le Ong e le associazioni umanitarie come coperture delle intelligence, spie dei governi stranieri e sono feroci con i loro membri. Ma una casa più piccola sì, quella possiamo organizzarla, senza dare nell’occhio”.

Lo hanno fatto, con il sostegno di sponsor italiani. Un mini shelter per cinque donne e dieci bambini che sfidano i Talebani e credono in se stesse. La moquette copre il pavimento della grande stanza vuota, i muri con i segni del tempo sono coperti di piccole farfalle di carta, di alberi ritagliati. È qui che fanno scuola bimbi e mamme, usciti dal terremoto delle loro vite, liberi dalla violenza. Imparano a leggere, a scrivere, la matematica, conoscono i loro diritti e scoprono come trovare le armi per rivendicarli, conoscendo le leggi, i principi della giustizia, le procedure legali, leggono le poesie tradizionali della loro lingua, perché la poesia nutre le donne. E imparano un mestiere: artigianato e sartoria. In sei mesi riescono già a confezionare abiti, un’attività tradizionalmente femminile che i Talebani non contrastano, basta lavorare in casa, e che permette un minimo di indipendenza economica.

Tutte sanno bene quanto sia preziosa questa piccola, immensa libertà. E quanto sia difficile proteggerla. Shamsia, una di loro, ha 15 anni quando viene venduta in matrimonio a un uomo che ne ha 51 più di lei. Un fanatico che rende la sua vita un inferno. Vuole un figlio maschio, a tutti i costi. Quando sa di aspettare una femmina Shamsia è terrorizzata. Il marito e la famiglia la picchiano e le impongono di abortire. È troppo tardi e la bimba nasce, circondata da rabbia e paura. Le permettono di restare in quella sciagurata casa, se si impegna a far nascere il figlio maschio, la prossima volta. Ma per tre volte mette al mondo bimbe, solo e sempre donne. Shamsia deve proteggere le sue figlie dall’odio di quella casa e scappa, prima da amici e poi allo shelter. Ora sono tutte e quattro qui a imparare, a leggere poesie, a cucire. E a respirare di sollievo, merce preziosa di questi tempi.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 254

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

“Ci vorrà tempo ma il cambiamento per le donne afghane arriverà”

Mentre i governi (occidentali e non solo) sostengono i vari gruppi armati presenti nel Paese, l’associazione Rawa continua a lavorare per creare una nuova consapevolezza politica. Il racconto di una delle attiviste

Ci incontriamo con Maryam, alle quattro del mattino, Kabul è ancora vuota e buia, lucida di pioggia. Ci aspetta una lunga giornata. Viaggiamo per ore tra le montagne, infagottate in abiti neri che ci nascondono, sulle strade polverose del suo Paese per scoprire piccole realtà preziose nel deserto di pietre e di ingiustizia che circonda le donne. Lungo il percorso troviamo spazi di libertà, impegno, speranza e un’attività costante e combattiva. Un lavoro tenace, che continua da quarant’anni anche ora sotto i Talebani. Era il novembre 2019.

Le cose sono diventate più difficili, adesso. Ma il lavoro, per le donne della Revolutionary association of the women of Afghanistan (RAWA) non si ferma e Maryam (nome di fantasia) ce lo racconta, qui, in Italia. Il cammino che l’ha portata in Europa a ottobre non è stato facile né privo di rischi. È venuta qui per essere la voce delle donne sprofondate nel silenzio dei Talebani. Per mostrare a tutti noi che in quel Paese, dimenticato dai media e dai governi occidentali, le donne vivono una condizione infernale ma ognuna di loro combatte per mantenere viva la propria dignità. Una particolare forza di resistenza, anche all’orrore.

Difficile immaginare un futuro per l’Afghanistan. Quali sono le pedine e i giocatori in campo?
MR L’analisi è complicata e ancor di più le previsioni. Ai destini dell’Afghanistan sono intrecciati quelli di molti governi esteri e ciascuno di loro sta lavorando per i propri interessi e per contrastare i rivali. Cina e Russia si avvicinano ai Talebani per proteggere i loro affari economici e gli Usa non lo possono permettere. Così, attraverso i loro servizi segreti, sostengono lo Stato islamico (Isis) e altri gruppi di fascisti religiosi. Anche i Paesi confinanti, come Iran e Pakistan, fanno lo stesso da sempre sostenendo e usando i terroristi. Altri li accolgono con tutti gli onori come la Turchia. La divisione interna dei Talebani facilita il compito delle intelligence straniere, a caccia delle pedine più convenienti. Finché i terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime e i fondamentalisti i vincitori. È un film che abbiamo già visto.

In Occidente si parla di resistenza armata, di opposizione ai Talebani. Chi sono?
MR La cosiddetta “resistenza” è formata da gruppi che conosciamo bene, fondamentalisti quanto i Talebani -come l’Alleanza del Nord- che hanno commesso crimini di guerra contro la popolazione nei decenni passati. Non sono diversi da chi governa oggi a Kabul, hanno solo un buon maquillage e un po’ di cultura, ma sono altrettanto oscurantisti e feroci soprattutto contro le donne. Anche il giovane Massud, che vuole essere un eroe nazionale come il padre (Ahmad Shāh Massud, assassinato nel 2001, ndr) è un burattino degli americani. Fa parte del loro gioco che, da una parte, lascia il Paese ai Talebani e li rifornisce di materiale bellico, e dall’altra sostiene personaggi come Massud, presentandolo come l’unico argine ai nuovi padroni. Puntano su due cavalli, come abbiamo già visto negli scorsi vent’anni.

Un gioco che potrebbe finire male.
MR Se i governi occidentali continuano ad armare e sostenere questi gruppi per usarli uno contro l’altro per i propri fini e bilanciare le loro influenze possiamo aspettarci una guerra civile su base etnica, come negli anni Novanta. Non vogliono liberare il Paese, vogliono solo una condivisione del potere con i Talebani. Massud all’inizio aveva trattato: aveva chiesto il 50% dei posti nel governo per i suoi. E quando ha ricevuto un rifiuto dai Talebani, ha detto che si sarebbe accontentato anche del 30%.

“Finché questi terroristi saranno sostenuti dall’estero con denaro, armi e complicità, non saranno sconfitti. Quello che è sicuro è che i civili saranno le vittime”

La nuova guardia dei war lords che si spendono in Occidente ha anche un progetto politico preciso? Quale?
MR Si tratta di un progetto federale che si propone di dividere l’Afghanistan secondo le diverse etnie. Le influenze straniere si sono concentrate su un territorio specifico o su una particolare etnia. Ognuno, protettori stranieri e gruppi fondamentalisti, avrebbe così la sua zona di influenza e il suo regno personale.

Un Afghanistan fatto a pezzi, lontano dai vostri scopi, immagino.
MR Sì, molto lontano. Noi non possiamo accettare questa prospettiva e siamo molto preoccupate. Rawa ha sempre combattuto per conquistare la giustizia sociale per tutti gli afghani, per annullare le divisioni etniche, che portano solo ad altri conflitti e rendono il Paese sempre più debole. Del resto quaranta o cinquant’anni fa l’appartenenza etnica non era importante. Adesso l’Afghanistan sta diventando una casa sicura per tutti i gruppi terroristi.

Ma la popolazione non ci sta, le giovani donne trovano il coraggio di scendere per le strade, sfidando le rappresaglie. Alzano cartelli per reclamare i loro diritti, allo studio, al lavoro, alla libertà, alla vita. Gli stessi slogan delle loro sorelle iraniane e delle donne in lotta in tutto il mondo. Quanto è diffusa l’opposizione ai Talebani?
MR Ovunque. Anche nelle zone più arretrate e conservatrici la gente vuole godere dei minimi standard umanitari, sono richieste di base, istruzione, salute, lavoro. Ormai hanno capito che non possono aspettarsi niente di tutto ciò dai Talebani. La sicurezza promessa non c’è, gli attentati continuano, le persone muoiono di fame e non possono lavorare. È insopportabile per chiunque.

Un sentimento di sfida, fatto di gesti semplici: così la piccola resistenza si nasconde nelle pieghe del quotidiano, nell’ombra della dignità ferita. Come si manifesta?
MR Con la musica ad esempio. È molto importante per noi, specialmente quella tradizionale. Alcuni musicisti sono stati arrestati e uccisi ma la gente continua a suonare dentro le case, in segreto. Quando riesci a sentirla ti apre il cuore alla speranza. Ragazze e ragazzi non hanno rinunciato ai loro interessi. Si riuniscono in piccoli gruppi leggono, dipingono, suonano, non si lasciano abbrutire. Ci sono giovani donne che hanno il coraggio di uscire tra loro e senza uomini, indossando solo un velo, senza burqa o hijab nero.

E poi ci sono le ragazze che frequentano le scuole segrete di Rawa. Rischiano, si impegnano e imparano, acquisendo armi per il futuro. Qual ruolo hanno i social media?
MR Sono diventati importanti, anche se pericolosi: è necessario proteggersi, essere attenti a nascondere le proprie tracce. Sono un luogo dove la gente può dire che cosa pensa, mostrare la propria rabbia contro i Talebani, coinvolgere gli altri. Quando il ministro dell’Educazione talebano ha dichiarato che sono le famiglie afghane a non voler mandare a scuola le bambine, è nata spontaneamente una campagna sui social media che si è diffusa molto velocemente. Piccoli messaggi e slogan a favore dell’istruzione delle donne che si sono diffusi in tutto il Paese, in qualsiasi provincia e tra le persone di tutte le etnie.

Il rischio è alto, soprattutto per il lavoro di Rawa. Quali sono gli ostacoli?
MR Anche un piccolo evento, diventa un miracolo. È complicato portare persone sotto lo stesso tetto, non insospettire i vicini, non far sentire le proprie voci da fuori, preparare un piano, una scusa plausibile per la riunione, nel caso in cui i Talebani facessero irruzione. Viaggiare per seguire i nostri progetti nelle province, è difficile: i check points talebani sono ovunque e controllano tutto. Come sempre, ci muoviamo con un basso profilo e molta cautela.

Il racconto delle messinscene che le attiviste di Rawa sono costrette a recitare per ingannare i Talebani è sorprendente. Non possiamo raccontarlo, per ovvi motivi di sicurezza. Ma come fate a portare avanti le vostre attività in queste condizioni?
MR Abbiamo una lunga esperienza della clandestinità, maturata in decenni di lavoro e di sopravvivenza, anche sotto i Talebani, e una solida rete di relazioni e sostenitori. E poi c’è l’esperienza delle lotte delle altre donne e degli altri uomini che, accanto a noi e prima di noi, hanno resistito all’oppressione.

La vostra battaglia si combatte anche nella mente delle donne, è così?
MR Molte donne pensano che non ci sia niente da fare, che la vita prigioniera che stanno vivendo sia il loro destino e che non possano fare altro se non ricorrere a quella atavica e spaventosa forza di sopportazione che fa parte della loro storia. La rassegnazione è il nemico più insidioso. Lo scopo del nostro lavoro -in questo momento in gran parte di soccorso alle prime e più urgenti necessità- è quello di creare una nuova consapevolezza politica, la fiducia e la certezza di poter cambiare le cose. Cerchiamo di spiegare che ognuna di loro può fare qualcosa. Che la politica -di cui non vogliono occuparsi- è importante e che se il governo cambiasse anche molti aspetti della loro vita quotidiana potrebbero mutare. Che potrebbero godere dei diritti che spettano loro, che la vita che fanno si può e si deve trasformare, un passo alla volta. Ci vorrà molto tempo ma il cambiamento ci sarà. E ci sarà solo se le donne ci crederanno.

 

Pubblicato su Altreconomia, n. 253

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

 

La silenziosa resistenza delle donne costruisce l’Afghanistan del futuro

Nonostante la repressione dei talebani, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane garantisce assistenza sanitaria e la distribuzione di alimenti nei villaggi più poveri. Costruendo reti e relazioni, il vero motore di ogni rivoluzione culturale

Che cosa significa organizzare la resistenza in un Paese riconsegnato agli aguzzini talebani dopo vent’anni di occupazione occidentale? Per un’organizzazione di donne costretta a rimanere in clandestinità anche durante gli ultimi venti anni di cosiddetta democrazia, la strategia è ben rodata: si tratta di costruire un tessuto di relazioni sociali che sfuggano al potere di turno, attraverso la solidarietà e l’esercizio attivo di empowerment delle donne, a cominciare da quelle escluse da ogni diritto.

È con questa chiave che vanno lette le iniziative dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) che, anche in queste condizioni impossibili, continua a essere ben presente ed efficace dove nessuna organizzazione di soccorso internazionale riesce ad arrivare: le aree più remote del Paese, mai toccate dalle briciole dei mille miliardi di dollari spesi dagli ex occupanti per mostrare quel miglioramento delle condizioni di vita a giustificazione della missione militare.

L’attività umanitaria di Rawa, che va dall’assistenza sanitaria di base alla distribuzione di alimenti e generi di prima necessità, è qualitativamente ben diversa da quanto una qualsiasi organizzazione non profit potrebbe organizzare. Svolgere queste missioni implica un alto grado di consapevolezza politica in chi affronta il rischio di violare i decreti o le leggi non scritte, ma ugualmente efficaci del precedente regime fondamentalista a tutela occidentale, e grande competenza nel muoversi in clandestinità salvaguardando l’incolumità degli attivisti.

È una incredibile palestra di formazione di giovani attiviste sul campo, che crescono attraverso il lavoro di base, imparano a relazionarsi con i soggetti locali, a rafforzare e legittimare il ruolo delle donne in quei contesti arretratissimi, a individuare potenziali leader tra le donne locali con cui restare in contatto per pilotare percorsi di formazione successivi, che comportano alfabetizzazione e azione sociale collettiva in modo inscindibile. Niente indottrinamento. Si impara mettendosi al servizio della comunità, coinvolgendo dal basso, imparando insieme a prendere in mano il destino personale e collettivo.

Le domande poste ai locali per costruire consapevolezza sulle condizioni materiali di vita a partire dai bisogni concreti aprono loro gli occhi sulle responsabilità, sui soggetti coinvolti, sulle possibili piste di resistenza. C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato e sistematizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria.

In questi mesi estivi, ad esempio, squadre di volontarie -e supporter uomini- di Rawa hanno raggiunto le montagne della provincia di Logar per soccorrere un campo di sfollati interni con una unità sanitaria mobile. Nel campo due vivono una cinquantina di famiglie, ciascuna composta in media da una dozzina di membri, in maggioranza donne e bambini, che sopravvivono in tende miserabili, lontani dai centri urbani. Sono costantemente in balìa degli eventi climatici estremi che, a causa del disastro ambientale planetario, colpiscono in modo particolarmente severo questa zona del Pianeta priva di infrastrutture. Alluvioni, come quella di inizio settembre che ha mietuto migliaia di vittime in tutto il Paese, ma anche il gelo dell’inverno e le temperature eccezionali estive. Senza accesso all’acqua potabile. Gli sfollati hanno accolto l’unità sanitaria mobile con grande entusiasmo e ospitalità.

La provincia di Logar è stata scenario di conflitti tra i talebani e il governo precedente che se ne contendevano il controllo. Gli improvvisi scontri armati hanno causato più volte la perdita di ogni bene alla popolazione locale, che ripetutamente ha visto distruggere tutte le proprie scorte alimentari, unica fonte di sostentamento. Anche oggi vivono di allevamento e agricoltura, ma a malapena producono abbastanza per sostenere la propria famiglia giorno per giorno. Un anziano ha raccontato alle attiviste di Rawa che loro non avevano mai ricevuto alcuna assistenza, né dal governo né da associazioni umanitarie pubbliche o private: questa era la prima volta che qualcuno li raggiungeva. Sono completamente deprivati dei loro diritti più elementari: acqua potabile, cure sanitarie, servizi igienici, case e scuole per i bambini. Non sorprende quindi l’alto numero dei pazienti che hanno fatto ricorso alle cure sanitarie di Rawa, in maggioranza donne in gravidanza e in allattamento. Tutti segnalavano la mancanza di acqua potabile come il principale problema: la dissenteria ne è una conseguenza cronica, sia per gli adulti sia per i bambini; e l’igiene è compromessa. Molti bambini soffrono di malnutrizione e polmonite.

Le unità sanitarie mobili di Rawa si spostano in diverse province, dove selezionano dopo un’indagine accurata in quali aree intervenire. Ad esempio nel Parwan, una provincia del Nord, il luogo selezionato è stato un piccolo villaggio e bellissimo (di cui non faremo il nome) situato in una valle coperta da alberi di albicocche. Qui i pazienti soccorsi sono stati 200 tra cui donne con gravi carenze vitaminiche e bambini con diarrea e malnutrizione. È stata svolta un’attività di formazione per il controllo delle nascite, per le misure igieniche e per la prevenzione del Covid-19.

C’è un grande sapere delle donne che aspetta solo di essere valorizzato: serve farne tesoro per costruire un’organizzazione realmente rivoluzionaria 

In questa zona esiste un unico piccolo presidio sanitario, ma si trova a un’ora di cammino e non ci sono mezzi di trasporto né pubblici né privati: raggiungerlo è molto difficile sotto il sole cocente o la neve abbondante dell’inverno che cancella i sentieri. Le persone hanno raccontato che quest’anno finalmente, dopo tre anni di alluvioni che hanno distrutto i raccolti, le albicocche hanno potuto dare molto frutto. Purtroppo però il collasso economico del paese ha imposto loro prezzi di vendita da fame: sette chilogrammi di albicocche per 50 afghani (equivalenti a mezzo dollaro). Hanno quindi deciso di venderne una quota come albicocche essiccate, al prezzo di 1.100 afghani (12 dollari) per sette chilogrammi, ma temono che pochi possano permettersi di comprarle data la miseria in cui è sprofondato l’Afghanistan. Rischiano quindi di non guadagnare abbastanza per affrontare il prossimo inverno.

Il processo di essiccazione delle albicocche è totalmente gestito dalle donne che, malgrado il peso notevole del lavoro domestico, lavorano fianco a fianco con gli agricoltori uomini. Una buona percentuale degli abitanti del villaggio erano stipendiati in precedenza come dipendenti dell’esercito afghano, della polizia e delle forze di sicurezza sia governative sia private, ma con l’arrivo dei talebani molti sono fuggiti in Iran, da soli o con le proprie famiglie, e sono ancora gravemente esposti a rischio di ritorsioni.

La principale preoccupazione degli abitanti del villaggio è che le loro figlie siano private dell’istruzione. La maggior parte delle ragazze che andava a scuola ora si vede negato questo diritto a partire dal sesto grado (conclusione del ciclo di scuola primaria). Sono consapevoli, invece, che solo una generazione bene istruita può garantire un futuro al loro Paese.

 

Pubblicato su Altreconomia n. 252

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA