Skip to main content

Bombe e promesse

“Sì, io c’ero. Ero alla mia Università, a Kabul, quella mattina del 2 novembre.” Nashrin ha 21 anni, studentessa alla facoltà di Lettere e Lingue.

“La lezione era sospesa. Qualche minuto di pausa, stavamo chiacchierando. Uno di noi è uscito dall’aula ed è tornato subito indietro, terrorizzato. Gridava di uscire immediatamente, dovevamo scappare. C’era un attacco in corso. All’inizio non lo abbiamo preso sul serio, abbiamo capito qualche secondo dopo, con il rumore assordante degli spari, sempre più vicini, e le urla che rimbombavano nei corridoi. Abbiamo avuto fortuna, siamo riusciti ad uscire dall’ Università. Altri compagni non ce l’hanno fatta, sono rimasti intrappolati, feriti o morti. Ho perso due carissimi amici quella mattina. Ogni giorno ci sono attacchi in Afghanistan, anche all’Università ne avevamo già subiti, ma quando ci sei in mezzo, vedi, senti il terrore e provi il dolore della morte di persone care, la vita non può mai più tornare come prima.”

Il Governo, si lamentano gli studenti, non fa niente per proteggerli. Né ha fatto nulla per le famiglie degli studenti uccisi o per i feriti. Nemmeno per far fuori i terroristi, tre, ce l’hanno fatta da soli. Sono intervenute le truppe Nato, unità della missione ‘Resolute Support’. Ragazze e ragazzi si sentono abbandonati, lasciati soli ad affrontare la paura e la morte, la scommessa di restare vivi. Ma sono ancora più severi nelle loro accuse.

“Lo stato afghano, continua Nashrin, è implicato in tutti gli attacchi che avvengono nel paese. Non direttamente, come esecutore, ma è complice. Lascia entrare nel nostro territorio armi e esplosivi, lascia fare. Del resto è ovvio. Il Governo è un mercenario degli Usa, del Pakistan, dell’Iran. E gli Usa, da sempre, sostengono talebani e fondamentalisti di tutti i tipi, usandoli come pedine nei loro giochi. Dunque è chiaro che il Governo non si impegni nella sicurezza.’

Talebani e Daesh si palleggiano le responsabilità degli attentati, negando, rivendicando, negando di nuovo. La firma sulla morte non ha alcuna importanza per questi ragazzi che ogni giorno devono lottare per strappare il loro futuro al disastro. Proprio loro sono diventati l’obiettivo più frequente degli attentati degli ultimi mesi.

“C’è una volontà di distruggere l’istruzione.- conclude Nashrin- Cercano di annientare la generazione futura, vogliono che restiamo tutti analfabeti, senza coscienza di quello che accade nel paese, incapaci di governarci, per poterci manovrare e instaurare i loro governi fondamentalisti senza ostacoli.”

Dasht-e-Barchi, quartiere di Kabul. Li avevo incontrati un anno fa. Ragazze e ragazzi, seduti per terra insieme, uno accanto all’altra, davanti alla vetrata luminosa che proietta le loro ombre intrecciate. Giovani donne e giovani uomini, seri, impegnati, che sorridono compunti, con i loro occhi a mandorla. Sono tutti hazara, sciiti, molti vengono da Bamyan, dove le persone sono più aperte e più ostili al fondamentalismo.

E questo i terroristi lo sanno.

È qui, in questo quartiere, pieno di casermoni in costruzione e polvere, ai margini della città, che l’attentatore si è fatto saltare in aria, la mattina del 24 ottobre, nell’ora in cui gli studenti entravano nel complesso scolastico. 13 ragazzi morti e decine di feriti. Nella foto, la desolazione del dopo, di ogni attentato: terra bruciata, scarpe spaiate, oggetti personali, macchie scure, plastica bruciacchiata, fogli di quaderni. Chissà se c’erano anche loro, i ragazzi che ho conosciuto, quella mattina alle 8:30? Chissà se sono ancora vivi.

“Aiutiamo gli studenti che arrivano qui a Kabul per la prima volta– mi raccontavano- Vengono dalla guerra, dalla povertà, alcuni da Bamyan come noi. Noi siamo i loro fratelli maggiori, li sosteniamo nelle scelte, troviamo un posto dove farli abitare, un piccolo lavoro. Parliamo molto, trasmettiamo le nostre idee di democrazia e uguaglianza, dei diritti delle donne.’

E anche questo lo sanno i terroristi.

Sono loro, questi ragazzi seri e generosi con le loro idee di resistenza, sono loro i nemici. È questo che talebani e Daesh vogliono colpire. I ragazzi di Dasht-e-Barchi hanno, ai loro occhi, due colpe imperdonabili: sono Hazara, sciiti, e vogliono studiare.

Dall’inizio dei ‘colloqui di pace’ gli attacchi, non solo contro gli studenti, si sono moltiplicati, assediano i civili in ogni spazio della loro vita. Secondo l’Onu, c’è stato un aumento dei massacri del 50% negli ultimi tre mesi. Il primo risultato, delle tanto decantate trattative, per la popolazione, è stato questo.

Un esempio. Solo nell’ultimo mese: il 15 dicembre saltano in aria il vice-governatore di Kabul Mahbubullah Muhibbi e il suo segretario. Contemporaneamente, è ucciso un poliziotto, durante un assalto in un’altra zona della città. Il 13 dicembre in due attacchi separati, con bombe e armi da fuoco, muoiono tre persone. Alla periferia di Kabul una bomba magnetica, attaccata a una macchina, fa quattro vittime, mentre, in un’altra zone della città, viene ucciso un Pubblico Ministero. Lo stillicidio di morte quotidiana della capitale. L’aumento giornaliero degli omicidi ‘mirati’.

Un amico anestesista, che lavora a Kabul, ci confessa, per la prima volta nella sua vita, di avere davvero paura: “Un giorno i terroristi uccidono un giornalista, il giorno dopo un medico, o un procuratore o un insegnante. Possono seguirti, controllarti. Non sai mai se e quando toccherà a te.”

Nelle province gli attacchi talebani continuano, ogni giorno, a mietere vittime nella polizia, nell’esercito, tra i civili.

A quale strategia risponde questa micidiale escalation di orrore?

C’è una logica interna al movimento, blandire i più estremisti, c’è la rivalità con Daesh, la guerra tra loro per il controllo del territorio. Ma non solo.

La violenza è un’arma di pressione per ottenere il massimo dai colloqui di pace. Per sedersi a questo tavolo, i talebani hanno già intascato la promessa della partenza delle truppe Nato e il rilascio di ben 5000 loro compari. Non poco.

Il 2 dicembre, finalmente, gli esponenti talebani e il Governo si sono accordati sulle regole procedurali da seguire durante i colloqui veri e propri, che stanno iniziando dal 5 gennaio a Doha.

Hanno stabilito la legittimità del Governo di Kabul, riconosciuto per la prima volta anche dai talebani. Le risoluzioni dell’Onu e le decisioni prese nella recente Loya jirga saranno la base di partenza per le discussioni comuni. Punto spinoso, e rimasto irrisolto: quale codice islamico costituirà la base giuridica dei negoziati? I talebani pretendono il codice Hanafita ma nella rappresentanza del Governo a Doha, ci sono musulmani sciiti che seguono la scuola giuridica Jafari.

Quali che siano i problemi dottrinali, ai talebani conviene giocare la partita.

Si sentono forti adesso, sono i primi attori della scena, sul palcoscenico internazionale.

La guerra ventennale che ha fatto strage di militari e ha orribilmente ucciso e mutilato migliaia di civili (diecimila solo nel 2019), è stata un successo per la galassia terrorista. Successo politico, diplomatico, militare ed economico. Degli ‘accordi di pace’ approfitteranno al massimo. Sono gli interlocutori degli Usa e del fragile e corrotto Governo di Kabul, siedono nelle hall di Doha insieme agli inviati di Trump, tengono in scacco l’esercito afghano, sempre più sconfitto e demoralizzato, e quelli dell’occidente da 19 anni, governano direttamente quasi la metà delle province afghane e altre le controllano indirettamente, sono diventati economicamente autonomi grazie al sempre più fiorente traffico di eroina, acquistata anche dalle grandi case farmaceutiche dell’Occidente e dei minerali preziosi, al ricco sostegno di donatori stranieri e alla domestica attività quotidiana di estorsioni su piccola e larga scala. Un budget complessivo di circa 1,6 miliardi di dollari all’anno. Molti hanno business e proprietà nel vicino Pakistan. Nelle trattative hanno il coltello dalla parte del manico, saldamente tenuto con la violenza e la brutalità di tanti morti civili. L’escalation impone, sotto la spada del ricatto degli attentati continui, traguardi sempre più alti.

Tratteranno per veder riconosciuto formalmente il potere che di fatto già detengono in quasi metà del paese e una partecipazione più estesa e autorevole al governo. C’è chi prevede che riusciranno anche a cambiare la Costituzione. Molto probabile che ne facciano le spese i pochi articoli a favore dei diritti delle donne.

Il Governo guarda al futuro e si porta avanti, cominciando dai bambini.

“Il Ministero dell’Istruzione, racconta Nadia, di Rawa (Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane) –ha rilasciato una dichiarazione secondo la quale tutti gli alunni delle scuole primarie, nei primi tre anni, devono essere istruiti nelle moschee o nelle madrasa per dare agli studenti una “potente identità islamica”. Questa decisione, oltre a permettere ai mullah di molestare sessualmente i bambini piccoli, avrà implicazioni catastrofiche”.

Il traffico di droghe, eroina e anfetamina, la nuova scoperta, continuerà indisturbato a riempire le casse talebane. Nessuno ovviamente lo dice, ma è plausibile che ci sia anche questa clausola negli accordi.

Possono perfino permettersi di non rispettare le promesse, come quella di tagliare i ponti con Al Qaeda. Un documento segreto della Nato, reso pubblico il mese scorso, mostra la consapevolezza degli americani che non si fanno alcuna illusione su questo impegno. Yakoub, il nuovo futuro capo talebano, potrà tranquillamente calcare le orme di suo padre Omar. Il documento conclude che per far fuori i talebani, come è stato per i gangster americani, bisogna colpirne le finanze. Tracciare, bloccare, mandare a monte i numerosi business, soprattutto eroina e minerali preziosi.

20 anni di massacri di militari e civili, uomini, donne, bambini soprattutto, e ci si ritrova come nel 2001, solo che i terroristi sono molto più forti e gli attacchi sempre più sanguinari.

La gente ha paura, soprattutto le donne.

Pashtana è direttrice dell’Orfanotrofio di Afceco, che ospita 62 ragazze.

“Ce lo dice la nostra Storia. Con l’avanzata dei talebani siamo minacciati dal ritorno di un passato spaventoso. Per questo siamo molto preoccupati per i pericoli che assediano le nostre studentesse e per le minacce che riceviamo. In questo momento la sicurezza è una priorità, più urgente del solito, e ci stiamo attrezzando.”

L’Afghanistan del futuro potrebbe essere sempre più simile all’Emirato Islamico di triste memoria e sempre meno a una, anche solo di facciata, democrazia. Un mondo in cui i diritti umani e soprattutto quelli delle donne saranno sacrificati. Se con i ‘colloqui di pace’ cambierà qualcosa, è poco probabile che sia in meglio.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Talebani e Covid

La voce è suadente, carezzevole e parla inglese. Accompagna con cura le immagini, le culla.

Kalashnikov e termometro

Un gruppetto di talebani, lanciarazzi in spalla, turbante bianco e mascherina chirurgica, che trattiene a stento un’indomabile barba nera, puntano la ‘pistola’ alla fronte dei loro compaesani, per misurare la temperatura. Altri, armati solo della completa tenuta d’emergenza, nuova di zecca, camice, tuta, mascherina e guanti, distribuiscono kit di disinfezione alla popolazione, opuscoli con le regole da seguire, materiale sanitario, eseguono test, mentre in secondo piano passano le ambulanze. La voce, in una surreale atmosfera pacata, elenca lentamente tutto quello che la Commissione Sanità dell’Emirato Islamico dell’Afghanistan fa e farà, per proteggere la popolazione, casa per casa, villaggio per villaggio.

È uno dei tanti video, prodotti dai talebani, che circolano al tempo del Covid, in Aghanistan. Una nuova veste del gruppo, lontana dalle esposizioni gloriose consuete, sconosciuta per la popolazione. Sono riusciti a stupire, dopo 25 anni.

I migliori mujahiddin- proclamano i talebani-hanno lasciato i campi di battaglia per trasformarsi in personale sanitario. Assicurano i cittadini che il governo dell’Emirato ha la pandemia sotto controllo. I rimpatriati dall’Iran, che si muovono nelle loro province, sono sottoposti a test. Matrimoni, funerali, riunioni sono vietati, compresa la preghiera in moschea. Ognuno preghi Allah per conto suo, mangi cibo halal e vegetali con vitamina C che saranno distribuiti alla popolazione. Incoraggia i credenti, che fanno le abluzioni prima di ognuna delle cinque preghiere giornaliere, ad usare, nell’occasione, anche il sapone. Si vedono uomini di tutte le età, delle donne nemmeno l’ombra, naturalmente, seduti in un cortile, che partecipano a un seminario informativo sul virus, ascoltano seri le raccomandazioni, e intascano mascherine e sapone. Ringraziano compiti. Ringrazia anche il Ministero della Salute, seppure con riserva. I talebani proclamano di garantire un passaggio sicuro nelle province sotto il loro controllo, al personale sanitario governativo e della Croce Rossa e di avere istituito centri per la quarantena dei contagiati.

Questo è il messaggio che deve passare: la Commissione si occupa della popolazione e della lotta comune al Corona virus. E se ne occupa meglio del Governo.

Il virus fornisce ai talebani un ottimo teatro per la propaganda: legittimare se stessi come governanti del paese e delegittimare il Governo di Kabul. Basta solo mostrarsi un po’ meno incompetenti. Non ci vuole molto. La campagna di prevenzione viene lanciata a fine marzo dalla provincia di Jowzjan e Logar e continua la sua strada. Si moltiplicano i video e gli inviti ai meetings. Ma non tutti si lasciano incantare. Una messinscena , dicono alcuni. In realtà del virus non sanno niente, proclamano altri. I mezzi di soccorso sono bloccati sulle strade controllate dai talebani. C’è chi ha verificato sul campo e ha scoperto che il misuratore di temperatura è fatto di legno e plastica. Finto.

“Se vogliono davvero far funzionare la campagna antivirus e salvare le persone, dice Mirwais, abitante del Nangarhar, per prima cosa devono smettere di spararci addosso e aderire al cessate il fuoco.”

Ma qui i talebani non ci sentono. Il cessate il fuoco per superare la crisi, proposto da Governo e Nazioni Unite, è rifiutato dai talebani. La guerriglia continua, almeno contro le forze governative. Gli attentati aumentano, come gli attacchi ai presidi sanitari. Secondo UNAMA, nella prima ondata Covid, dal 11 marzo al 23 maggio 2020, ci sono stati più di 15 attacchi mirati agli operatori sanitari.

Il Ministero ha fatto presente che, in pieno conflitto armato, non è possibile alcun contrasto al virus. Ma i talebani portano avanti la loro doppia immagine, senza scomporsi, terroristi e crocerossini. Fucile e termometro.

Entrambe utili a sfruttare la pandemia per i propri fini. I talebani hanno capacità tecnologiche, dimestichezza con internet e social media, e curano la propria immagine con perizia. Con immagini accattivanti e promesse si conquistano seguaci. Ma anche con l’ordine sociale e amministrativo. Ci tengono a mostrarsi capaci di governare, del resto l’hanno già fatto. E governare meglio di Kabul. A questo aspetto i talebani lavorano da tempo. Lo sanno fare. Sia nei distretti che controllano direttamente sia in quelli in cui gestiscono il potere in una sorta di ‘governo ombra’. Le tasse, le bollette dell’elettricità, le rate scolastiche si pagano ai talebani. Tasse che, spesso, sono vere e proprie estorsioni.

“Ogni distretto è diverso, il potere è distribuito a macchia di leopardo fin nei più piccoli villaggi. Una continua contrattazione. I talebani hanno diverse strategie per gestirlo – dice Narghez di Rawa- Sostanzialmente tre. O controllano direttamente e apertamente il territorio, o c’è la guerra aperta con le autorità governative, o accettano i governatori nominati da Kabul, completamente esautorati, ‘governatori fantasma’, e gli fanno fare quello che vogliono, governando attraverso di loro.”

Purtroppo, l’ordine talebano, con le sue aberranti regole, precise, basate sul Corano e non discutibili, è apprezzato da una parte della popolazione. Maschile, di sicuro. Per le donne è e sarà lo stesso inferno degli anni ’90.

C’è un’ipotesi o meglio una speranza: che un disastro o una calamità naturale possano favorire la pace, tutti uniti contro il comune nemico, smettiamo di ucciderci. Ma è stata quasi sempre delusa. Sono pochissimi nel mondo i casi in cui questa logica ha funzionato. L’Afghanistan non è tra questi.

Il virus all’attacco dei taleban.

Qualcosa di buono sembra che il Covid l’abbia fatto. Ha decapitato la dirigenza talebana.

Secondo diverse fonti, Hibatullah Akunzada si è ammalato ed è morto di Covid. Nessuna conferma ufficiale ma il capo talebano non si è più visto e c’è un nuovo leader in ascesa. Una poltrona non di tutto riposo. I talebani sono un movimento composito, con interessi e padroni diversi e contrastanti. Non è facile farsi accettare e tenere insieme le diverse fazioni, due soprattutto: Rete Haqqani , vicina ad al Qaeda e all’Isi (Servizi segreti pakistani), e la shura di Quetta.

Nel maggio 2016, quando l’allora dirigente Mansour, è ucciso da un drone americano, lo scettro passa ad Akunzada, un mullah, uno studioso, esperto di testi sacri, della giustizia islamica, responsabile delle fatwa emanate dal gruppo. Era stato il vice di Mansour insieme a Sirajuddin Haqqani. Una volta al potere, sceglie con cura i suoi luogotenenti: lo stesso Haqqani, comandante della potente rete, e Muhammad Yakoub, giovane figlio del mullah Omar. Entrambe le fazioni sono soddisfatte. Ma ecco che il virus si porta via anche il secondo di Akunzada, Sirajuddin Haqqani. Malato, morto o troppo debole per il comando, non si può dire con certezza ma, anche lui, sembra fuorigioco.

Così il Covid spiana la strada all’ambizioso Yakoub che non vedeva l’ora di emergere. Un documento della Nato lo vede già al comando entro quest’anno. Il giovane leader, capo della Commissione militare talebana, amico del Pakistan, dovrà mantenere il favore dei membri della shura di Quetta, di cui fa parte, e tenere a bada la rete Haqqani.

Finora si è mostrato favorevole agli accordi di pace. Ha al suo fianco mullah Baradar, vicino al padre, negoziatore capo a Doha con gli Usa. Ma le fazioni interne non sono sempre d’accordo. I più radicali, contrari ai colloqui, emigrano verso Daesh. E lui dovrà frenare l’emorragia. L’intensificarsi degli attacchi di questi ultimi mesi, potrebbero servire anche ad accontentare gli estremisti.

Pare che Yakoub possa contare anche sull’appoggio dell’Arabia Saudita, impegnata a contrastare, all’interno della galassia talebana, gli uomini filoiraniani, contrari agli accordi. A sentire le testimonianze, il giovane leader, non sembra ancora molto popolare. Fino al 2015 non era nessuno. Un figlio di papà, insomma, all’ombra del grande carisma del mitico fondatore Omar. Su questa base fa strada. Ha soldi per fidelizzare i seguaci. Entra nella shura di Quetta e diventa capo della Commissione militare di più della metà delle province afghane.

Nell’ambiente dell’intelligence afghana viene descritto come un giovane uomo molto furbo, legittimato dalla famiglia e molto centrato su se stesso. Poco consapevole della realtà afghana, avendo vissuto sempre in Pakistan. Addestrato alla guerriglia da un gruppo terrorista pakistano responsabile di attentati contro obiettivi indiani in Afghanistan e in Kashmir. Sembrerebbe quindi una pedina sicura per il Governo pakistano. Ma nonostante le critiche, non va sottovalutato affatto.

Ha capacità diplomatiche e militari e, poi, Yakoub si occupa di soldi. Tanti. Le finanze talebane sono prospere. Il capitale ammonta circa a un miliardo e 6 di dollari l’anno. E Yakoub si impegna ad espanderlo ulteriormente, nei suoi principali settori: traffico di droga, minerali preziosi, estorsioni e donazioni.

Vedremo se riuscirà a sfuggire al virus e alle numerose insidie del destino di un capo.

Nel frattempo, a Doha, i negoziati in corso tra il governo afgano e i Taliban sono arrivati a un punto di svolta. Se fino ad ora, dal 12 settembre, le discussioni vertevano esclusivamente sulle regole procedurali che costituiscono la base legale dello svolgimento delle future negoziazioni, a inizio dicembre le due parti sono arrivate ad un accordo. Certo, trovare un punto di incontro sulle regole del gioco è stato un passo importante, ma quella che si apre ora è una finestra di discussione su temi pungenti e fonte di grande disaccordo: i diritti delle donne, l’istruzione, un cessate il fuoco permanente. Il 5 gennaio inizia il confronto, sempre a Doha, perché i talebani si sono rifiutati di spostare i colloqui in Afghanistan.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Rukhshana

La storia di Rukhshana, è come quella di Giulietta e Romeo, ma è ambientata in Afghanistan.

Nasce in una provincia povera del Nord, il Panjshir. Dopo la sua nascita, la famiglia si sposta a Kabul e va a vivere in un vecchio quartiere, in quelle case colorate, una attaccata all’altra, che si arrampicano sulla collina, in mezzo alla città, senza acqua né luce. Il padre è un lavoratore a giornata e fa molta fatica a sfamare la famiglia. Ha una mentalità chiusa e tradizionalista e non permette alle figlie di andare a scuola. Rukhshana è ancora una ragazzina quando si innamora perdutamente del figlio dei vicini, ricambiata con gioia. Il ragazzo va a casa sua diverse volte per chiederla in sposa e viene sempre rifiutato. Rukhshana è picchiata dai fratelli e dal padre e minacciata di morte se continua a frequentarlo. La sola ragione dell’opposizione della famiglia è la povertà del ragazzo. L’innamorato non si rassegna, ma il padre di Rukhshana minaccia di ucciderlo se continuerà a proporsi come fidanzato.

Rukhshana e il ragazzo non riescono a far cambiare idea al padre, ma sono innamorati e determinati a sposarsi ad ogni costo.

Un giorno, la famiglia decide di tornare in Panjshir. Rukhshana li sente parlare da dietro la porta. È spaventata, disperata. Sarebbe la fine del loro amore. Decide che è il momento di prendere in mano il suo destino. Pianifica con cura i dettagli, e scappa di casa per unirsi al ragazzo che ama. L’amore rende forti e arditi. La famiglia è furiosa. Hanno disobbedito, hanno sfidato le regole e l’autorità del padre. Devono essere puniti. Ma le ricerche non danno nessun esito. I due ragazzi sembrano spariti, la città è grande e piena di gente. La fortuna li assiste. Ce l’hanno fatta. Decidono insieme di andare in Pakistan per poter vivere il loro amore in pace, e lì si sposano come avevano deciso da molto tempo. Costruiscono la loro vita piena di amore e di cura l’uno per l’altra. Hanno 4 figli, due maschi e due femmine. Nonostante le povere condizioni di vita, sono molto felici. Rimangono in Pakistan diversi anni, solo per proteggersi dalle possibili ritorsioni della famiglia di lei.

Ne passano 14. I due sposi pensano che ormai la famiglia di Rukhshana li avrà dimenticati o perdonati. Così decidono di rientrare in patria.

Purtroppo si sbagliano. Solo una settimana dopo il loro arrivo a Kabul, il marito di Rukhshana viene ucciso dal fratello della donna.

Rukhshana è distrutta da questa tragedia. Ha perso l’uomo che ha tanto amato e si ritrova sola con quattro figli da mantenere e nessun mezzo per farlo. È analfabeta, senza istruzione né capacità di lavorare. Una vedova in Afghanistan non esiste, non ha diritti, né possibilità di decidere. È costretta a vivere con la famiglia del marito, e a sottostare ad ogni loro richiesta. Così fa Rukhshana, vive sotto tutela del cognato. Sta, adesso, con i suoi figli, in una stanza che lui le paga, ed è costretta ad obbedire a tutte le decisioni che il cognato prende per lei e per i suoi figli. Le figlie non hanno il permesso di studiare e sono confinate in casa. Solo il maschio più grande, di 13 anni va a scuola e il resto della giornata lavora. Porta dei carichi di spazzatura fuori dalla città e questo gli permette di avere un piccolo guadagno. Rukhshana, come vedova, secondo le idee della famiglia, non può lavorare. Se prova a cercare lavoro la picchiano e la insultano. È prigioniera.

È molto angosciata e pensa di non riuscire ad andare avanti con una vita così miserabile, senza dignità, né rispetto, né futuro per lei e per i suoi figli. È dipendente in tutto dai parenti del marito. La sua vita e quella dei suoi figli sono nelle loro mani. Deve obbedire a qualsiasi ordine.

“Non desidero altro che uscire un giorno da questa situazione in cui sono imprigionata. Vorrei poter decidere per me e per i miei figli, poterli mantenere e soprattutto mandarli tutti a scuola perché non siano senz’armi, né possibilità in questa difficile vita. La sola ragione per la quale ho bisogno di aiuto è quella di salvare i miei figli da questa vita miserabile e poterli aiutare a diventare degli esseri umani fieri di se stessi come il loro padre ha sempre sognato” – dice Rukhshana. Rompere la dipendenza economica è il primo, fondamentale, passo.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Afghanistan: la marcia del virus

Per donne e bambini l’Afghanistan è il peggior paese dove vivere. Per il Corona virus è senz’altro il migliore nel quale prosperare. Arginarlo e difendere la popolazione è stato impossibile. Gli alleati del virus sono molti, gli ostacoli opposti pochissimi. La popolazione è in larga parte contagiata.

I dati sono inattendibili, il Governo non è in grado di rilevarli. 123.965 tamponi su 37 milioni di persone. (Ministero della Salute Afghano, novembre). Mancano gli strumenti e la disponibilità della popolazione che non ha nessuna voglia di farsi testare. Non esiste un registro nazionale delle morti. La sottostima è evidente. Pochi denunciano i propri cari malati.

La densità di popolazione è altissima nelle grandi città afgane, con Kabul in testa che raggiunge 4500 abitanti per km², famiglie numerose, spazi abitativi piccoli. La distanza sociale è improbabile. Chi scappa dalla devastante guerra di terra tra esercito e talebani, che rende impossibile la vita in molte province del paese, chi torna dall’estero e non ha più il suo posto, approda nelle grandi città, Kabul soprattutto. Profughi interni, Internally Displaced People, IDP, così sono definiti. Vivono nei campi profughi, incuneati nel centro cittadino, che si fanno spazio tra i palazzi di vetro, i Wedding Centers, o ai margini pericolosi della città. Muri di argilla, tetti di eternit o di plastica, tende dell’esercito, tappeti, teli, polvere e fango. Ripari aggrappati uno sull’altro. Villaggi dentro la città, precari e fatiscenti, abitatissimi, senza servizi igienici né acqua potabile, al massimo una pompa per strada. L’inverno è un incubo che uccide i neonati. Hanno forza e dignità queste persone e prendono la loro capacità di resistenza dalla reciproca vicinanza. Si aiutano, si sostengono, si passano il virus.

Migliaia di persone sono in movimento costante dentro il paese, per tornare a casa dall’estero o per scappare altrove. 13 donne sono morte, l’ottobre scorso, tra montagne di passaporti abbandonati, schiacciate e calpestate dalla folla che, nello stadio di Jalalabad, nel Nangarhar, si accalcava per ottenere i visti per il Pakistan. Per lavorare, per curarsi, per vivere una vita più sicura.

Gli ospedali sono pochi, male attrezzati, con personale incompetente, in alcuni manca perfino l’acqua pulita per lavarsi le mani. Nelle zone dove la guerra è incessante, come Helmand, Kandahar, Uruzgan, gli ospedali sono pieni di feriti di guerra, in continuo aumento, e non hanno posto per gli ammalati di Covid. Medici e infermieri, già insufficienti, si contagiano per mancanza di protezioni e lasciano ancor più sguarniti i presidi sanitari. Altri, senza stipendio da mesi, abbandonano il loro posto. I posti letto scarseggiano, mancano ventilatori, medicinali, ossigeno, che i pazienti devono comprare a loro spese. C’è chi non riesce a farsi accogliere nell’ospedale e chi dall’ospedale scappa, spaventato dalle condizioni di cura. Nelle province, i pochi presidi sanitari sono bersagli degli attacchi talebani, o vengono coinvolti nella guerra quotidiana. Sono luoghi ad alto rischio che spaventano personale e pazienti. Può capitare, ad esempio, di saltare per aria su uno IED (ordigni esplosivi improvvisati), nascosto nell’ospedale dai talebani.

Non potrò mai dimenticare l’angoscia di quella corsa in macchina, ci dice Shazia. Abbiamo caricato mio marito, malato di Covid, e abbiamo cominciato a girare per tutti gli ospedali sperando che lo potessero aiutare. Nessuno ci ha accolto. Sulla soglia di casa è morto.”

Eppure gli aiuti della Comunità Internazionale per l’emergenza sanitaria sono stati massicci. Solo qualche esempio: 100,4 milioni di dollari dalla Banca Mondiale, 117 milioni di euro dall’Unione Europea, 40 milioni dall’Asian Development Bank, assistenza tecnica e finanziaria dal Governo Cinese e dall’OMS. Denaro sparito, come sempre, nei meandri della corruzione, del Governo e di chi, nella diffusa rete di potere, si divide la torta.

La società afghana con le sue regole tradizionali e religiose, è stata la culla del contagio. In un primo tempo, i mullah pontificavano in moschee gremite che il virus era la punizione per gli occidentali infedeli, che Dio avrebbe protetto i credenti. Bastava pregare, tutti insieme. In seguito moschee e luoghi di preghiera sono stati chiusi. Ma era tardi.

Quasi nessuno denuncia un parente morto di Covid: la famiglia non potrebbe lavarlo, prepararlo ed eseguire, alla presenza di tutti, i riti funebri, sacri per tutti gli afghani. Per lo stesso motivo non cercano nemmeno di ricoverarli negli ospedali. Morire da soli è inconcepibile.

Il Governo nasconde la realtà, e la popolazione nasconde i propri malati e i propri morti. Il contagio isola, ostracizza, abbandona. Diventa una vergogna. E la vergogna, come l’onore, hanno nella società afghana un potere terribile. Molti all’inizio non ci credevano o preferivano non crederci ma il virus è arrivato in pompa magna e non se n’è più andato.

Era il marzo 2020. L’Iran era un passo avanti. Già il sistema sanitario crollava, le fabbriche chiudevano. Migliaia di lavoratori afghani, 159.000 alla fine di marzo, si sono ammassati alla frontiera per tornare in Afghanistan, nei loro luoghi d’origine. Portando con sé il contagio e distribuendolo ovunque, Herat, il primo cluster, Kabul, con il numero più alto di contagi, Balkh , Kandahar, il Nangarhar. Il flusso non si è fermato. Nell’ottobre scorso gli afghani che hanno attraversato la frontiera con L’Iran, sono ancora 25.917 (OIM Organizzazione Internazionale delle Migrazioni), per un totale di 597.000.

A fine marzo, il Governo si decide e decreta il lock down. Come molte altre nazioni del mondo. Ma l’Afghanistan non è una nazione come le altre.

Quasi la metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà, il 40% con meno di un dollaro e 25 al giorno. Moltissimi sono i lavoratori giornalieri. Aspettano, all’alba, sdraiati nelle loro carriole, con le scope o le cazzuole in mano, nelle piazze di Kabul, aspettano di trovare il pane per la famiglia quel giorno, almeno quello, poi si vedrà. Molti sono gli ambulanti che lavorano per la strada, con piccoli chioschi di verdura, di pezzi di ricambio, di legna, di zuppa calda o di ‘bolani’ (involtini di verdure). Il lock down li taglia fuori dalla sopravvivenza. La maggioranza delle famiglie non è in grado di assorbire lo schock economico del virus. Un effetto domino devastante che ha scoperchiato una catena di disastri. La vita qui è fragile, fragilissima. Basta un passo sbagliato, un soffio avverso del vento, per spezzarla. E il Covid, si è abbattuto come un tifone su una popolazione stremata da 40 anni di guerra e violenza ininterrotte, da un governo fondamentalista, da un esercito di occupazione, dal dominio ottuso e brutale di talebani e signori della guerra, dalla differenza di genere più alta al mondo, dalla miseria che da tutto questo deriva. Vite in bilico, come castelli di carte.

“Nouria -racconta Shafiqa Nouri, direttrice della ONG HAWCA (Humanitarian Assistence for Women and Children of Afghanistan)- è vedova e da molti anni ormai mantiene la sua famiglia, tre figli e un cognato disabile, con il suo lavoro. Fa le pulizie nella casa di un vicino. E’ brava, precisa, attentissima a non perdere quel lavoro che fa sopravvivere i suoi cari. 200 afghani (moneta locale) al giorno, non molto ma è felice di poter sostenere i suoi figli. Improvvisamente il lavoro sparisce. La gente ha paura del contagio e non vuole estranei in casa. Rimane sotto shock per diversi giorni, non sa che fare per i suoi. Niente, nessuna possibilità, nessuna idea. Non le resta che mendicare. Ma non sa come si fa e non è la sola, la competizione è alta. I mendicanti, l’ultimo anello della sconfitta, invadono le strade delle città. Prova a combattere, a conquistarsi uno spazio. Non ce la fa. Non ce la fa nemmeno il figlio più piccolo, il più fragile. Il cognato scompare di casa, è perso. Nouria si decide a chiedere aiuto agli anziani del quartiere, forse le troveranno un lavoro. La guardano, è bella, giovane, sono d’accordo. Eccolo il lavoro. Pagheranno per le sue prestazioni sessuali.”

La strada di Nouria porta soltanto lì e i figli rimasti devono vivere.

Gli uomini senza lavoro perdono la testa. Aumentano i tentativi di suicidio. E, soprattutto, la violenza domestica contro donne e bambini. “Il numero dei casi di violenza che arrivano al nostro Shelter (Casa Protetta) è in continuo aumento.” Continua Shafiqa Nouri. Durante il periodo di quarantena, secondo un’indagine di Save the Children, 3 bambini su 10 e 4 donne su 10 hanno subito violenza domestica, psicologica e fisica. E per loro l’assistenza sanitaria è un miraggio.

“In questo momento, ci racconta Sabira, la maggior parte degli uomini sta a casa ed è coinvolta in qualunque cosa gli succeda intorno. L’uomo non ha lavoro, non riesce a mantenere la famiglia, è frustrato e nervoso. Ecco che inizia a gridare per qualunque sciocchezza. Così fa anche mio marito. Picchia anche la sua seconda moglie oltre a me, ogni giorno, per qualunque cosa. Non è capace di guadagnare nemmeno un afghano. Ha perso il lavoro per la quarantena e adesso è diventato tossicodipendente. Nella nostra casa non c’è più niente, è vuota, completamente vuota. Abbiamo venduto tutto quello che potevamo per comprare da mangiare e per le medicine.”

La speculazione dilaga. Cibo e medicine costano sempre di più e diventano irraggiungibili per molti. “Sono davvero spaventata, – dice Shogofa- i miei vicini di casa, per curare il padre malato di Covid, hanno venduto la figlia di 12 anni. Non so cosa potrà succedere.”

Sono i bambini i più vulnerabili. Specialmente quelli che già sopravvivevano in una condizione precaria. Secondo Save the Children, un terzo della popolazione , che include 7 milioni di bambini, dovrà affrontare la denutrizione. I bambini afghani, anche prima del virus, erano esposti ad alti rischi quotidiani. La vita per loro è un percorso di guerra: violenza, sfruttamento, matrimoni forzati, malnutrizione, abusi, arruolamento forzato. Le sfide per sopravvivere sono molte. Il virus peggiora le cose, rendendo i piccoli sempre più spaventati davanti alla vita che li aspetta.

Il business della droga è più fiorente che mai. Prospera nella disperazione e trova manodopera a basso costo nell’esercito dei disoccupati e degli studenti delle città. Lavorare nei campi di oppio è uno dei pochi lavori rimasti.

Il lock down non può durare in Afghanistan. La fame è più forte. La vita, infatti, ritorna a brulicare per le strade di nuovo affollate. I pochi che possedevano mascherine, guanti e disinfettante, li vanno a vendere. Solo chi ha consapevolezza dei rischi, chi ha un’istruzione, continua a proteggersi. Ma sono pochi.

Intanto gli attentati di talebani e Daesh, in un’escalation di violenza, fanno più paura del Covid.

Sì, – dice Pashtana, direttrice dell’orfanotrofio di Afceco – il Covid-19 è una malattia che colpisce individualmente, i talebani, quando attaccano, colpiscono centinaia di persone. E non basta la mascherina a proteggerci. ”

Tutto torna come prima, nell’insicurezza che la gente conosce da 40 anni. Il virus ormai non si contrasta più.

Le scuole e le università hanno riaperto, racconta Shafiqa Nouri, come i negozi, gli uffici del Governo e quelli privati, le ONG. Così come i ristoranti, le Wedding Hall, i posti per i pic nic. Nessuno si prende cura di se stesso, nemmeno l’uno per cento usa la mascherina a Kabul. Ma non vuol dire che l’epidemia sia sotto controllo. Al contrario imperversa liberamente. Tutti i test che vengono fatti sono positivi e il numero dei morti continua a crescere.”

La vita media per le donne è di 44 anni e poco di più per gli uomini, i vecchi sono pochi. Ma le persone sono spesso malate, mal curate e, ora, ancor più debilitate dalla mancanza di cibo. Così il virus se le porta via. Continua la sua marcia tranquillo, lasciando dietro di sé cicatrici profonde. La morte in Afghanistan, non fa notizia, è consapevolmente presente in ogni spazio della vita. Si muore per malattie banali, di parto, appena nati, per attacchi suicidi, per bombardamenti, per esplosioni di Ied, per battaglie, per i capricci dei più forti e la brutalità degli uomini, per violenza nella famiglia. Il Covid si accomoda tra le numerose cause di morte del paese. È solo una delle tante. Il difficile, sempre, di nuovo, è sopravvivere.

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Istituzione della Borsa di Studio Cristina Cattafesta

Il 7 agosto di quest’anno è mancata improvvisamente e inaspettatamente una grande donna, ma soprattutto un’amica speciale per tutte e tutti noi: Cristina Cattafesta.
Noi, sue amiche del CISDA, abbiamo pensato di dedicare a lei l’istituzione di una borsa di studio a favore di una giovane donna afghana che avrà la forza ed il coraggio di cambiare la propria vita attraverso lo studio ed in seguito mettersi al servizio del suo popolo.
Cristina è stata un’attivista per i diritti dei popoli oppressi, una persona straordinaria.
Ha combattuto ogni giorno a favore dei più fragili, senza retrocedere mai, anche a costo di suscitare l’ostilità dei potenti e pagare di persona.
Ha avuto un’indiscutibile tenacia e fermezza nell’individuare gli obiettivi che si prefiggeva e pochi la potevano eguagliare.
Sappiamo tutte e tutti che il suo cuore era in Afghanistan. In questa lontana terra Cristina, insieme a noi, le sue compagne del CISDA, è stata molte volte ed ha contribuito ad intessere legami duraturi e significativi con le associazioni democratiche afghane che hanno riconosciuto nel CISDA un interlocutore affidabile per sostenere tanti progetti tutt’ora in corso.
È per questo motivo che tutte noi del CISDA, ancora attonite per l’immensa perdita della nostra Presidente, abbiamo pensato di istituire il fondo CRISTINA CATTAFESTA che possa sostenere negli studi una ragazza afghana presso un’università del suo paese.
La giovane, di nome Sara, studierà Legge all’Università in Bamyan per 4 anni.
La somma totale per ogni anno sarà di € 1.300.

IBAN DEL CISDA su cui fare la donazione scrivendo come causale:
Borsa di studio Cristina Cattafesta
IT 64 U 05018 01600 000000113666

 

Ricordando Cristina

Triste no. Non è una giornata triste. Questo Cristina non ce lo avrebbe mai perdonato. Ce ne avrebbe dette di tutti i colori.
La commozione c’è, quella sì, va su e giù insieme alle parole di tutti, ai pensieri, alle note della musica. Sotto gli archi, sui prati, sotto gli alberi di Rocca Brivio camminano, con le sue sorelle, Edoardo, i nipoti, tutte noi del Cisda, affaccendate insieme, le compagne e i compagni di una vita intera, una vita di battaglie e di legami forti costruiti sul campo. Sullo schermo scorrono le sue foto, si fermano in tanti a guardarle, catturati dal suo speciale sorriso, che tutti ci portiamo dietro. Cris, nelle diverse parti del mondo nelle quali ha reso concreti i suoi progetti, i suoi sogni, le giovani idee che nascevano nella mente di chi le stava accanto.

Le foto si muovono sulla melodia, composta per noi del Cisda, da un amico afghano, figlio di una grande donna, militante di Rawa, una delle prime che abbiamo conosciuto. Questo giovane musicista è stato un bambino pestifero. Da piccino, ha sfidato Cristina, con selvagge provocazioni che hanno devastato la sua preziosissima casa. Forse le sue dita sul pianoforte cercano di farsi perdonare le ditate di nutella sul divano bianco…

In tanti hanno scritto, testimoniato la loro amicizia per Cris. Le loro parole sventolano nei fogli appesi ad un filo rosso, come bandiere. I tibetani fanno lo stesso, perché il vento porti in giro e diffonda quello che c’è scritto.

Siamo stati fortunati, niente divieti covid e un dolce sole autunnale che scalda la luce del pomeriggio.

Le note del flauto, così simili alla voce umana, si mischiano al profumo del tè allo zafferano, alla maniera di Herat.

In mezzo alle parole al microfono, alle storie, ai ricordi, è sempre presente la sua ironia, la gioia, la risata, che scappavano fuori anche dai momenti più difficili e disfacevano la paura.

Ci sono tutti a portare qualcosa. Le compagne curde, turche, italiane. A Kabul, nel paese che regnava incontrastato nel suo cuore, l’hanno ricordata in tanti, con affetto, stima e parole di lotta: Selay Gaffar, Hambastagi, il partito della solidarietà, l’orfanotrofio di Afceco, con la commozione appena visibile di tutte le bimbe, piccole e grandi, schierate.

Nelle battaglie politiche non è mai mancato l’amore, la cura delle piccole cose, la solidarietà profonda. Era questo il suo modo. Per noi tutte e soprattutto per Cristina, gli amici afghani sono parte della nostra famiglia.

La travolgente musica dei Luf, ci porta con sé, trasformando la malinconia. Balliamo anche, difficile farne a meno. Poi, arriva “Bella Ciao” e la canzone scritta per Malalai Joya, Kabul. Cantate per lei, sarebbe stata contenta. E la commozione ritorna.

Cristina ci lascia un intreccio di persone, diverse, unite, ognuna col suo percorso. Un disegno che tutto intero si vede a fatica, a volte bizzarro o sorprendente. Fatto di donne e uomini che ci sono. È stato bello riconoscersi in questo pomeriggio dorato di sabato. Il cammino è sempre lì, aspetta.

Qui con noi, in questa giornata, Cristina si sarebbe trovata a suo agio. Di questo sono sicura.

Una giovane ragazza, di nome Sahar, che vive a Bamyan, in Afghanistan, penserà a Cristina ogni giorno, mentre andrà all’Università, con i libri sottobraccio, a studiare legge per difendere le donne del suo paese. È la borsa di studio ‘Cristina Cattafesta’ che noi, amiche del Cisda, abbiamo istituito per lei. Perché rimanga un filo concreto, di trasformazione quotidiana, tra lei e l’Afghanistan, nel procedere della vita di questa futura avvocata. Dura quattro anni, e tutti possiamo contribuire. Già in questa giornata abbiamo raccolto un bel gruzzolo e speriamo di vederlo aumentare presto.