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Rehana, Kabul

Rehana, invece, il marito lo aveva scelto e gli voleva bene. Sono già tre anni che affronta la vita da sola. È vedova, ha 27 anni, tre figli piccoli, un maschio di 6 anni e due bambine di 3 e 4 anni. Il marito, molto giovane, è morto sul lavoro.
Un lavoro pesante e faticosissimo, senza nessuna sicurezza: trasportava pietre. Le caricava su un camion, le portava attraverso la città e le scaricava. Un giorno il camion ha avuto un problema e il ragazzo si è infilato sotto il mezzo, sollevato col crick, per aggiustarlo. Il crick ha ceduto e lui è rimasto schiacciato, colpito alla testa. Dopo una settimana di coma è morto.

È stato un terribile shock per tutta la famiglia e soprattutto per Rehana. La sua situazione economica è disastrosa. Per tirare a casa qualche soldo, lava i panni per le persone che abitano nel suo quartiere ma non basta affatto per lei e i suoi tre figli. Abitano in una piccola stanza a casa del cognato, una famiglia, come loro, molto povera e con molti figli. In Afghanistan questa situazione non può durare, Rehana deve sposare il cognato o un altro membro della famiglia.

Subisce molte pressioni e minacce. Ma Rehana non vuole nessun marito imposto ed è molto decisa a rifiutare questa soluzione. Vorrebbe invece riuscire a badare da sola ai suoi figli e poter vivere in pace.

Aggiornamenti

Entrare nel progetto e avere dei soldi suoi la mette al riparo dalle pressioni della famiglia, permettendole di nutrire se stessa e i suoi figli, di mandarli a scuola, e di cercarsi un lavoro migliore.

L’autonomia economica sposta le carte in gioco e permette alle donne di sottrarsi al ricatto della famiglia e alle violente pressioni dei parenti del marito. Prima Rehana ha avuto l’aiuto di Gianna e ha cominciato a sperare di decidere lei stessa quale vita vuole vivere, una conquista enorme in Afghanistan

Oggi sono Rita e Luigi a starle accanto. I suoi bambini vanno a scuola ed è molto fiera di loro, sono studiosi, intelligenti e dolci. Ha avuto fortuna, ha trovato lavoro come bidella, nella stessa scuola dei suoi bimbi. Ora vive da sola con loro. Guadagna poco, non ce la farebbe senza aiuto, ma è fiera della strada che ha percorso.

Spende i soldi soprattutto per la scuola dei piccoli. Vuole che crescano in un ambiente sicuro, che possano diventare dei buoni esseri umani, uomini e donne degni di rispetto.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Noshin

Noshin è una ragazzina di 14 anni e vive nella provincia afghana di Takar, con la famiglia, in un villaggio sperduto e pericoloso. Noshin è la figlia più piccola e il padre, Hossein, è un contadino che lavora un pezzo di terra non suo, per il quale paga un affitto.
Per molti anni, con il ricavato di quel pezzo di terra, riesce a mantenere la sua famiglia, nei bisogni essenziali, e a pagare il dovuto. Una famiglia considerata tra le più povere della zona. Non possiedono niente, nemmeno la terra sulla quale lavorano e dalla quale dipende la sopravvivenza di tutti. Sopravvivenza sempre più difficile perché i talebani, che controllano la provincia, pretendono da lui una bella fetta del raccolto.
Pagare i talebani significa affamare la famiglia. Ma non ha scelta. Prova a resistere, a opporsi, ma i talebani si prendono con la forza la loro ‘tassa’. La situazione diventa insostenibile.
Il raccolto non basta per tutti e il debito con i talebani continua a crescere. La pressione è molto forte , Hossein è disperato. Sono loro, i talebani, a proporre una soluzione. Una soluzione che non si può rifiutare.
In cambio del raccolto e del denaro che non ha pagato, Hossein deve dare Noshin in sposa a uno dei loro comandanti. Ogni giorno, quando Noshin va a scuola, è minacciata, molestata, insultata, dal talebano che pretende di essere il suo sposo. Se lo trova davanti con il fucile puntato contro il suo petto, le urla di stare a casa e di non azzardarsi ad andare a scuola.
Ma Noshin non ci sta.
Nonostante queste terribili pressioni, continua a seguire le sue lezioni, con caparbio coraggio. Ma un giorno il talebano, fucile alla mano, le butta addosso una minaccia che Noshin non può sopportare. Ora ha davvero paura. Se continuerà ad andare a scuola, uccideranno suo padre in una pubblica esecuzione. La famiglia è in allarme. Sanno bene che i talebani fanno quello che dicono. Discutono a lungo. Non vogliono cedere al ricatto per niente al mondo. La soluzione è una sola: scappare.
I talebani sanno controllare bene la loro zona, soprattutto le strade. Non è facile fregarli. Tutta la famiglia parte, di notte, in silenzio, a coppie separate, con il fiato sospeso.
Ce la fanno. I talebani non si accorgono della fuga e riescono ad arrivare a Kabul. Sono liberi dalle minacce ma, anche nella capitale, la vita è piena di ostacoli per loro. Non hanno niente e il padre diventa un lavoratore a giornata, uno dei tantissimi che affollano le piazze dove i caporali assumono.
Quando riesce a lavorare, porta a casa il cibo per la famiglia, nei giorni in cui non trova niente, se ne torna a casa avvilito e a mani vuote. Nonostante queste enormi difficoltà, Noshin e il fratello continuano ad andare a scuola tutti i giorni. A questo non possono rinunciare, il padre lo sa. Devono studiare, per aprire strade diverse, per sperare in un luminoso futuro.

Aggiornamenti

Questa ragazzina tanto coraggiosa da sfidare i talebani, pur di continuare a studiare, ha, adesso accanto a sé Mara, un’insegnate italiana, che la sosterrà nel suo cammino.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nelofar, Novabad

Sono vedova, ho 38 anni e vivo a Novabad.
Mio marito è morto di cancro 5 anni fa. Ho quattro figli, di 12, 14, 16 e 18 anni. Viviamo tutti con mio cognato, un uomo crudele. Non mi permette di lavorare.
Mi minaccia continuamente: se trovo un lavoro, anche solo se lo cerco, mi caccerà per sempre da casa sua e non potrò rivedere mai più i miei figli.
Fuori dalla loro vita per sempre. Non posso vivere senza di loro, lui lo sa, il ricatto funziona.
Quel poco che ci serve per sopravvivere lo dobbiamo chiedere sempre a lui, è questo che lo fa sentire forte e padrone della nostra vita, se così si può chiamare.
Il mio figlio maggiore soffre più degli altri per questa situazione. Non lo sopporta. Ha trovato amici cattivi. Golam Azrat si sta perdendo, ha cominciato a drogarsi e a picchiarmi, picchia sua madre, a 18 anni.
Non è un bel modo per cominciare la vita. In genere lo fa perché non voglio dargli i soldi per la droga. Sono due anni ormai che i bambini non vanno a scuola, non ce lo possiamo permettere. Vanno a mendicare, questo mio cognato non lo proibisce.
Mi serve aiuto per lasciare la casa di mio cognato, riprendermi i miei figli, trovare un lavoro per vivere insieme e liberi. E per poter curare Golam, perché smetta di drogarsi.

Aggiornamenti

Nelofar è disperata quando entra nel progetto. Vuole salvare se stessa, il figlio maggiore dalla droga e ha paura che gli altri figli, lasciati per strada, trovino anche loro la droga sul loro cammino.
L’aiuto di Laura, Martin, Stefania ed Emma le permette di mantenere i suoi figli e di rompere il ricatto del cognato.
L’autonomia economica le dà un po’ della libertà che non aveva mai conosciuto. Manda i figli a scuola, togliendoli dalla strada e fa curare il maggiore in un Centro di Recupero.
Laura e Mariella le restano accanto per molti anni permettendole di rinforzare le basi della sua nuova vita libera e di resistere alle pressioni del cognato e della famiglia.
Lavora come donna delle pulizie in una casa di gente ricca e guadagna 60 dollari il mese. Il figlio maggiore comincia a studiare l’inglese.
Purtroppo, ultimamente, ha ripreso a drogarsi, anche se non ha lasciato la scuola.
Ma Nelofar non è il tipo che si arrende. Continua a combattere per la sua libertà e per quella dei suoi figli, soprattutto del maggiore.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nafas Gul, Kabul

Nafas ha 45 anni, vive a Kabul, è vedova, il marito è stato ucciso durante la guerra civile
La vita delle vedove in Afghanistan è molto difficile: o vengono segregate nella famiglia del marito e costrette a sposare un cognato oppure, come Nafas, sono abbandonate a loro stesse, in una situazione in cui miseria e disoccupazione sono altissime.
Nafas  lavora come donna di servizio nelle case dei ricchi cittadini di Kabul ma quello che guadagna è insufficiente per vivere: 5000 afghani equivalenti a circa 70 euro mensili. È caduta dalle scale, tempo fa, procurandosi una frattura alla schiena, mal curata, e ha dolori che le rendono difficile il lavoro.
Il figlio, che sa leggere e scrivere ma non ha potuto frequentare la scuola, cerca un impiego ogni giorno, insieme a molti altri afghani, nelle piazze, dove i “caporali” li assumo per un giorno. Ma è raro che ci riesca. Spesso torna a mani vuote, sempre più frustrato. Vorrebbe lasciare l’Afghanistan ma non può abbandonare la madre. Così, entrambi, sono sempre in cerca di un posto dove vivere. I soldi servono per i suoi problemi di salute e non bastano per pagarsi un alloggio.
Nafas e il figlio cercano rifugio, la notte, nelle case di parenti che però li ospitano solo per pochi giorni. Dice Nafas: “Il mio più grande desiderio è quello di avere un’istruzione, per me e per mio figlio e di poter guadagnare abbastanza denaro per vivere in pace la nostra vita.”

Aggiornamenti

Accanto a Nafas arriva Angelika con il suo incondizionato affetto e la sua grande generosità. La vita di Nafas e di suo figlio cambia completamente. Abitano a Kabul e Angelika segue con attenzione ogni loro scelta. Grazie a lei adesso hanno una casa vera, due stanze, cucina e bagno, confortevole e sicura.
Il figlio apre un piccolo negozio di verdura, vicino a casa, e riesce a guadagnare 300 afghani al giorno. L’investimento per il futuro parte, per Angelika, da questo ragazzo.
Frequenta, adesso, per tre ore al giorno, un corso di inglese e computer e per il resto della giornata si occupa del negozio. Con questo diploma potrebbe, più avanti, trovare un lavoro migliore e più redditizio. Nafas è finalmente serena, senza stress, e sta meglio, anche perché non è più costretta a lavorare sodo e non ha più paura del futuro.
Ma l’inverno, gelido in Afghanistan, la fa soffrire e le sue condizioni peggiorano. Non è ancora in grado di tornare a lavorare. Il figlio è costretto a chiudere il negozio perché frutta e verdura costano troppo, adesso che le frontiere col Pakistan sono chiuse.
Un tempo questo paese era un giardino ricchissimo che produceva ogni sorta di prodotti alimentari. Ma 40 anni di guerra hanno devastato tutto e resta solo l’oppio nei campi. Così si deve comprare oltre confine. Non si danno per vinti e decidono di aprire un piccolo negozio di zuppa, a Nafas piace cucinare e il figlio l’aiuterà a vendere. Ma per ora, devono aspettare che Nafas stia meglio. Angelika, per lei, è una sorella e vorrebbe tanto poterla abbracciare.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Manizha, Moqor

Manizha è uscita dal progetto, dopo molti anni, ma la sua è una bellissima storia, cominciata all’inferno e la voglio raccontare.

Ci sono entrata spontaneamente in casa loro, due anni fa. Mio padre mi vuole bene, non mi aveva costretto. Ho accettato io di sposare quell’uomo. È il figlio maggiore di mio zio, ripara motociclette. Lo fa con cura, con delicatezza, è bravo. La sorpresa era dietro quella porta. Sono arrivata nella sua famiglia con le migliori intenzioni. Volevo essere una brava moglie e fare del mio meglio perché tutti stessero bene. Mi sono sforzata di renderli felici. Non me lo hanno permesso.

Ho capito subito che non ero una moglie, né una nuora, nemmeno una donna, solo una schiava. Mi facevano fare i lavori più pesanti, fuori, al freddo, sotto la neve. Ma il peggio doveva ancora arrivare. La mia condanna è cominciata presto.
Un giorno, ha visto un video in tv. Un uomo teneva la moglie segregata in cantina, la torturava, le strappava le unghie. L’idea gli è piaciuta, ha detto che lo avrebbe fatto anche lui.
È lì che tutto è cominciato. La stanza, dedicata a me, era la cantina.
Buia, fredda. Ci ho passato settimane intere con le mani e i piedi legati. Non c’è nemmeno una piccola parte del mio corpo che sia sana. Mio marito usava bastoni, catene, fruste. Pugni e calci sul viso che non posso più guardare. Ho perso le unghie delle mani e i miei piedi non sono più in grado di muoversi. Sua madre era d’accordo. Erano tutti d’accordo.

Humayoun, padre di Manizha.

Spingo un carretto di legno per le strade della città, trasporto qualsiasi cosa, è questo il mio lavoro. Non ho soldi per ottenere giustizia in qualche tribunale.
Non posso correre di qua e di là, tanto lo so, se non puoi pagare, non hai giustizia. Ma difenderò mia figlia a qualsiasi costo. Seguirò il suo caso a mani vuote e la terrò lontana da quel criminale di suo marito.

Quando ho saputo che Manizha in quella famiglia veniva torturata, sono corso a Moqor, (Ghazni) dove abitano e l’ho portata via, con la scusa di una visita a sua madre.
L’ho portata a Kabul, in salvo. Ora è in ospedale. Ho contattato la famiglia di suo marito, ho chiesto che venissero a Kabul a testimoniare, perché quell’uomo sia punito, deve pagare per quello che ha fatto. Ma non si è visto nessuno. Portare via mia figlia da quell’inferno, la casa di suo marito, è, nella nostra cultura, un affronto imperdonabile.
Ora tutta la famiglia mi odia. Ho paura per Manizha, per tutta la mia famiglia, perché il marito è un commander potente e vuole vendetta.

Aggiornamenti

È il suo corpo a raccontare la sua storia, raccolta da un giornalista della BBC afghana, Wahid Paykan. Incontra Manizha nella casa di un parente, a Kabul. Lei non può vederlo, non vede più niente, gli occhi spariti, tumefatti.
È affidata ad Hawca che, prima di tutto, la fa curare all’ospedale di Aliabad. Sta meglio, dicono i medici, ma le torture subite hanno sconvolto profondamente la sua mente. Intanto le avvocate si preparano a ottenere giustizia per lei in tribunale. Il marito è stato denunciato e Hawca seguirà il suo caso, per ottenere il divorzio e la condanna del suo aguzzino. La sua storia fa il giro del web e un appello per raccogliere dei soldi per curare Manizha è pubblicato sull’Unità. Manizha ancora non lo sa, ma la sua voce, soffocata in quella cantina, è arrivata lontano.

La solidarietà è forte e, in breve, si raccoglie una bella cifra per l’emergenza. Ma, oltre l’emergenza, la strada è lunga e buia. Albalisa le starà accanto per molti anni, sostenendola con affetto, fino al lieto fine.
Sono stata a trovare, anni fa, Manizha a Kabul. Manizha è cambiata dopo le cure. È ancora fragile ma ha voglia di parlare e i suoi desideri cominciano a farsi spazio, oltre la disperazione. Discutiamo a lungo, con lei e con suo padre, seduti sui tushak, lunghi cuscini fiorati posati sul pavimento, coperto di tappeti, beviamo infinite tazze di tè.

La stanza è luminosa e ordinata, Manizha, che ha ancora sul viso le cicatrici del suo orribile passato, fisicamente si è ripresa. Ma, ancora, mentre parliamo, quando si toccano argomenti difficili, si scioglie in lacrime. Si sente in colpa per la guerra di famiglia. Si parla di divorzio, il padre l’appoggia e l’incoraggia: ‘Troverai un uomo migliore, questa volta non mi voglio sbagliare.’
Adesso Manizha scuote la testa. Lei ha altri programmi. Li spiega con decisione, muovendo in fretta le mani, parlando a raffica. Per adesso, di mariti, non vuole più saperne. Vuole riprendere a studiare, diventare capace di mantenersi. Poi si vedrà. Il suo sogno di riprendere la scuola viene discusso tra le tazze di tè. Il padre alla fine si convince, l’accompagnerà lui, il pericolo di un rapimento è sempre presente. Ma deve impegnarsi a studiare. Manizha lo rassicura tra le lacrime, questa volta di gioia.

Manizha ha ritrovato il suo bel viso, la sua forza e ha mantenuto i patti. Ha anche frequentato con profitto l’Università, con il sostegno di Albalisa, e si è laureata. L’anno scorso si è sposata con un uomo che ama e che la ama davvero. Lavora adesso, è una donna vittoriosa e, come ha chiesto lei stessa, ha lasciato il posto a un’altra donna, passandole il testimone della speranza e della lotta.

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Lena

Sono di Herat. Ho 45 anni, qui sono tanti. Un tempo stavamo meglio. 40 anni di guerra si sono portati via tutto quello che avevamo. Ora abitiamo in una casa diroccata per la quale paghiamo l’affitto. Mio marito è debole e malato e non è in grado di lavorare.
I miei figli, due maschi, ancora ragazzini, vanno tutto il giorno a chiedere l’elemosina e a frugare nelle discariche. È così che campiamo. Ma qualcosa di peggio può sempre succedere. Mio marito un giorno mi ha detto: ‘Non è vero che non abbiamo niente, abbiamo una figlia in età da marito.’
Ha 14 anni. Adesso ogni volta che la guardo ho paura. Ho paura che lui la venda a qualche uomo sconosciuto. Non è cattivo mio marito, lo ha deciso per farci vivere un po’ meglio. Per la famiglia bisogna sacrificarsi, dice. Lo so che da noi succede così ma non posso accettarlo. Non si vende una figlia a qualche diavolo di passaggio per campare qualche mese.
Voglio salvare la mia bambina, e convincere mio marito a costruire una vita più decente, a trovare un lavoro per smettere di mendicare e per poter mandare a scuola i nostri figli.

Aggiornamenti

Lena trova l’aiuto di Francesca che la segue per molti anni. Il denaro che riceve e le pressioni delle assistenti di Hawca convincono il marito a non vendere la bimba.
Il padre promette di lasciarle finire gli studi e anche gli altri bambini vanno a scuola invece che a mendicare. Lena lavora come donna delle pulizie ma il marito è un osso duro.
Il denaro non gli basta e la picchia perché ne trovi di più.
Manderà di nuovo i figli a mendicare, minaccia. Lena è forte e resiste con le unghie e con i denti perché lui non rovini la vita dei figli. Il denaro che riceve diventa la sua arma di ricatto. Dice al marito che, se non li lascerà andare a scuola, i soldi non arriveranno più.
Pian piano il comportamento del marito migliora, è lei a portare i soldi a casa e non può permettersi di picchiarla. Lena con forza e dignità difende le sue conquiste. Ma la salute del marito peggiora gravemente. Qualche mese fa muore e Lena è convinta che sia a causa di medicine sbagliate.
Il giorno del funerale non va a lavorare e il datore di lavoro la licenzia. Nuovi problemi dunque. Ma non deve affrontarli da sola.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.