Skip to main content

Hakima

Hakima vive attualmente a Kabul. Ha 50 anni e una vita difficile, con gravi problemi di salute. Ha due figlie di 18 e 13 anni che sono il suo grande orgoglio. La figlia maggiore è diplomata e la seconda frequenta la decima classe. Contrariamente a molti matrimoni afghani, quello di Hakima non è stato forzato né deciso dai genitori. Sposa l’uomo che ama e si costruisce una vita dignitosa e felice. Il marito lavora per diversi anni come lavoratore a giornata. Poi, più recentemente, riesce a ottenere un posto come guardia al Ministero dei Trasporti. Così la situazione economica migliora un po’. La vita è sempre ai limiti della povertà ma i due genitori mettono tutto il denaro che riescono a risparmiare nell’educazione delle due figlie. È la cosa a cui tengono di più. Vogliono che le ragazze diventino donne consapevoli, istruite e in grado di lavorare e costruirsi una vita indipendente. Sono molto brave a scuola. La più grande partecipa all’esame di ammissione all’Università e lo passa con ottimi voti. Purtroppo l’Università si trova in una zona molto insicura, è pericoloso frequentare. Hakima non ha i mezzi per mandarla a studiare altrove. Le piacerebbe che continuasse gli studi in una Università privata, più protetta, ma non se lo può permettere.

Un giorno di 4 anni fa, il marito di Hakima è al suo posto di lavoro, come sempre, davanti ai cancelli del Ministero, quando un’autobomba esplode portandolo via con sé. Sono anni molto duri per lei. Vive in una piccola casa a Kabul, in affitto. Non può lavorare, da quando il marito è morto, ha dei seri problemi di salute che glielo impediscono. Hanno una piccola entrata di 30.000 afghani l’anno, circa 350 euro, come pensione da parte del Governo. Questa pensione, naturalmente, è stata ottenuta dopo estenuanti domande e ricorsi nei meandri dei Ministeri. Averla è fondamentale per la piccola famiglia ma le permette a stento di vivere. Non può provvedere agli studi delle figlie che, anche loro, si danno da fare per integrare il magro bilancio. Nonostante tutto, Hakima non ha abbandonato la speranza di poter continuare l’istruzione delle figlie. È per questo che chiede sostegno.

Hakima ha bisogno di aiuto perché le sue figlie possano continuare e terminare il loro percorso di studi. Il suo unico sogno è quello di vederle laureate con in mano gli strumenti per cambiare il proprio destino, una professione che permetta loro di avere la dignità e l’indipendenza economica. Quello che lei non ha potuto avere.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Shamsia

Shamsia ha solo 14 anni. Da nove mesi è ospite dello shelter di Hawca con la sorella Suhraba.

Ecco il suo racconto.

‘Non ricordo che età avessi quando mio padre è morto. Quando era vivo eravamo felici perché c’erano i nostri genitori a occuparsi di noi. Ero contenta di stare con mia sorella e passavamo molto tempo a giocare insieme. Dopo la morte di mio padre, per mia madre, la vita è diventata un inferno. Le mogli dei miei fratelli la attaccavano ogni giorno e le liti erano furibonde. Spesso la buttavano fuori di casa e lei si rifugiava dalla mia sorella maggiore, sposata. I miei fratelli e le loro mogli ci proibivano di avere contatti con mia madre. Non potevano telefonarle né incontrarla.

La prima volta che l’hanno buttata fuori di casa è stata una scenata terribile. La moglie di mio fratello mi ha picchiato e mi ha minacciato che avrebbe fatto di peggio se lo avessi detto a mia madre. Ma io gliel’ho detto lo stesso ed è scoppiata una lite molto violenta. Mia madre è stata picchiata dai miei fratelli e dalle loro mogli. Questa è stata la prima volta che l’hanno mandata via da casa. Io e mia sorella eravamo torturate e picchiate senza nessuna ragione. Penso che sia per tutta questa sofferenza che mia madre si è ammalata di cancro ed è morta. Io e mia sorella dovevamo fare tutti i lavori di casa anche quelli più pesanti senza discutere. Eravamo piccole allora e, a volte, non facevamo le cose proprio bene, come volevano loro. Allora ci picchiavano a morte, ci rinchiudevano in cantina e non ci davano più da mangiare per giorni. Ci dicevano continuamente che non avevamo il diritto di vivere. Ci facevano lavorare fino a tarda notte e ci svegliavano prestissimo per scaldare l’acqua per il loro bagno. Non avevamo mai abbastanza tempo per dormire a sufficienza né per mangiare abbastanza. La nostra vita era terribile. E piena di dolore. Non ci permettevano di andare a scuola. Ogni giorno potevamo vedere tanti bambini della nostra età che andavano a scuola con lo zaino pieno di libri, quaderni, pennarelli colorati. Per noi una vita così era soltanto un sogno. Non ci permettevano di andare a trovare nostra sorella sposata né ci portavano mai da un medico quando eravamo ammalate. Picchiarci era una loro occupazione quotidiana e a volte, lo facevano con del filo di ferro o con i cavi elettrici. A volte mio fratello prendeva un grosso chiodo e mi minacciava di farmi un buco nella testa. Era terrificante. La paura si prendeva tutta la nostra vita. Non abbiamo mai saputo quale fosse la nostra colpa. L’ultima volta, mio fratello litigava e gridava con sua moglie, noi non c’entravamo per niente. Poi, d’improvviso, si sono rivoltati contro di noi. Era tutta colpa nostra, chissà perché. Si sono messi in due a picchiarci, umiliarci, abusare di noi. Dopo questo episodio io e mia sorella abbiamo deciso che non potevamo più stare in quella casa e abbiamo deciso di scappare. Ci siamo mosse in silenzio, prima dell’alba e siamo scappate. Non sapevamo dove andare ma abbiamo corso e corso e corso ancora, finché, stanchissime, ci siamo sedute per riposare e ci siamo nascoste tra i cespugli e gli alberi. Più tardi abbiamo deciso che dovevamo rischiare e chiedere aiuto. Non potevamo farcela da sole. Abbiamo parlato con alcune persone di quel posto e abbiamo avuto fortuna. Ci hanno indicato il Ministero degli Affari Femminili e lì ci hanno portato allo shelter di Hawca. Per noi lo shelter è il paradiso. Abbiamo cibo buono e a sufficienza, vestiti, cure mediche e lo staff è meraviglioso con noi, così che ci sentiamo come se fossero loro la nostra famiglia. Avere una famiglia vera deve essere così. Adesso io voglio studiare e crescere come una persona consapevole e istruita. Voglio diventare una combattente per i diritti delle donne in modo da poter aiutare le donne e le bambine che soffrono quanto abbiamo sofferto noi, in Afghanistan. Vorrei poter incontrare mia sorella sentirmi libera e iniziare una nuova vita.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Malalai

Non sapevo niente, avevo 7 anni. Niente di quello che succede tra marito e moglie. Conoscevo solo i giochi che facevo con i bambini della mia età, allegri, scatenati. Ma mio padre mi ha fatto sposare un uomo di 40 anni. La mia vita si è fermata lì.

Mio marito voleva avere rapporti con me ma io avevo sentito da altre donne che la prima volta fa molto male così ogni notte scappavo e mi nascondevo dove potevo. Questa situazione, lo sapevo, non poteva durare. Dopo due mesi, una notte lui mi ha preso, mi ha legato mani e piedi e mi ha violentata. Sono svenuta e quando mi sono svegliata ero piena di sangue e con un dolore terribile nel ventre. Ero terrorizzata e ho cominciato a gridare e a piangere. Nessuno è venuto a aiutarmi. Mio marito mi ha messo una mano sulla bocca e mi ha minacciato. Non devi gridare, ha detto, perché gridare così è un’azione vergognosa! Ho pianto tutta la notte e per molti giorni non sono stata in grado di camminare. Mi sentivo piena di vergogna e mi nascondevo dalle altre ragazzine. Non riuscivo a dormire la notte per paura che lui venisse a violentarmi di nuovo e anche quando mi addormentavo per un po’, mi svegliavo terrorizzata. Quando mi rifiutavo di avere rapporti con lui mi picchiava, mi legava e mi violentava. Ogni volta perdevo conoscenza. A 20 anni ho dato alla luce un bambino, ma, prima che potessi guardarlo e prenderlo tra le mie braccia, mio marito lo ha venduto, perché eravamo molto poveri.

La mia vita era un inferno ma io credevo che fosse così per tutte le donne nel mio paese. Mi vergognavo a chiedere alle altre donne e ragazze se la loro vita fosse come la mia. Si andava avanti così, un giorno dopo l’altro, e ho messo al mondo 5 figli. Non avevano abbastanza da mangiare, così sono cresciuti malnutriti. La mia figlia più grande, che ha 20 anni adesso, ha la mente di una bambina.

Dopo qualche anno mio marito ha avvelenato mia madre. Nello stesso modo mia cognata ha dato del veleno alla mia bambina di 9 mesi e l’ha uccisa. Mio marito continuava a essere violento con me e i miei figli. Un giorno ha picchiato così tanto la mia bambina più piccola che è svenuta perdendo sangue dal naso e dalla bocca. Davanti a lei, ridotta così, ho giurato a me stessa che non avremmo più tollerato tutto questo. Mai più. Così ho deciso di avere coraggio e di salvarci. Sono scappata con i miei figli e sono andata alla Commissione Indipendente per i Diritti Umani. Qui delle persone mi hanno accompagnato allo shelter di Hawca. Le avvocate mi hanno aiutato e ho fatto una denuncia contro mio marito per le violenze contro di noi e per aver ucciso mia madre. Adesso lui è in prigione, voglio avere il divorzio e la custodia dei miei figli. Devo occuparmi di loro e fare in modo che non abbiano una vita come la mia. Non potrei sopportarlo.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Lailuma

Lailuma ha 50 anni. Ha perso le persone più care della sua famiglia durante la guerra civile nei terribili anni dal 1992 al 1996, in cui Kabul era diventata l’Inferno. Dopo tre anni di matrimonio il marito di Lailuma sparisce, inghiottito dagli orrori della guerra civile. Non ha mai saputo dove e come sia morto ma non l’ha più rivisto.

Ha due figli Lailuma, al tempo della tragedia. Piccolissimi.

Quando il marito scompare, il suocero, come prescrive la tradizione tribale, la vuole obbligare a sposare il cognato. Lailuma non accetta e viene sbattuta fuori casa con i suoi due piccoli. Va da una casa all’altra, cercando di trovare un posto nel quale vivere e crescere i figli. Lavora giorno e notte nelle case, come domestica, per poter tirare avanti con i suoi bambini. Quando la situazione politica cambia riesce ad avere un posto più sicuro, come donna delle pulizie al Ministero dei Lavori Pubblici. Tiene molto all’istruzione dei suoi figli e riesce a farli studiare. La figlia si diploma a pieni voti dalla scuola superiore e il figlio inizia a frequentare l’Università. È molto bravo e, mentre studia, lavora, con contratti a termine, come impiegato allo stesso Ministero dove lavora sua madre. Sta per laurearsi, sembra che tutto proceda per il meglio. Ma a Kabul, la vita è sempre appesa a un filo. Puoi sempre trovarti nel posto sbagliato al momento sbagliato. E quel giorno il figlio di Lailuma sta lavorando in un ufficio del Ministero.

I Ministeri sono target frequenti e un attentato devastante si porta via il ragazzo. Anche Lailuma è al lavoro, in un’altra parte dell’edificio, e sente quello spaventoso boato. Sente, e le si ferma il cuore. Sa che suo figlio lavora da quella parte del Ministero, quella esposta alla strada.

Lailuma non si riprenderà mai da questo shock spaventoso. Ha molti problemi psicologici e fisici, ma continua a lavorare per mantenere se stessa e sua figlia. Purtroppo, recentemente, è stata licenziata perché non è in grado di assolvere anche i compiti più semplici, non è abbastanza efficiente.

Lailuma e la figlia hanno bisogno di aiuto per vivere, per sostenersi dignitosamente, perché Lailuma si possa curare, possa di nuovo stare bene e riprendere a lavorare. Naturalmente il suo sogno più grande è quello che la figlia possa frequentare l’Università e laurearsi.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Deba

Mia figlia Deba ha adesso 17 anni. Ne aveva solo cinque quando suo padre è morto.
Mio marito è stato ucciso dai talebani. Da allora le cose non sono andate bene. La vita di una vedova è molto difficile qui.
Viviamo, io e due figlie, nella casa di mio cognato, qui a Kabul. Ci affitta una stanza in casa sua ma non ha mezzi per mantenere anche noi. Così cerchiamo di arrangiarci. Io vado in giro per il quartiere, raccolgo i panni sporchi e li lavo. In questo modo posso pagare la stanza e la nostra sopravvivenza. Deba ha cercato in tutti i modi di aiutarmi ma lo zio non le permette di uscire di casa per lavorare con me o per trovare qualcos’altro che ci sostenga. Non le permette nemmeno di studiare.
È prigioniera.
Ha sofferto molto per questa clausura e per il comportamento violento dello zio e adesso ha dei grossi problemi psicologici. Spesso, in casa, per strada, dovunque si trovi, cade per terra, grida, piange. Sono due anni che ha queste crisi. Dovrebbe essere curata e prendere delle medicine ma io non posso permettermelo e non abbiamo parenti che ci possano aiutare. Devo fare qualcosa per Deba, questo me lo dico ogni giorno.
Ma cosa? Pregare, certo, questo lo faccio. E mendicare per le strade di Kabul, come molte altre vedove nelle mie condizioni. È l’unico modo per trovare i soldi per le cure di cui mia figlia ha bisogno. Ma sono ancora giovane e mi vergogno. Chiedere i soldi per la strada mi fa sentire senza dignità e poi gli uomini non ti trattano bene.
Se Deba stesse meglio, se avessimo un aiuto, potrebbe iniziare qualche lavoretto a casa e le cose andrebbero meglio. È questo il mio pensiero ogni mattina quando mi sveglio.

Aggiornamenti

Quando Deba entra nel progetto, è sull’orlo della follia, le sue condizioni sono gravi.
Sono Donatella, Monica e Luciana a prendersi cura di lei. La madre la porta dal medico che le prescrive delle medicine e la vuole rivedere regolarmente. La cura sarà lunga.
Ora possono mangiare meglio, aver cura di loro stesse e far curare Deba. Vivono in una stanza più grande e comoda.
Poi, il testimone della staffetta di solidarietà passa a Rachele che da molti anni le sta accanto con il suo aiuto. La vittoria più grande è che Deba riprende a studiare.
È una delle studentesse più brillanti della scuola e passa gli esami con ottimi voti. La loro situazione purtroppo è ultimamente peggiorata e, senza l’aiuto di Rachele, non ce la farebbero a sopravvivere. La madre ha problemi di salute e, data la sua debolezza, ha perso il lavoro e non ha più la forza per pulire e lavare nelle case altrui. Deba non si fida a fare il lavoro di sua madre.
I suoi problemi psicologici non la rendono una buona candidata come donna di servizio e ha paura che gli uomini di casa approfittino di lei e della sua malattia.
Cerca di continuare a studiare, la speranza è nutrita dalla vicinanza di Rachele. Vorrebbe poter trovare il lavoro migliore e adatto a lei.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Suhaila, Nangarhar

Sono nata in una famiglia povera, sette sorelle e nessun fratello. Mio padre era un lavoratore a giornata e lavorava giorno e notte per poterci procurare il cibo.
Avevo capito che, a quel tempo, era una vergogna per una donna lavorare nelle case di altre persone ma mia madre lo faceva lo stesso, all’insaputa di mio padre, in una casa lontana, dove era difficile che si venisse a sapere. Spesso ci portava vestiti vecchi, scarpe consumate e pane secco e altre cose così. Mi ricordo che mio padre era molto violento ma si impegnava giorno e notte per noi. Naturalmente questa era la vita di tutti in quell’area (Chitral- Pakistan).
Anche solo parlare dell’educazione delle ragazze o mandarle fuori di casa per andare a scuola era proibito. Come migliaia di altre ragazze della mia età, i miei genitori hanno deciso il mio destino e mi hanno data in sposa, in cambio di qualche merce, non mi ricordo nemmeno cosa. Non mi ricordo quanto valevo per loro. Io sono la vittima di questa oscena usanza.

Quando mi sono sposata e sono andata nella casa di mio marito io non sapevo assolutamente niente dei rapporti tra marito e moglie. Spesso mio marito dava retta ai suoi genitori che mi accusavano e mi picchiava senza nessuna ragione. Il lavoro era tutto sulle mie spalle. Dovevo occuparmi delle mucche da latte, cucinare, lavare piatti e vestiti di tutta la famiglia, andare a prendere l’acqua, pulire la casa e un grande cortile, costruire case di fango e così via.

La mia prima figlia è nata quando avevo 20 anni. Mio marito non c’era. Era andato a lavorare in un’altra provincia, lontano, e veniva a trovarci una volta ogni due mesi. Durante la sua assenza ho avuto dei giorni molto difficili. Ogni membro della sua famiglia era terribilmente crudele con me.
Mi portavano via la mia bambina e la chiudevano nella loro stanza fino che, a forza di piangere, restava senza fiato. Sono stata picchiata da mia cognata e da mio cognato spesso perché, ad esempio, non avevo preparato in tempo il cibo. Il mio naso è rotto e ho avuto profonde ferite in tutto il corpo, di cui ho ancora le cicatrici.

Dopo un po’ di tempo siamo ritornati nel Kunar, in Afghanistan, e sono nati altri figli, tutte femmine. La mia vita è stata sempre difficile ma il periodo peggiore arriva ora, quando mio marito viene operato per un tumore al cervello e rimane cieco. Fino a quel momento ero stata responsabile della famiglia, essendo madre e anche padre per i miei figli. Vivevamo e lavoravamo in una fattoria e coltivavamo la terra, tutti insieme, con le mie figlie che mi aiutavano.
Questa era l’unica fonte di sopravvivenza per noi. Ho sempre immaginato per le mie figlie un futuro brillante e luminoso, avrei voluto dargli tutto quello di cui avevano bisogno, le necessità primarie per vivere, la sicurezza, la salute, l’educazione.
Purtroppo non sono mai riuscita a mandarle a scuola. Quattro di loro si sono sposate ragazzine, come me. Recentemente il padrone della terra ci ha cacciato via dicendo che eravamo tutte donne e non c’era un uomo che fosse responsabile di noi nel lavoro. Non voleva affidare la sua terra a delle donne.
Adesso vuole sposare una delle miei figlie ma io non sono d’accordo, non voglio, soprattutto perché è molto più vecchio di lei. So che i figli che ha avuto dalla prima moglie sono più grandi di mia figlia. Non voglio che la mia piccola diventi una vittima di violenza come me.

Recentemente mio marito è morto di Covid. Io e le mie tre figlie siamo rimaste sole.

Ho cercato in tutti i modi un lavoro ma non è facile per una donna sola con tre figlie. Ho dovuto scappare da alcuni luoghi di lavoro per le minacce e i pericoli che ci circondavano.

Tutto quello che desidero è che le mie figlie possano studiare e costruirsi una vita sicura e libera.

Per me non è affatto una vergogna lavorare, ma devo trovare un lavoro che possa essere sicuro senza minacce o pericoli. In una situazione come la mia, gli uomini si sentono liberi di approfittare di noi ed è molto difficile difendersi, siamo 4 donne.

Quando ero giovane ero una donna molto forte, una contadina e lavoravo sodo, ma ora sono diventata più vecchia e debole e la mia difficile vita mi ha consumato il corpo e l’anima. Sono diventata incapace di procurare sicurezza e rifugio per i mei figli e per questo ho bisogno di aiuto.

Aggiornamenti

L’aiuto immediato le permetterà di vivere più tranquilla e rilassarsi e Hawca cercherà di trovare un lavoro per la famiglia in un posto sicuro e lontano da pericoli di violenza.

————

Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.