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Shogofa

Mi chiamo Shogofa, ho 18 anni e sono di Mazar-e-Sharif.
Mia madre è morta presto, non la ricordo. Sono cresciuta con due matrigne, le mogli di Rozi Bay, mio padre. Un lavoro vero non l’ha mai trovato. Il problema è mangiare tutti, tutti i giorni, almeno una volta. Non abbiamo una casa, abbiamo vissuto sempre sotto una tenda. Noi e i galli. Prima devono mangiare loro. Sono la nostra fonte di sopravvivenza. Dicono che i galli cantino. A me sembra che urlino. Sono la passione di Rozi Bay e il suo “lavoro”. Belli, superbi, rabbiosi.
Così devono essere per combattere. Penso che mio padre e gli altri uomini gli somiglino. Quasi tutti. Anwar no, è diverso. I combattimenti si fanno davanti alla nostra “casa”. Il giorno delle scommesse mio padre è nervoso. Gli uomini si riuniscono tutti insieme, urlano, incitano. I galli saltano, colpiscono, le penne volano. O uccidono o muoiono. Qualche volta sono feriti e dobbiamo curarli. Il sangue dei galli schizza, rimane nella polvere, l’odore c’è sempre.
C’è confusione. E allora io posso parlare con Anwar, dietro la “casa”. Anche noi donne dobbiamo fare qualcosa. Mio padre ci manda a mendicare per le strade. Le mie madri lo fanno da tempo, sono abituate.
A me non piace, lo odio. Sembra facile. Le madri dicono che bisogna richiamare l’attenzione, lamentarsi. Io non ci riesco, mi vergogno. Dicono anche che ogni tanto quando un uomo si ferma si deve sollevare il burka, farsi vedere. Se ti vede i soldi te li da, tu sei bella.
Ma gli uomini mi fanno paura, dicono cose brutte, pronti a beccare come i galli. Anche Anwar è arrivato con i galli, ne ha venduto uno a mio padre. Anwar è come una porta, aperta verso un’altra vita.
Perché un’altra vita può esserci. Senza galli, senza rabbia, senza fame. Lui non vuole che io vada a mendicare. Lui lavorerà, ci sposeremo. Sarà diverso. È gentile e ha il sorriso più bello del mondo. Ma mio padre non vuole. Ha dei progetti su di me, ne parla con gli uomini, tratta. Anwar dice che non si può più aspettare che mi venda, come i galli. Abbiamo deciso il giorno, il combattimento più importante del mese.
Nessuno badava a noi, ce ne siamo andati. Il burka, un fagotto, un po’ di pane e il sorriso di Anwar vicino. Siamo arrivati a Kabul. Siamo andati subito al Tribunale, per sposarci. Stava per finire tutto bene quando sono arrivati loro dal fondo del corridoio, correvano, mio padre e la matrigna più vecchia. Hanno cominciato a picchiarmi, sembravano impazziti. Dovevo ubbidire e tornare subito a casa, doveva sposarmi con chi diceva lui. Anwar non ha soldi da pagare per me.
Rozi gridava come un pazzo, agitava le braccia. Il giudice era calmo, un’altra specie di uomo. Li ha fermati. Mi ha chiesto cosa volevo fare. Ho detto che non sarei mai tornata a casa. Mai. Volevo sposare Anwar e basta. Lui li ha mandati via. Il giudice mi ha mandato allo shelter di Hawca. Aspetto la nuova vita ma non abbiamo niente per cominciare.
Vorrei sposarmi e anche aiutare la mia famiglia, che le madri e le mie sorelle non fossero più costrette a mendicare, a umiliarsi, a vivere del sangue dei galli. Aspetto.

Aggiornamenti

Shogofa rimane più di due anni nella Casa Protetta, sognando il suo amore e il giorno in cui potrà sposarlo. La famiglia la minaccia e minaccia anche il ragazzo. Sono scappati insieme e questo è un grave reato in Afghanistan. È la Corte che deve decidere se lo può sposare.
Cristina e Roberto la sostengono e lei continua a sperare. Finalmente la Corte dà il sospirato permesso e, nonostante le minacce del padre che assicura che li ucciderà entrambi, i due ragazzi, con il coraggio dell’amore, si sposano e vanno a vivere in un luogo nascosto e protetto con l’aiuto di Hawca. Il marito trova un lavoro e vivono felici insieme con due figli. La ragazza esce dal progetto per lasciare, come lei stessa chiede, il posto a chi ha più bisogno di lei.
Due anni fa, Shogofa chiede di nuovo aiuto ad Hawca. E lo trova con Rita e Luigi. È in gravi difficoltà economiche. Sono costretti a spostarsi spesso perché il padre non ha smesso di cercarli. Qualche mese fa sono scappati da un villaggio, vicino a Mazar-e-Sharif, che era diventato troppo pericoloso. In queste condizioni è difficile mantenersi un lavoro e Shogofa è di nuovo con noi.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Shahzadar

Ho 55 anni, tanti, troppi. Sono di un villaggio nella provincia di Farah. Mio padre mi ha sposata a 13 anni con quest’uomo che si è preso la mia vita.
Da quando sono entrata in questa famiglia, se così si può chiamare, mi hanno sempre picchiata. Fa parte delle mie giornate da anni, a volte non mi danno da mangiare.
Ma non è questo l’importante. L’importante sono i miei figli. Sono arrivati così, come Dio li ha mandati, uno dietro l’altro.
Sono dieci adesso, la maggior parte femmine, è questo il problema. Lui è diventato violento anche con loro.
La mia figlia maggiore, a 13 anni, non ce l’ha fatta più. Non voleva sposarsi, non voleva vivere come me. Non voleva vivere. Si è uccisa.
È per questo che ho paura. Adesso, qui allo shelter, si prendono cura di me, ho molti problemi, sono malata. Qui sono al sicuro, per la prima volta in vita mia, ma non ci posso stare, non sono tranquilla. Come faccio a stare qui con le mie due figlie più piccole, sapendo che le altre sono in quella casa da sole. Senza di me, lui se la prenderà con loro. Non posso permetterlo, devo tornare. Non so davvero cosa fare…

Aggiornamenti

Shahzadar trova rifugio nella Casa Protetta di Hawca con le figlie più piccole.
Qui cercano di curare i suoi numerosi problemi di salute ma Shahzadar non vuole restarci, ha paura per le figlie rimaste a casa. Nel frattempo le avvocate di Hawca prendono accordi con la polizia locale perché sorveglino il marito. Dopo un lungo lavoro di mediazione ritorna a casa, dalle sue figlie.
Intanto arriva l’aiuto di Emiliana, Luciana e Serenella.
Shahzadar può curarsi con i suoi soldi e mandare a scuola una delle sue figlie. Come spesso succede, i soldi diventano un’arma di ricatto nelle mani delle donne. Entrare nel progetto le cambia la vita. Il marito si comporta bene perché teme di perdere il denaro che li fa vivere meglio e ha paura che le assistenti di Hawca, che la vanno a trovare regolarmente, l’aiutino a divorziare. Shahzadar racconta il suo felice stupore nel vedere delle persone che vengono da lei e s’informano della sua salute e altre amiche lontane che le danno una mano, senza nemmeno conoscerla. Non le era mai successo in vita sua. Le cose continuano a migliorare, lentamente.
Shahzadar trova un piccolo lavoro e riesce a mandare a scuola altre figlie, il suo desiderio più grande. Il piccolo lavoro cresce, ora Shahzadar è una brava sarta e tutto il quartiere si fa cucire i vestiti da lei. Tutte le figlie vanno a scuola. Il marito se ne sta buono buono, sa bene che deve la sua sussistenza alla moglie.
Decide, quindi, di uscire dal progetto.
Ecco come saluta le sue sponsor:
’Grazie con tutto il cuore per avermi aiutato per tanto tempo. Onestamente, io sarei molto felice se tu potessi aiutare un’altra donna vittima di violenza e di abbandono, invece di me.
Io, sono diventata una brava sarta e guadagno facendo vestiti per il mio quartiere, la mia vita è migliorata molto.
Grazie al tuo sostegno e alla tua generosità, ho avuto speranza e ce l’ho fatta a stare sulle mie gambe e a essere autonoma. Grazie a te sono diventata una donna forte’.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

Saniya

Mi chiamo Saniya e vengo dalla provincia di Laghman. È il giorno del mio matrimonio, ho 13 anni. Mio padre mi ha promessa da tempo e devo fare il mio dovere. Mia madre cerca di consolarmi ma le viene da piangere: tuo marito non è brutto, è sano. Può bastare, dice. L’ho visto, da uno spiraglio della porta. No, non è brutto e almeno non è vecchio come quello di mia sorella. L’aria sa di nuovo, è quasi primavera. Aspetto qui, nella stanza dove sono cresciuta. La famiglia è arrivata, il cibo pronto.
Ma la festa non comincia. ‘Che succede, perché?’.
Le voci si alzano, le porte sbattono. Il mio “fiancé”, come lo chiamavo con le mie sorelle, non è arrivato. Suo padre ha detto che non mi vuole più. Litiga con mio padre.
La mamma si dispera. Ma a me non importa, improvvisamente respiro di nuovo. Il mio fiancé non mi vuole, e non lo voglio nemmeno io.
Tutto è sistemato, rimango a casa mia. Ma l’illusione dura poco. Non si può sprecare tutto quel cibo, e bisogna riparare l’offesa. I padri si mettono d’accordo. Il suocero pagherà di più, ha altri figli. Il fiancé non brutto è sostituito dal fratello maggiore.
Gli uomini sono contenti, il matrimonio si fa. L’onore è salvo e il riso si mangerà. Questo marito di riserva è brutto, strano, silenzioso. Sordomuto. Adesso sono proprietà della sua famiglia. Di tutti. E’ così che funziona? Il primo fiancé che non mi voleva, adesso mi vuole, tutte le notti, e mi vuole anche suo padre. Non dico niente se no mi picchiano. Devo essere sorda e muta, come il mio sposo.
Quattro figli, tre maschi, una femmina sola, per fortuna. Nessuno è di mio marito. Ma sono miei, tutto quello che ho. Un giorno il fiancé e suo padre portano a casa altri uomini, sconosciuti. È una bella notizia, dicono. Finalmente servirai a qualcosa. ‘Vedi? Pagano per te!’, dice mio suocero mettendo in tasca i soldi. C’è un limite che non si deve superare. Basta. Sono di nuovo incinta, non so di chi.
Prendo i bambini più piccoli e scappo via, via dal fiancé che non era brutto e dagli uomini che mi hanno resa brutta.

Ho avuto fortuna, in fondo. Mio figlio è nato nella casa protetta, nella vita protetta. Non sono più sola. Voglio il divorzio da mio marito. E poi? Il sogno: vivere da sola con i miei bambini, un piccolo lavoro, così la vita avrà davvero quell’odore di nuovo.

Aggiornamenti

Saniya rimane a lungo nello Shelter di Hawca, partorisce il suo ultimo bimbo, viene curata per i suoi numerosi problemi fisici e mentali che 15 anni di matrimonio hanno lasciato nella sua anima e nella sua pelle. Elisa la sostiene dall’inizio e, con il suo piccolo gruzzolo, torna a vivere a casa del padre. Il marito la minaccia ma lei tiene duro.
Le avvocate di Hawca riescono a ottenere il sospirato divorzio, dopo anni di battaglie e, cosa ancora più difficile, la custodia dei figli. Ma anche vivere con i genitori non è facile, il divorzio è una grave colpa in Afghanistan. Riesce a trovare una piccola sistemazione dove può vivere con i figli e mandarli a scuola, libera dalla paura, dai ricatti, dalla violenza. Il suo sogno, lentamente, passo dopo passo, tra enormi difficoltà, si realizza.
Trova lavoro in un salone di bellezza, le parrucchiere sono molto richieste a Kabul. Lavora sodo, impara in fretta per realizzare un giorno il suo sogno di aprire un suo salone e guadagnare abbastanza da mantenere la sua famiglia. È contenta, anche se, per ora, da sola non ce la farebbe. Intanto anche Serenella e Alessandra le stanno accanto, dandole la fiducia e la serenità di cui ha bisogno.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Sabira, Kunduz

Ho 19 anni e sono di Kunduz. Due anni fa mio padre mi ha detto che mi aveva dato in moglie.
Non c’era modo di sapere chi fosse, speravo almeno che fosse giovane. Aveva 52 anni, più vecchio di mio padre e, davvero, li portava male. L’ho visto la prima volta il giorno maledetto del mio matrimonio. L’ho sbirciato dalla porta e mi ha preso il panico.
Ho pianto e urlato così tanto da farmi venire la faccia gonfia come un melone. Tra le braccia di mia madre. Ma lei mi diceva: “Figlia mia, lo so, ci siamo passate tutte. Ma non c’è niente da fare dobbiamo accettare, non abbiamo scelta.
Lui è un uomo potente, ci ucciderà tutti se diciamo di no.” Adesso vivo con lui, sua moglie e i suoi cinque figli. Sua moglie non capisce, mi odia, dice che sono una puttana e che ho voluto io sposare quel brutto vecchio di nostro marito.
Non mi parla mai, m’insulta solo, tutto il giorno, mi fa mille dispetti, aizza i suoi cinque figli contro di me. Tutti insieme sono un esercito. Se parlo di scuola fanno a gara a picchiarmi.
Ma il dolore più grande è fuori dalla finestra. Vedo passare le ragazze della mia età, che, beate loro, non sono sposate, che vanno a scuola insieme, ridono, camminano. Le invidio tanto che mi viene voglia di morire, solo per uscire da qui. Ma poi mi dico: “Se lo vuoi davvero, Sabira, devi crederci. Devi combattere per questo.” Non posso farlo da sola, così ho chiesto aiuto ad Hawca.
Vorrei continuare a studiare e raggiungere quella vita lì, che passa fuori dalla finestra.

Aggiornamenti

Solo la libertà da quest’uomo e la scuola, tanto desiderata, potranno forse curare le sue profonde ferite. La vita di Sabira è davvero insopportabile. Ma quel barlume di speranza, dentro di lei, cresce e si rafforza da quando Costanza, Adriana e Claudia si occupano di lei. Come per altre ragazze, i bisogni elementari della sopravvivenza diventano il pretesto per la violenza. È questo il primo risultato del sostegno. Sabira ha un piccolo gruzzolo solo suo, un piccolo spazio che le appartiene in quella vita opprimente.
Può procurarsi quello che le serve senza chiedere niente. L’autonomia economica è la sua protezione dalla violenza. Non perde la speranza, non si sente più senza via d’uscita.
Vorrebbe il divorzio e, come molte, nello stesso tempo, ne ha paura. Prova a parlarne con la madre.
Spera nel suo appoggio ma resta delusa. “Guardatene bene, risponde, tuo padre non lo permetterà mai e ti ucciderà se farai una cosa del genere. Noi donne dobbiamo sopportare di essere schiave nella casa del marito. Non permetterti di portare la vergogna sulla nostra famiglia, davanti agli altri e alla tribù.” Rimane imprigionata per molto tempo in questo conflitto tra la sua sete di libertà e di riscatto e la paura. Non accetta nemmeno di rifugiarsi nello shelter.
Cerca di illudersi che le cose possano cambiare, chiede aiuto per questo. Ma le cose peggiorano: non riesce a restare incinta e questo, per il marito, è un ulteriore pretesto per la violenza.
Non potrà mai, le dicono, diventare mamma, una colpa inaccettabile. Con l’intervento ripetuto di Hawca il marito si ammorbidisce.
Ora può andare a scuola, seguire i corsi di Hawca, il suo più grande desiderio. Quelle ore passate a scuola diventano la sua ragione di vita. Il marito prende un’altra moglie e questo non migliora per nulla la sua situazione, anche perché rimane subito incinta. Sabira coltiva con tenacia quel minuscolo spazio di libertà che si è conquistata e inizia a insegnare il Corano ai bambini del quartiere. Le vogliono bene, è brava.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Rehana, Kabul

Rehana, invece, il marito lo aveva scelto e gli voleva bene. Sono già tre anni che affronta la vita da sola. È vedova, ha 27 anni, tre figli piccoli, un maschio di 6 anni e due bambine di 3 e 4 anni. Il marito, molto giovane, è morto sul lavoro.
Un lavoro pesante e faticosissimo, senza nessuna sicurezza: trasportava pietre. Le caricava su un camion, le portava attraverso la città e le scaricava. Un giorno il camion ha avuto un problema e il ragazzo si è infilato sotto il mezzo, sollevato col crick, per aggiustarlo. Il crick ha ceduto e lui è rimasto schiacciato, colpito alla testa. Dopo una settimana di coma è morto.

È stato un terribile shock per tutta la famiglia e soprattutto per Rehana. La sua situazione economica è disastrosa. Per tirare a casa qualche soldo, lava i panni per le persone che abitano nel suo quartiere ma non basta affatto per lei e i suoi tre figli. Abitano in una piccola stanza a casa del cognato, una famiglia, come loro, molto povera e con molti figli. In Afghanistan questa situazione non può durare, Rehana deve sposare il cognato o un altro membro della famiglia.

Subisce molte pressioni e minacce. Ma Rehana non vuole nessun marito imposto ed è molto decisa a rifiutare questa soluzione. Vorrebbe invece riuscire a badare da sola ai suoi figli e poter vivere in pace.

Aggiornamenti

Entrare nel progetto e avere dei soldi suoi la mette al riparo dalle pressioni della famiglia, permettendole di nutrire se stessa e i suoi figli, di mandarli a scuola, e di cercarsi un lavoro migliore.

L’autonomia economica sposta le carte in gioco e permette alle donne di sottrarsi al ricatto della famiglia e alle violente pressioni dei parenti del marito. Prima Rehana ha avuto l’aiuto di Gianna e ha cominciato a sperare di decidere lei stessa quale vita vuole vivere, una conquista enorme in Afghanistan

Oggi sono Rita e Luigi a starle accanto. I suoi bambini vanno a scuola ed è molto fiera di loro, sono studiosi, intelligenti e dolci. Ha avuto fortuna, ha trovato lavoro come bidella, nella stessa scuola dei suoi bimbi. Ora vive da sola con loro. Guadagna poco, non ce la farebbe senza aiuto, ma è fiera della strada che ha percorso.

Spende i soldi soprattutto per la scuola dei piccoli. Vuole che crescano in un ambiente sicuro, che possano diventare dei buoni esseri umani, uomini e donne degni di rispetto.

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Noshin

Noshin è una ragazzina di 14 anni e vive nella provincia afghana di Takar, con la famiglia, in un villaggio sperduto e pericoloso. Noshin è la figlia più piccola e il padre, Hossein, è un contadino che lavora un pezzo di terra non suo, per il quale paga un affitto.
Per molti anni, con il ricavato di quel pezzo di terra, riesce a mantenere la sua famiglia, nei bisogni essenziali, e a pagare il dovuto. Una famiglia considerata tra le più povere della zona. Non possiedono niente, nemmeno la terra sulla quale lavorano e dalla quale dipende la sopravvivenza di tutti. Sopravvivenza sempre più difficile perché i talebani, che controllano la provincia, pretendono da lui una bella fetta del raccolto.
Pagare i talebani significa affamare la famiglia. Ma non ha scelta. Prova a resistere, a opporsi, ma i talebani si prendono con la forza la loro ‘tassa’. La situazione diventa insostenibile.
Il raccolto non basta per tutti e il debito con i talebani continua a crescere. La pressione è molto forte , Hossein è disperato. Sono loro, i talebani, a proporre una soluzione. Una soluzione che non si può rifiutare.
In cambio del raccolto e del denaro che non ha pagato, Hossein deve dare Noshin in sposa a uno dei loro comandanti. Ogni giorno, quando Noshin va a scuola, è minacciata, molestata, insultata, dal talebano che pretende di essere il suo sposo. Se lo trova davanti con il fucile puntato contro il suo petto, le urla di stare a casa e di non azzardarsi ad andare a scuola.
Ma Noshin non ci sta.
Nonostante queste terribili pressioni, continua a seguire le sue lezioni, con caparbio coraggio. Ma un giorno il talebano, fucile alla mano, le butta addosso una minaccia che Noshin non può sopportare. Ora ha davvero paura. Se continuerà ad andare a scuola, uccideranno suo padre in una pubblica esecuzione. La famiglia è in allarme. Sanno bene che i talebani fanno quello che dicono. Discutono a lungo. Non vogliono cedere al ricatto per niente al mondo. La soluzione è una sola: scappare.
I talebani sanno controllare bene la loro zona, soprattutto le strade. Non è facile fregarli. Tutta la famiglia parte, di notte, in silenzio, a coppie separate, con il fiato sospeso.
Ce la fanno. I talebani non si accorgono della fuga e riescono ad arrivare a Kabul. Sono liberi dalle minacce ma, anche nella capitale, la vita è piena di ostacoli per loro. Non hanno niente e il padre diventa un lavoratore a giornata, uno dei tantissimi che affollano le piazze dove i caporali assumono.
Quando riesce a lavorare, porta a casa il cibo per la famiglia, nei giorni in cui non trova niente, se ne torna a casa avvilito e a mani vuote. Nonostante queste enormi difficoltà, Noshin e il fratello continuano ad andare a scuola tutti i giorni. A questo non possono rinunciare, il padre lo sa. Devono studiare, per aprire strade diverse, per sperare in un luminoso futuro.

Aggiornamenti

Questa ragazzina tanto coraggiosa da sfidare i talebani, pur di continuare a studiare, ha, adesso accanto a sé Mara, un’insegnate italiana, che la sosterrà nel suo cammino.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.