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Habeba, Kabul

Pubblicazione: 1 Gennaio 2019

Ho 35 anni e sono di Kabul. 12 anni. È a questa età che l’infanzia finisce per le donne. Non si può dire “una vita nuova” quando ci sposano. Non si può chiamare vita. È un’altra cosa, una guerra forse, ma disarmate. Lui aveva 22 anni. L’ha scelto mio padre, naturalmente. Ha scelto proprio bene. Non era normale, di testa. Malato di mente, così si dice.
La furia sempre dietro agli occhi. Dovevo stare molto attenta, spiare i gesti, i segni premonitori della sua rabbia. Mi picchiava, ogni giorno, per sciocchezze, una ragione la trovava sempre. Non lavorava, non faceva niente. Quando gli chiedevo di cercare un lavoro, perdeva proprio la testa.
Ma non c’era soltanto lui. Mia suocera e le cognate si inventavano sempre qualche colpa, qualche cosa di sbagliato che avevo fatto. Anche loro trovavano sempre un motivo per picchiarmi. Forse così si sfogavano di quello che avevano subito. Quattro anni sono passati così e due figli sono arrivati. So cucire bene, facevo questo per trovare un po’ di soldi per i bambini. Un giorno, a furia di botte, mi ha cacciato fuori di casa.
Mi ha lasciato lì in mezzo alla strada. Sono andata da mio padre, ho pensato che mi avrebbe protetto, che avrebbe capito. Forse perfino si sarebbe pentito di avermi dato a quell’uomo.
Mi sbagliavo. Non mi ha fatto nemmeno entrare. Mi ha detto che quella ormai non era più la mia casa, che io appartenevo alla famiglia di mio marito e che dovevo restare con lui, qualunque cosa mi facessero. Mi ha riportato nella mia prigione. Ma mio marito, regolarmente, mi cacciava di nuovo. A volte ero io a scappare. Andavo dai parenti, ma il più delle volte restavo in strada.
È un posto pericoloso ma è meglio di casa mia. Alla fine tornavo da lui, lì c’erano i miei figli. Col tempo, mio marito è diventato completamente pazzo e mio cognato lo ha internato in un ospedale. Non c’è stato molto, è scappato, sparito da tre anni. Io intanto sono scappata di nuovo ma questa volta sapevo dove andare. Una vicina mi ha parlato della casa protetta. Adesso vivo qui con il mio bambino più piccolo. Il maggiore me lo ha preso mio cognato.
Lui e mio padre vanno spesso da Hawca per convincermi a tornare a casa. Adesso promettono che nessuno mi farà del male ma io ho paura e ascolto la mia paura. Non lo farò mai. Tutto sarebbe di sicuro come prima. Intanto voglio guarire, stare bene. Ho molti problemi fisici per quello che mi hanno fatto. Poi vorrei vivere per conto mio con mio figlio, lavorare per me e per lui, farlo studiare. Perché diventi un uomo migliore di suo padre e del mio.

Aggiornamenti

Habeba trova rifugio nello Shelter di Hawca portandosi dietro tutte le sue ferite.
È di Kabul, ma anche qui, nella capitale, le vite di molte donne sono nelle mani di uomini, violenti, drogati o pazzi che ne fanno quello che vogliono. Sotto i burka azzurri, che scivolano silenziosi per le strade della città, si nascondono storie come la sua. Al sicuro, la paura, pian piano sbiadisce. Il piccolo va a scuola ma Habeba vorrebbe con sé anche il maggiore, rimasto ostaggio dello zio. Vengono tutti, cognati, padre, fratelli, tutti a chiedere che torni a casa a promettere pace.
Ma Habeba non varcherà mai più la porta di casa sua, conosce l’incubo. Fiorenza e un gruppo di amiche di Pavia si prendono cura di lei per anni. Ora se ne occupa Beatrice, di Milano. Sta meglio, va a vivere con il fratello, adesso che può mantenersi, e combatte, insieme alle sue avvocate, per ottenere il divorzio, fronteggiando le minacce della famiglia.
Il fratello la sostiene e questa è una grande fortuna qui. Il figlio è bravo a scuola e molto affettuoso. Ma il maggiore non l’ha mai più rivisto.
Finalmente, dopo tante battaglie, arriva il sospirato divorzio. Continua a vivere con il fratello che l’aiuta e cuce vestiti per tutto il quartiere. È una brava sarta.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

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