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Esperimenti di scuola democratica nell’Afghanistan dei Talebani

Circa 15 anni fa in una periferia di Milano avevamo lanciato una provocazione in un istituto particolarmente difficile, offrendo agli studenti un percorso sulla possibilità di riappropriarsi della scuola. Chiedemmo loro chi non vedesse l’ora di tornare a scuola, invitandoli a mettere in discussioni modello educativo e formativo. Il fulcro sarebbe stato l’incontro con dei coetanei afghani, ospiti di un’associazione locale del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda), che pur di studiare erano disposti a lottare e rischiare. Anche 15 anni fa in Afghanistan studiare era difficile, malgrado la propaganda dei governi occidentali che volevano giustificare l’occupazione e la guerra in corso camuffandola da intervento umanitario.

Un diritto all’istruzione tutto storto: sia per gli afghani resi orfani dalla guerra, costantemente a rischio, con il futuro ipotecato dall’occupazione straniera; sia per i giovani in Italia che spesso subivano la scuola come un peso imposto dagli adulti, impermeabile alla vita e al mondo. Quel progetto educativo d’avanguardia era stato sviluppato in oltre 40 anni di attività formativa da parte dell’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa) all’interno di campi profughi, case-famiglia, orfanotrofi, appartamenti autogestiti per sole ragazze, centri educativi aperti in quartieri strategici.

Luoghi in cui è maturata un’esperienza che ha permesso a molte persone di raggiungere un’alfabetizzazione di base ma anche, quando possibile, altissimi livelli di maturazione, comprensivi di una solida consapevolezza politica. Metodi consolidati, ancora oggi adattati, di volta in volta, alle nuove condizioni dei corsi “clandestini”, ma non solo. Perché fare scuola non significa soltanto trasmettere nozioni e solo una raffinata pedagogia della liberazione può contrastare la politica di annientamento del genere femminile attualmente in corso.

Una cattiva scuola è forse meglio di niente ma quella imposta dai Talebani ai bambini afghani oggi è davvero pessima, per maschi e femmine: il rigido controllo sugli insegnanti è mortificante e la dottrina religiosa integralista è il solo contenuto che viene impartito. L’unica nota positiva è poter uscire di casa e incontrare dei compagni.

In alternativa chi può permettersi di pagare una scuola privata, dove esiste, non esita a investire tutte le sue risorse per dare ai propri figli un’istruzione di livello adeguato. E il mercato del “privato” contribuisce a risollevare l’economia, in un contesto di stagnazione. Così, paradossalmente, i Talebani tollerano centri educativi a scopo di lucro inquadrati come business e registrati presso il ministero dell’Economia e del commercio, per far sì che il ministero dell’Educazione interferisca al minimo sulla loro gestione. I divieti imposti alle ragazze sono validi anche lì, ma fino al sesto grado, in classi separate per sesso, è possibile a volte studiare matematica, scienze, inglese, le lingue nazionali, informatica. C’è anche l’arte, ma non la musica, espressamente proibita anche in quei centri.

In queste maglie di privilegio, tra una popolazione che al 90% vive al di sotto della soglia di povertà e in preda alla fame, si insinuano esperimenti di scuola democratica: destinata prevalentemente ai più poveri, facendo risultare il pagamento di rette in realtà insostenibili per famiglie in gravi difficoltà, occultando ogni legame con donatori esteri, queste scuole selezionano personale insegnante di eccellenza. Posti di lavoro a supporto della crescita economica del territorio, gestiti secondo il modello educativo di Rawa. Accade anche in aree remote, ed è un peccato che a causa dei problemi di sicurezza non sia possibile pubblicare le foto di bambini e adulti coinvolti: i loro visi raccontano più delle parole.

Quelle che arrivano da un centro privato aperto a marzo 2023 in un’area rurale dell’interno (sperduta tra i monti, abitata da contadini e pastori) aiutano a comprendere il contesto. La priorità viene data alle bambine, con qualche classe separata per i maschi. Ogni mese i genitori vengono convocati in assemblea per discutere dei progressi dei loro figli ma anche della gestione della scuola, raccogliendo critiche e proposte: un esercizio di educazione popolare per adulti.

La popolazione locale apprezza l’iniziativa ed è pronta a sostenerla di fronte alle minacce che possono insorgere in qualsiasi momento. Questa è la garanzia di continuità di una anonima impresa commerciale femminile privata che potrebbe altrimenti venire spazzata via in qualsiasi momento. Nel mese di luglio un gruppo di studenti ha celebrato solennemente il passaggio a un successivo livello di lingua inglese, con tanto di premiazione. Nell’incontro pubblico, i ragazzi hanno raccontato l’importanza che ha per loro studiare: rielaborare a parole la propria esperienza e confrontarsi è il primo passo per prendere coscienza di sé e del mondo.

La maggior parte di loro appartiene a famiglie contadine. Mahdia, otto anni, ha raccontato che il papà era un poliziotto ed è stato ucciso durante il precedente governo, lasciando una famiglia di sei persone. La mamma ha dovuto sposare, secondo la tradizione, un fratello analfabeta del marito. Mahdia ricorda che il suo papà comprava cibo, vestiti, scarpe ed erano felici. Ora mangiare abbastanza è solo un sogno per loro.

Mujida appartiene invece a una famiglia di sette persone. Sua madre era la direttrice di una scuola e guadagnava abbastanza per mantenerli, ma quattro anni fa è morta di infarto. Hanno dovuto vendere tutto e trasferirsi alla ricerca di un’occupazione ma ora il padre lavora solo un paio di giorni alla settimana. “Certe sere papà torna a casa con le tasche vuote e vuole suicidarsi, ma poi pensa a noi figli, a cosa ci può succedere senza di lui, e si ferma. Da quando sono arrivati i Talebani la nostra vita è tragica”. Trovare le parole e lo spazio per dirlo, tra compagne solidali, celebrando un successo in un percorso di trasformazione, è fare scuola. Un modello da cui abbiamo tutto da imparare.

Pubblicato su Altreconomia n. 263

Gabriella Gagliardo è un’attivista di CISDA

Dossier Afghanistan – I diritti negati delle donne afghane

Ormai uscito dai radar dei media nazionali e internazionali, l’Afghanistan è un paese allo stremo, stretto nella morsa dei talebani e alla mercé degli interessi geopolitici  ed economici di diversi paesi.

Se per tutta la popolazione afghana vivere è una sfida quotidiana, per le donne è un’impresa impervia.

In questo Dossier, CISDA ha voluto ripercorre le tappe principali della storia afghana, cercando di capire chi sono i talebani di oggi e realizzando approfondimenti tematici per comprendere qual è la situazione attuale del paese. Ma soprattutto ha voluto dar voce alle donne afghane raccogliendo le loro storie.

Questo vuol essere un primo documento di un più ampio progetto che, sotto il cappello di Dossier Afghanistan, intende aggregare e amplificare le diverse voci che sostengono il popolo afghano.

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    Imparare a cucire e tornare a vivere. Le sarte che sfidano i Talebani

    Un ronzìo sommesso, ininterrotto, come un silenzio abitato. Le voci dei bambini seduti in braccio alle mamme. Le macchine da cucire non si fermano, le mani accompagnano la stoffa. Un breve momento di sollievo, di gioia perfino, per le donne dai 13 ai 60 anni che sono qui, sedute a terra, ognuna davanti al suo banchetto di legno. Le vediamo attraverso lo schermo del pc, la nostra finestra aperta sulle loro vite. Qualcuna alza la testa, qualche breve sorriso timido, altre si coprono con il chador colorato. I burqa e gli hijab neri sono appesi fuori come tanti impiccati, qui non servono. Siamo a Kabul, all’interno di una scuola di cucito e alfabetizzazione gestita da un’associazione di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza. Una scuola segreta, come tutto ciò che ancora vive in Afghanistan.

    Le ragazze e le donne imparano a confezionare abiti, studiano il dari, la matematica, il disegno e l’arte. Per loro essere qui è una sfida quotidiana, un salto nel buio e nella speranza. Vengono a cucire la trama della loro resistenza all’oblìo, la vita sotterranea che ha ancora il sapore forte della scelta. Realizzano vestiti vivaci, riportano i colori nel mondo. Arrivare al corso è “la battaglia del mattino -come la definisce Sukria-. Quando attraverso quella porta e mi tolgo il burqa so che oggi ho vinto io, non loro. Ho conquistato un giorno nuovo. Posso respirare, imparare, esistere, stare con le altre, lavorare, condividere”.

    Vestito nero fino ai piedi, hijab lungo dello stesso colore e mascherina, oggi è questo il protocollo. Solo gli occhi segnalano la vita. Ma non basta a proteggerle. Hanno paura, tutte, ma continuano a venire. La strada è una trappola: molte di loro non hanno nessuno che possa svolgere il ruolo del mahram (il parente di sesso maschile che deve accompagnare le donne negli spazi pubblici) e si mettono in cammino da sole, esponendosi al rischio di essere fermate dai Talebani, interrogate e persino picchiate perché non hanno con sé un uomo che le sorveglia. Qualsiasi sciocchezza può degenerare. Tornano in mente gli annunci della Corte suprema talebana sulle decine di donne lapidate per “comportamenti scorretti”, le frustate pubbliche, le torture. Sanno che potrebbero sparire e nessuno direbbe nulla. “Persecuzione di genere” l’hanno definita le Nazioni Unite in un rapporto ufficiale pubblicato lo scorso maggio in cui si parla apertamente di crimini contro l’umanità.

    Ogni giorno, nelle moschee di tutto il Paese, la voce fanatica dei Talebani mette in guardia gli uomini: non devono lasciare che le loro mogli vadano a scuola o frequentino corsi di qualunque genere, perché imparano cose sbagliate e possono diventare indipendenti. La donna istruita li terrorizza. Potenzialmente ribelle.

    Quando Sukria ha annunciato in famiglia il suo desiderio di seguire questo corso i cognati si sono opposti e hanno litigato violentemente col marito, che non è totalmente contrario, e lo hanno riempito di botte. Hassan, il marito, non può più lavorare e Sukria al corso può imparare un mestiere per portare a casa qualche soldo: la fame è la sua alleata. Tutti in famiglia avranno bisogno del suo denaro quando potrà vendere gli abiti. Così è riuscita a spuntarla. Adesso, ogni mattina, si prepara a fronteggiare l’esercito dei parenti maschi: minacce, ricatti, insulti. Il loro piccolo orgoglio ferito cerca sempre una scusa nuova per chiuderle quel breve tempo di libertà. “Non ci riusciranno. Quando chiudo la porta sulle loro parole cattive, sento la vita che scorre -racconta-. Penso alle mie amiche, alle mie insegnanti che mi stanno aspettando. Ce la farò, anche stamattina”.

    Fino a qualche tempo fa, proprio dietro il paravento dei corsi di cucito -attività confinata nelle mura domestiche e tollerata dai Talebani- le insegnanti potevano gestire corsi di alfabetizzazione, inglese e materie scientifiche. Ora anche i corsi di cucito sono caduti sotto la mannaia talebana e sono entrati in clandestinità.

    Nooria ha più di sessant’anni, fa un po’ da nonna ai figli delle donne più giovani quando si stancano di stare in braccio alle mamme. Lei non si è mai sposata e vive con la madre: “Se si chiudesse questo corso io soffocherei, sarei schiacciata dai miei problemi psichici. È la mia medicina: essere qui mi fa imparare un lavoro per vivere, certo, ma è molto di più, è tutta la mia vita”. L’isolamento, la totale esclusione dalla vita sociale, la sparizione del futuro consumano la mente. I disturbi psichici aumentano, specialmente nelle giovani, crescono il numero dei suicidi e l’uso di droga. Su quattro milioni di tossicodipendenti, un milione sono donne. “Organizziamo scuole segrete in quattro province: Kabul, Farah, Kunduz e Jalalabad -ci dice la direttrice Nazifa-. Ricostruiscono la vita sociale scomparsa, danno la possibilità di lavorare da casa senza dover affrontare traumi, tengono occupate le mani e la mente e ridanno a queste ragazze la fiducia in se stesse”.

    Quest’attività è molto più difficile nelle province. Nazifa è appena tornata da Farah, una delle zone più tormentate dell’Afghanistan: un viaggio di 19 ore in automobile, assieme al marito. Non sarebbe stato possibile senza un mahram. I checkpoint sono tanti e ogni volta tengono in ostaggio i viaggiatori per ore. “La sorveglianza è strettissima nelle province -continua- la popolazione viene controllata rigidamente e l’intelligence dei Talebani è ovunque. Hijab obbligatorio, sempre, anche con le tremende temperature estive. Bisogna trovare appartamenti privati adatti alla scuola e non è facile. C’è molta paura. Ho ascoltato tante storie terribili: le ragazze spariscono, sempre più spesso, senza lasciare traccia, i suicidi di donne sono in aumento. Ma l’entusiasmo per imparare è lo stesso di Kabul”.

    La sicurezza è il problema principale. Quando la pressione del controllo talebano è troppo forte i corsi devono essere sospesi. Nella scuola della capitale c’è una donna fuori dalla porta, una sorvegliante che controlla l’ingresso delle studentesse: “Entrano alla spicciolata ma i Talebani ronzano qui intorno come mosconi e se si insospettiscono entrano -racconta Nazifa-. Abbiamo una cantina difficile da individuare e le ragazze con le insegnanti si nascondono lì. I nostri colleghi maschi vanno a trattare e io mi presento come un’insegnante di bambine piccole, ancora autorizzate a studiare. Poi, quando se ne vanno, torniamo ai nostri libri”.

    Ai corsi si impara anche ad affermare i propri diritti, a battersi per questa piccola luce di dignità ritrovata. “Qui arrivano i guai di tutte, le loro sofferenze, la paura -dice Nazifa-. E insieme cerchiamo di risolvere i problemi”. Le mani delle altre, i loro volti che ascoltano, i consigli, gli abbracci. È questa la forza che cresce nella stanza grande con le pareti spoglie e la stuoia a quadri per terra. Shirin mischia le parole alle lacrime mentre racconta. Un brutto giorno, un uomo si è presentato a casa sua con una proposta di matrimonio per lei ed è disposto a pagare tanti soldi. Nessuno lo conosce in famiglia. Così il padre si informa: è un Talebano, un pezzo grosso. Ha già mogli e figli ma vuole anche Shirin.

    Deve dire di no, insorgono le compagne. Loro saranno il suo coraggio. La cognata lotta al suo fianco all’interno della famiglia, pagando l’appoggio alla ribellione di Shirin con la violenza del marito. La ragazza minaccia il suicidio se la faranno sposare a quel bruto. Tiene duro. Il tempo passa. Alla fine il Talebano si trova un’altra moglie e Shirin è libera. Si guarda intorno, cerca le sue amiche con gli occhi, le sue guerriere di libertà. “Da sola non ce l’avrei mai fatta. Tutte le mie giornate, da che sono nata, sono passate dentro casa. Uno spazio di altri, senza luce né sogni. Ora, qui, è cambiato tutto. Ho visto che c’è un’altra vita fuori di casa, anzi c’è la vita. Conosco tante donne come me, condividiamo le nostre paure e le trasformiamo in forza. Ridiamo, perfino, e tanto. È molto divertente. L’allegria è importante per restare vive”. Ci mostra il suo quaderno, fierissima di aver imparato a scrivere correttamente. Ora vuole studiare l’inglese. È bella la nuova Shirin, ora che sorride.

    Pubblicato su Altreconomia n. 262

    Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

    Afghanistan Oggi – La vita sotto i talebani

    Fame, violenza, diritti negati, buio sono le parole che rappresentano l’Afghanistan oggi. Un buio metaforico, nell’anima, perché la repressione si insinua in ogni momento della vita degli afghani, e un buio reale perché, come ci raccontano le attiviste di RAWA (Associazione rivoluzionaria delle donne afghane) “l’instabilità dell’elettricità ha sprofondato le città in un’oscurità cupa”.

    28,3 milioni di afghani, su una popolazione stimata di 43 milioni, nel 2023 avranno bisogno di assistenza umanitaria. Una cifra enorme, due terzi della popolazione, dove fame e indigenza assoluta colpiscono principalmente bambini, 54%, cioè più di 15 milioni, e donne, 23%, ossia più di 6,5 milioni. L’inflazione è alle stelle: nel novembre 2022, il prezzo medio del gasolio era superiore del 76% rispetto a due anni prima e quello di un chilo di farina è aumentato del 26% all’anno. Al rincaro dei prezzi corrisponde il calo del reddito familiare mensile: – 17% nel 2022 sul 2021 (dati Unocha 2023).

    Con il blocco del sostegno internazionale allo sviluppo, che copriva il 75% del bilancio del Paese, l’Afghanistan è piombato in una catastrofe economica. Una catastrofe che ha le sue radici nella corruzione degli esponenti dei governi passati, sostenuti da NATO e ONU, durante i quali della pioggia di miliardi di dollari in aiuti umanitari e di sostegno allo sviluppo, solo poche gocce sono arrivate alla popolazione (che oltretutto nelle aree controllate dai talebani, e non solo, doveva sottostare a varie forme di estorsione). E sul destino degli aiuti umanitari, che l’ONU oggi continua inviare in Afghanistan, vengono sollevati non pochi dubbi: “C’è un forte scontro interno ai talebani, con fazioni di vario tipo, ma per ora stanno insieme e continueranno a farlo finché ci saranno soldi da dividersi. Soldi che arrivano dalle tasse e dall’estero… formalmente arrivano come aiuto umanitario, ma giungono a destinazione in minima parte”, ci ha detto un rappresentante di Hambastagi, partito laico e progressista fondato nel 2004 e che oggi opera in clandestinità.

    Ad aggravare la situazione vi è il fatto che l’Afghanistan è altamente soggetto a pericoli naturali, le cui frequenza e intensità sono esacerbate dagli effetti del cambiamento climatico e dai limiti strutturali nella mitigazione dell’impatto dei disastri. Il Paese sta affrontando una prolungata siccità (si entra nel terzo anno consecutivo), alla quale si aggiungono inondazioni e terremoti, che nel 2022 sono stati più frequenti che negli anni precedenti e, ovviamente, la pandemia da Covid-19. Inoltre, con più di 40 anni di conflitti armati, l’Afghanistan ha oggi uno dei più alti livelli di contaminazione da ordigni esplosivi al mondo.

    I diritti umani calpestati

    La Costituzione del 2004 è stata sospesa e, con un definitivo colpo di spugna, tutte le norme e i regolamenti redatti dall’ex Repubblica sono stati automaticamente abbandonati perché contrari alla sharia. Repressi la libertà di espressione, associazione, il diritto a un processo equo e, più in generale, i più elementari diritti umani.

    Molti giornalisti sono stati arrestati, picchiati e torturati, solo per aver cercato di raccontare quello che stava succedendo nel paese, come evidenzia Amnesty International nel suo ultimo rapporto. Una repressione facilitata dal sistema Hiide di rilevamento dei dati biometrici dei cittadini afghani, implementato dagli USA e che si ritiene sia finito nelle mani dei talebani dopo il ritiro degli americani, e dall’Afghan Personnel and Pay System (Apps), database governativo che contiene circa mezzo milione di record relativi a membri dell’esercito e della polizia afghani.

    Sempre nel Report di Amnesty International, si legge: “I talebani hanno iniziato a mettere a morte e fustigare pubblicamente persone per reati come omicidio, furto, relazioni “illegittime” o violazioni delle norme sociali. Secondo gli esperti delle Nazioni Unite per i diritti umani, tra il 18 novembre e il 16 dicembre [2022], più di 100 persone sono state fustigate pubblicamente negli stadi di diverse province. A dicembre, le autorità talebane hanno effettuato la loro prima esecuzione pubblica nella provincia di Farah, alla presenza di alti funzionari talebani, tra cui il vice primo ministro, ministri e il capo della Corte suprema”.

    “Le città sono fortemente militarizzate. I talebani sono molto ben equipaggiati… hanno armi, tecnologia, e con questi equipaggiamenti più moderni e sofisticati cercano di spaventare la popolazione. Le perquisizioni sono frequenti: rovistano dappertutto, anche tra i vestiti delle donne, nelle loro cose. È il loro modo di terrorizzare la popolazione, di mostrare il loro controllo totale”, ci dicono le donne di RAWA.

    Sono ormai 7 milioni gli afghani che, con vari status (tra cui 2,1 milioni di rifugiati registrati), vivono al di fuori del Paese; tra di loro moltissimi professionisti, il che comporta un ulteriore impoverimento del Paese. Inoltre, in alcune aree si continua a combattere, ma soprattutto non diminuiscono gli attentati compiuti dall’ISIS-K: “I talebani avevano fatto passare il messaggio che non ci sarebbe più stata criminalità e ci sarebbe stata più sicurezza. Ma non è così, tutto continua come prima”, ci dice l’attivista di Hambastagi, la sola differenza è che i talebani hanno chiuso quasi tutti i media e quindi è più difficile sapere quello che succede.

    L’abisso delle donne afghane

    Segregate in casa, costrette al silenzio, vittime di una società già storicamente discriminante nei confronti delle ragazze e delle donne, le afghane sono ripiombate nell’incubo del primo periodo talebano (1996-2001). Già da settembre 2021, contravvenendo a qualsiasi promessa fatta nel corso degli accordi di Doha, è iniziata la discriminazione nei loro confronti e oggi la vita delle donne è contraddistinta da divieti e obblighi che le rinchiudono in una soffocante prigione.

    Come vedremo nelle pagine focalizzate sui singoli aspetti, alle imposizioni del governo si affianca un aumento della violenza domestica, compresi i matrimoni forzati, che trova le sue radici nella società tradizionale afghana e che rimane ormai totalmente impunita. Inoltre, permane un forte senso di insicurezza e instabilità perché l’applicazione dei decreti è incoerente e imprevedibile, vengono emessi e attuati da autorità diverse, rendendo così più difficile per le donne sapere cosa è permesso e cosa non lo è.

    Soprattutto tra le giovani aumentano ansia e depressione e gli specialisti, come si legge in un reportage della BBC di giugno 2023, parlano di una vera e propria “pandemia di pensieri suicidi”: “Voglio solo che qualcuno ascolti la mia voce. Soffro e non sono l’unica. La maggior parte delle ragazze della mia classe ha avuto pensieri suicidi. Soffriamo tutte di depressione e ansia. Non abbiamo speranza”, sono le parale di una giovane studentessa universitaria che ha tentato il suicidio dopo che i talebani hanno impedito alle ragazze di frequentare l’università.

    L’opposizione ai talebani

    Così come negli anni ‘80 la stampa occidentale era rimasta folgorata dal carisma di Ahmad Shah Massoud, oggi ha “eletto” a rappresentante dell’opposizione ai talebani il figlio Ahmad, del Fronte di Resistenza Nazionale. Ma il FRN rimane un gruppo basato su una visione fondamentalista e misogina della società ed è una riedizione di quel Fronte islamico unito per la salvezza dell’Afghanistan (in Occidente conosciuto come Alleanza del Nord) che, sebbene abbia combattuto contro i sovietici e i talebani del primo periodo, si è macchiato di crimini contro la popolazione afghana nei sanguinosi anni dei “signori della guerra” (1992-1996), come testimoniato da Human Rights Watch.. Infine, il giovane Massoud, che ha vissuto e studiato a Londra, è poco conosciuto in patria.

    Continua invece in clandestinità la resistenza di organizzazioni come RAWA e Hambastagi che, tra mille difficoltà, cercano di opporsi all’oppressione talebana (come vedremo nelle storie raccontate di seguito).

    Il governo talebano e la comunità internazionale

    Nonostante fino ai primi mesi del 2023 nessun paese abbia ufficialmente riconosciuto l’Emirato, non mancano i contatti bilaterali. Oltre alle strette relazioni con Pakistan e Qatar, i talebani mantengono legami economici con Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

    India, Russia, Iran e Cina sono invece mossi dalla comune preoccupazione che l’Afghanistan diventi rifugio e incubatore di movimenti jihadisti nell’area. E quale rimedio migliore del sostegno economico? Per ora sembra essere la Cina la meglio posizionata con la recente firma del contratto per l’esplorazione e l’estrazione di petrolio nel nord dell’Afghanistan (un investimento da 540 milioni di dollari in 3 anni). Contrapposto l’interesse degli USA ai quali sostenere un’attività jihadista in funzione anti Iran, Cina e Russia non spiace affatto.

    Non secondario il discorso economico. Secondo l’Istituto Geologico degli Stati Uniti (Usgs), nel sottosuolo afghano potrebbero essere presenti fino a 60 milioni di tonnellate di rame e 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, oltre a cobalto, oro e altri metalli preziosi. Ma soprattutto 1,4 milioni di tonnellate del nuovo oro delle società digitali, le cosiddette terre rare, come litio, lantanio, cerio, neodimio. Quindi, avere contatti con i talebani interessa un po’ a tutti, i paesi occidentali devono però fare i conti con la propria opinione pubblica: UE e ONU hanno dichiarato di condizionare il riconoscimento dell’Emirato islamico dell’Afghanistan al rispetto dei diritti umani, di quelli di donne e ragazze e alla costruzione di un governo inclusivo per genere ed etnia. Ma, dicono le attiviste di RAWA, “un governo ‘inclusivo’ sarebbe una catastrofe. Significherebbe includere esponenti del passato regime, fondamentalisti e misogini quanto i talebani. E proprio in quanto tali disposti a condividere con loro il potere. E non sarebbe un vantaggio per le donne afghane nemmeno se tra loro sedessero anche esponenti femminili, legate a quelle famiglie e a quei partiti: la loro presenza servirebbe solo a legittimare il sistema vigente, senza portare alcuna differenza sostanziale”.

     

     

    Vietato vivere: i principali diritti negati dai talebani

    Le regole talebane entrano nella vita quotidiana, nel corpo e nella mente delle donne, condizionando ogni gesto, ogni azione. Rendendo la paura un normale e quotidiano stato d’animo. Disagi mentali e suicidi sono in aumento. Le trasgressioni sono punite con violenze fisiche e psicologiche, sia sulle donne che sui maschi della famiglia. Le carceri femminili sono piene di donne accusate di delitti morali.

    Il seguente rapporto elenca alcuni dei decreti emessi dai talebani per limitare le donne afghane in diverse sfere della vita. Sono stati imposti dall’agosto 2021, una volta riportati al potere dagli Stati Uniti/NATO.

    • Annullato il diritto alla partecipazione alla vita pubblica e politica. Alle donne è vietato svolgere attività politiche e pubbliche.
    • Annullato il diritto di protesta. Sono state arrestate e torturate decine di donne coraggiose solo per aver organizzato manifestazioni per i loro diritti.
    • Annullato il diritto a ricoprire cariche governative.
    • Divieto di istruzione liceale per le ragazze al di sopra della sesta classe. Questo divieto ha aumentato la violenza contro le ragazze, compresi i matrimoni infantili e forzati. Nada Mohammad Nadim, ministro talebano dell’Istruzione superiore, ha dichiarato in un discorso: “Le ragazze nelle scuole sono oscene e immorali”.
    • Chiusura di scuole di musica e arti. Dalla fine di agosto 2021, sono stati chiusi tutti i centri che si occupavano di educazione musicale e artistica. È vietata la riproduzione di musica sui canali televisivi e radiofonici, così come nei matrimoni e in altre celebrazioni. Questo perché i Talebani considerano la musica “proibita” nell’Islam. Alcuni musicisti sono stati pubblicamente maltrattati, umiliati e arrestati, i loro strumenti musicali sono stati distrutti.
    • Divieto di praticare attività sportive. Divieto di praticare sport dall’8 settembre 2021: “Gli sport femminili sono attività inappropriate e non necessarie, perché i volti e i corpi dei giocatori non possono essere coperti, e questo non è permesso dalla Sharia”. Pertanto, le donne non hanno il diritto di fare attività fisica.
    • Segregazione sessuale negli spazi pubblici.
    • Creazione del ministero della “morale”. Il Ministero per gli Affari femminili diventa il “Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio”. Questo ministero è il principale organo del regime talebano che impone rigide regole islamiche, tra cui il codice di abbigliamento, l’obbligo di un mahram (padre, fratello, marito e figlio) che viaggi con le donne, il divieto di indossare scarpe bianche (perché il colore della bandiera talebana è il bianco!) e altre ancora. Le donne che non seguono queste regole possono anche essere arrestate.
    • Divieto di apparire in televisione. Secondo un ordine emesso dai Talebani nel novembre 2021, alle donne è vietato apparire e lavorare in televisione; e alle giornaliste e alle presentatrici è stato ordinato di coprirsi completamente il volto.
    • Restrizioni di viaggio. Il 26 dicembre 2021 i Talebani hanno imposto restrizioni agli spostamenti delle donne. Agli autisti è stato ordinato di non far salire le donne senza hijab. Le donne senza mahram non possono viaggiare da sole oltre una distanza di 72 chilometri. Alle donne non è consentito sedersi sul sedile anteriore delle auto e qualsiasi uomo e donna che viaggiano da soli vengono fermati e interrogati per determinare se l’uomo è il mahram della donna.
    • Imposizione dell’hijab. Alle donne è stato ordinato di indossare l’hijab nel gennaio 2022. I Talebani hanno anche creato un programma chiamato “osservanza dell’hijab”, installando cartelloni in città. Il 7 maggio 2022 è stato ordinato che tutte le donne devono coprirsi il volto nei luoghi pubblici e che in caso di violazione dell’ordine sarà punito il tutore maschile della donna. I membri della polizia religiosa possono fermare le donne per strada e costringerle a comprare un hijab nel mercato più vicino e solo allora potranno tornare a casa.
    • Divieto di guida. Nel maggio 2022, nella provincia di Herat è stato emesso un decreto che vieta alle donne di guidare e anche ai corsi di guida di insegnare alle donne.
    • Divieto di frequentare luoghi pubblici. Il 27 marzo 2022 è stato vietato alle donne di frequentare parchi ricreativi, bagni pubblici, parrucchieri e club sportivi.
    • Divieto di interazione tra studentesse e personale maschile. I Talebani hanno imposto restrizioni al personale delle università, impedendo loro di interagire con le studentesse. Alle studentesse non era inoltre consentito interagire con i compagni di classe maschi e partecipare alle loro cerimonie di laurea. Divieto di partecipazione delle ragazze ai corsi di formazione linguistica. Nel settembre 2022, i Talebani hanno ordinato ai centri di formazione linguistica di assumere insegnanti donne o sarebbero stati chiusi.
    • Divieto di scegliere diversi campi di studio. Alle ragazze è vietato scegliere l’indirizzo di studio nelle università. Nella prima settimana di ottobre 2022, quando le diplomate hanno sostenuto i test di ammissione all’università, è stato chiesto loro di non scegliere i campi dell’agricoltura, della medicina veterinaria, dell’ingegneria civile, dell’ingegneria mineraria, ecc. Due settimane dopo, è stato tolto alle ragazze anche il diritto di continuare a studiare a livello di master in campi come agricoltura, commercio, informatica e ingegneria.
    • Divieto di istruzione universitaria. Il 28 gennaio 2022 è stato ordinato a tutte le università private di non ammettere studentesse nel prossimo anno fino a nuovo avviso. Con l’emissione del decreto n. 2271 del 20 dicembre 2022, tutte le università pubbliche e private sono state chiuse alle ragazze a causa della “presenza di studentesse senza mahram nei dormitori”.
    • Messa al bando del diritto al lavoro. Alle donne è stato vietato di lavorare fuori casa e, in particolare, in organizzazioni non governative internazionali e nazionali. I Talebani non permettono alle donne nemmeno di lavorare da casa. Molti uffici sono stati costretti a licenziare le impiegate.
    • Controllo dei diritti riproduttivi. Imposizione di restrizioni alla pianificazione familiare a Kabul e in diverse altre province. A medici, operatori sanitari e farmacisti è stato ordinato di non prescrivere o vendere farmaci per il controllo delle nascite e per il potenziamento sessuale. In caso di violazione, il loro permesso di lavoro sarebbe stato confiscato.
    • Divieto di San Valentino. Il 14 febbraio 2023, i Talebani hanno dichiarato San Valentino una cultura blasfema e hanno picchiato alcuni venditori di fiori. Negozi e ristoranti sono stati costretti a chiudere in questo giorno.
    • Rimozione delle immagini femminili dai luoghi pubblici. Immagini di donne in spazi pubblici, tra cui saloni di bellezza, cartelloni pubblicitari, mercati, sale per matrimoni, corsi di istruzione e scuole private, cliniche private, ospedali pubblici e privati, sono state rimosse con la forza o deturpate con vernice nera. Anche la statua di una donna nel cortile dell’Università di Kabul è stata deturpata, rimossa e rotta.
    • Rimozione dei manichini femminili dai negozi. I negozi di abbigliamento non possono esporre manichini femminili. Nella provincia di Herat hanno costretto i negozianti a decapitare i manichini.
    • Divieto di pubblicare immagini di esseri viventi. I giornali governativi non hanno il diritto di pubblicare immagini di esseri viventi perché, dal punto di vista dei Talebani, nell’Islam è vietato stampare immagini di uomini e animali.
    • Restrizione nella fornitura di servizi governativi. Gli uffici governativi hanno il diritto di fornire servizi alle donne con hijab e mahram solo due volte alla settimana, mentre negli altri giorni alle donne è vietato entrare in qualsiasi ufficio governativo.

     

    La resistenza democratica

    Inizia a piovigginare. La gente arriva alla spicciolata e silenziosa, continua ad aumentare. La polizia in assetto antisommossa è schierata. Siamo al parco di Shahr-e-Naw, nel cuore di Kabul, nel novembre del 2019. Il governo ha vietato i cortei per le strade, troppi attentati. Si può protestare solo in questo recinto tra gli alberi, circondato da una rete di metallo, come un pollaio. La manifestazione è organizzata da Hambastagi, il Partito della solidarietà, l’unico laico, progressista e democratico del Paese. Si protesta contro la liberazione di tre Talebani, membri della potente rete Haqqani, in cambio di due professori americani, rapiti nel 2016. I tre tagliagole stanno per tornare in libertà e l’indignazione è forte tra la gente. Il recinto è ormai pieno e si decide, nonostante i divieti, di uscire dalla gabbia. Le persone si avvicinano, discretamente, stringono mani, sussurrano cauti la loro approvazione. In quel periodo gli iscritti al partito erano in crescita, circa 33mila: per lo più giovani, uomini e tante donne. Famiglie intere che lavoravano insieme per il loro Paese.

    I militanti di Hambastagi c’erano sempre ad accoglierci all’uscita dell’aeroporto quando arrivavamo dall’Italia, con il loro entusiasmo e il loro incrollabile impegno. Stavano al nostro fianco per tutto il tempo in cui la delegazione CISDA restava in Afghanistan. La nostra sicurezza era nelle loro mani esperte: un pick-up con dieci uomini fidati e ben armati ci seguiva dappertutto. Guidavano i nostri passi, sorridenti e discreti. Loro sapevano, erano ben informati. I militanti del partito lavoravano un po’ dovunque: nel governo, nella polizia, perfino nei servizi segreti. Una rete informativa fondamentale per chi porta avanti un lavoro politico pericoloso, anche allora, prima del regime talebano. Ora possiamo incontrare Nassim, portavoce del Partito, soltanto per telefono.

     

    Come vivono oggi i membri di Hambastagi?

    Non possiamo più esporci. Manifestazioni e proteste pubbliche sono diventate molto pericolose, i Talebani fanno arresti di massa. I prigionieri, il più delle volte, spariscono. Anche qualcuno di noi è stato detenuto e torturato e siamo riusciti a salvarlo per miracolo. Il nostro partito era ufficialmente registrato: abbiamo bruciato tutti i documenti ma chi si era esposto di più, anche in tv, e ha scelto di rimanere nel Paese, deve cambiare casa in continuazione per sopravvivere. Ormai lavoriamo in clandestinità e portiamo aiuto alla popolazione devastata dalla povertà, che riguarda ormai anche la classe media, senza più risparmi; sosteniamo, accanto all’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane (RAWA) e alle militanti del partito, le necessità e le speranze delle donne.

    I Talebani avevano promesso che ci sarebbe stata più sicurezza, è così?

    No, purtroppo. Quasi ogni giorno ci sono attacchi suicidi, combattimenti, esplosioni ma sui media non se ne parla. Sono notizie censurate.

    Chi sono i responsabili? ISIS, Talebani?

    Entrambi. La guerra tra ISIS Khorasan e Talebani è scatenata. Il primo ha basi forti in Afghanistan, soprattutto nel Nord-Est, raccoglie gruppi e miliziani scontenti dei Talebani. Cercano di destabilizzare il governo in tutti i modi, anche provocando rappresaglie. Coltivano l’odio della popolazione che porta nuovi adepti al loro gruppo. Anche le rivalità tra le diverse fazioni dei Talebani sfociano spesso in attacchi armati. Poi ci sono gli scontri interetnici.

    Quali scenari aprirebbe un collasso del governo?

    L’ennesima guerra civile. Potrebbe succedere, ce l’aspettiamo, magari non subito. Per ora nessuno Stato estero ha interesse a eliminare i Talebani e loro staranno insieme finché avranno soldi da dividersi.

    Da dove arrivano questi soldi?

    Hanno i proventi del traffico di droga e del contrabbando, ci sono le tasse che riscuotono regolarmente. Per aumentarle, in questa situazione di crisi economica, incoraggiano molto le imprese private. Se porti denaro puoi aggirare anche le loro regole. La corruzione è altissima. Dalle Nazioni Unite arrivano al governo 40 milioni di dollari a settimana, formalmente per l’aiuto umanitario.

    Sappiamo da nostre fonti come li dividono: ogni capo militare prende la propria parte e la distribuisce alle sue milizie e per la gente affamata rimane molto poco. I Talebani non fanno nessun report di spesa all’ONU. È probabile che, nelle clausole segrete degli accordi di Doha, fosse anche previsto il sostegno economico, per vie traverse, al governo installato con la partenza degli americani.

    Ci sono ingerenze esterne all’Afghanistan?

    I Paesi esteri usano le fazioni talebane per contrastare le altre potenze e proteggere i propri interessi. Oltre agli Stati Uniti ci sono Cina, Iran, Pakistan, Russia, i sauditi e i Paesi del golfo. Ognuno arma i suoi Talebani o i suoi jihadisti.

    Come si sta muovendo la Cina?

    Pechino è molto presente in Afghanistan, un’avanzata non gradita dagli altri competitor sul terreno, soprattutto dagli Usa. Hanno iniziato parecchi progetti soprattutto nel Nord per estrarre gas e petrolio. Poi ci sono litio, rame, ferro: si accordano con i Talebani per lo sfruttamento delle miniere. A Kabul hanno la loro ambasciata, ristoranti e alberghi. Lo scorso dicembre uno di questi è stato fatto saltare in aria.

    Qual è il gioco del Qatar?

    È sempre stato un mediatore tra Talebani e Usa, è sempre coinvolto in ogni trattativa e fa da ponte nel sostegno ai Talebani da parte degli americani. Anche questo, presumibilmente, era negli accordi segreti di Doha. Qatar, Emirati e Turchia hanno poi fornito soldi e protezione a molti warlords, come Mohamed Atta, o Dostum e a membri del passato governo, come Ashraf Ghani. Hanno lasciato il campo libero in cambio di una vita ricca e protetta in questi Paesi.

     

    Prima di salutarlo gli chiediamo se si è fatto crescere la barba. “Non c’è un ordine preciso e io ne approfitto -risponde Nassim-. Con gli uomini i Talebani non sono così accaniti come lo sono con le donne, dipende da chi ti trovi davanti. Con la barba ‘giusta’ sei più tranquillo ma io continuo a tagliarla con soddisfazione, ogni mattina, e mi vesto come mi avete sempre visto: con jeans e maglione. Una piccola forma di protesta privata”.