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Rappresentanza? Partecipazione? Non c’è posto per le donne

La partecipazione delle donne all’attività politica attiva è un diritto conquistato dalle donne afghane nei lunghi anni di lotta e, sebbene tra mille difficoltà, fino all’agosto 2021 le donne erano presenti nelle istituzioni afghane. Prima dell’agosto 2021, le donne costituivano il 27% dei membri nella Camera Bassa del Parlamento, il 22% nella Camera Alta e il 30% nella pubblica amministrazione, e ricoprivano ruoli chiave nel governo, nelle commissioni indipendenti e nel sistema giudiziario.

La presenza femminile in queste istituzioni non significava automaticamente l’appartenenza di queste donne a formazioni democratiche, molte di esse erano infatti legate ai gruppi fondamentalisti, ai vari signori della guerra e agli stessi talibani (così come la componente maschile del governo e del parlamento nei 20 anni di occupazione del paese da parte delle forze USA/NATO). Ciò non ha impedito al viceministro degli Affari esteri ad interim di annunciare, il 31 agosto 2021, che nessuna donna avrebbe occupato posizioni dirigenziali di vertice in un governo talebano. Le donne sono ora totalmente escluse dalla vita politica e pubblica in Afghanistan. Non c’è una sola donna che ricopra cariche pubbliche o politiche, e un numero limitato rimane nella pubblica amministrazione.

Il 18 settembre 2021, gli uffici del Ministero per gli affari femminili sono stati convertiti negli uffici del Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio, noto per il suo famigerato record di soppressione dei diritti delle donne. L’abolizione degli organi legislativi e del Ministero per gli affari femminili ha eliminato la rappresentanza delle donne e il loro accesso al processo decisionale, e di fatto il loro diritto alla partecipazione politica.

Contestualmente all’eliminazione della rappresentanza politica anche la partecipazione alla vita politica e sociale e duramente repressa. Le donne hanno partecipato all’assemblea di emergenza del 2002 (Loya Jirga), hanno svolto un ruolo attivo nella Loya Jirga costituzionale del 2003 e hanno partecipato come elettori e candidate alle successive elezioni presidenziali e parlamentari. Le donne hanno rappresentato oltre il 30 per cento dei votanti tra il 2004 e il 2019. Oggi sono escluse da ogni forma di partecipazione alla vita politica e pubblica.

Dall’agosto 2021, le donne hanno guidato manifestazioni pubbliche pacifiche rivendicando il diritto all’istruzione, al lavoro, alla partecipazione alla vita pubblica e alla libertà di movimento e di espressione. Queste proteste sono state duramente represse con intimidazioni, arresti, detenzioni arbitrarie. Gli esperti dell’Human Rights Council dell’ONU, nel report del giugno 2023, hanno ricevuto numerosi rapporti credibili di ufficiali talebani che picchiano brutalmente, arrestano arbitrariamente e detengono donne manifestanti, molte delle quali sono state successivamente rilasciate a patto che cessassero il loro attivismo e rimanessero in silenzio sul loro trattamento. Le vittime riferiscono di aver subito violenza di genere, inclusa violenza sessuale, spesso assimilabile alla tortura, da parte di ufficiali talebani che cercavano informazioni sugli organizzatori della manifestazione.

Coltivazione dell’oppio: business is business

L’intensificarsi del traffico di eroina proveniente dall’Afghanistan condiziona la politica e l’economia dell’intera regione e ha creato una nuova narco-élite che si arricchisce mentre cresce la povertà della popolazione.

Oggi l’Afghanistan, sul piano economico, è come un buco nero che emette onde di insicurezza e caos in una regione che sta attraversando molteplici crisi. Le infrastrutture del paese sono in rovina. I servizi pubblici essenziali presenti in qualsiasi paese sottosviluppato qui non esistono.

Non ci sono acqua corrente, elettricità, reti telefoniche, strade carrozzabili.

È difficile dunque quantificare il numero esatto dei tossicodipendenti. Nel 2005 c’erano circa 200.000 dipendenti da oppio. Nel 2009 erano già saliti a un milione (cifra che, secondo l’ONU comprendeva circa il 3% delle donne afghane) e nel 2015 la cifra era compresa tra 1,9 e 2,4 milioni. “Su 40 milioni di abitanti 3,5 milioni abusano di sostanze stupefacenti”, affermava nell’aprile 2022 Mohammad Daoud Jaihon, il direttore dell’ospedale Jandalak a est di Kabul, specializzato nel recupero dei tossicodipendenti.

Secondo le stime del Ministero della Salute Pubblica afghano, alla fine del 2022 il numero delle donne tossicodipendenti era vicino al milione e quello di ragazzi e ragazze oltre 100.000. I motivi principali per cui le donne cadono nella tossicodipendenza sono la situazione economica e la mancanza di lavoro. La precarietà le rende incapaci di combattere per la propria vita o di provvedere alla propria famiglia, e il modo più semplice è fare uso di sostanze. In molti casi sono i mariti a iniziarle. Madri che hanno usato droghe durante la gravidanza, quando i figli piangono per farli tacere danno loro della droga. Quindi fin dalla giovane età questi bambini sono dipendenti.

I dati relativi alle figure maschili sono altrettanto allarmanti: soprattutto uomini e ragazzi fanno uso di Tramadolo e Captagon, la droga dei jihadisti, un’amfetamina che toglie la stanchezza e la paura.

Questi i dati. Ma qual è la politica dei talebani nei confronti della droga? Non bisogna lasciarsi fuorviare dalle ultime notizie che giungono dall’Afghanistan relative a una drastica diminuzione della coltivazione dell’oppio: i talebani, fin dalla loro comparsa, si sono finanziati tramite le “tasse” sulla coltivazione dell’oppio e sulla produzione di anfetamine e continuano a farlo, utilizzando con perizia le leggi di mercato.

Un po’ di storia. Nel 1989 il mullah Akhundzada, appena l’Armata Rossa si ritirò, capì che bisognava controllare il traffico di eroina. Impose che la valle di Helmand fosse coltivata a oppio: chiunque si fosse opposto continuando a coltivare melograni o frumento prendendo sovvenzioni statali sarebbe stato evirato. Il risultato fu la produzione di 250 tonnellate di eroina. Akhundzada, oggi indicato come il maggiore leader talebano, è uno dei trafficanti più importanti al mondo.

Nel 1997 l’UNDCP (United Nations Drugs Control Programme) conclude un accordo con i talebani che accettano di eliminare le colture di papaveri da oppio a condizione che la comunità internazionale fornisca il denaro per aiutare i contadini a passare a colture alternative. Si impegna a sostenere l’introduzione di nuove colture commerciali, il miglioramento dell’irrigazione, la costruzione di nuove fabbriche e il pagamento dei costi della nuova politica.

Ma l’accordo non è mai stato reso operativo dai talebani e nel 1998, dopo l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle agenzie dell’ONU, sarà semplicemente accantonato. Le tasse sull’esportazione dell’oppio diventano l’entrata principale dei talebani e il principale sostegno per la loro economia di guerra. Nel 1995 UNDCP stimava che le esportazioni di droga da Pakistan e Afghanistan fruttavano 50 miliardi di rupie (1,35 miliardi di dollari) all’anno; nel 1998 il valore dell’esportazione di eroina raddoppiava raggiungendo 3 miliardi di dollari.

Nel 2000-2001, per ingraziarsi la comunità internazionale che additava l’Afghanistan dei talebani come centrale del terrorismo islamico, i talebani imposero una drastica riduzione della produzione di oppio che provocò un’impennata dei prezzi dell’eroina; visto che la produzione degli anni precedenti aveva avuto un’impennata (vedi grafico) i talebani comunque poterono garantirsi lauti guadagni vendendo le scorte ai nuovi prezzi di mercato.

È quindi altamente probabile che la storia si stia ripetendo oggi.

Dopo la presa di Kabul, i talebani hanno annunciato un programma per eradicare le coltivazioni di papavero e promuovere la disintossicazione di massa, ma secondo i risultati del rapporto Opium cultivation in Afghanistan, pubblicato dall’United Office on Drugs and Crime (UNODC), relativo al 2022: “La coltivazione dell’oppio in Afghanistan è aumentata del 32% rispetto all’anno precedente, fino a 233.000 ettari, rendendo il raccolto del 2022 la terza più grande area coltivata dall’inizio del monitoraggio. La coltivazione ha continuato a concentrarsi nelle parti sud-occidentali del paese, che rappresentavano il 73% della superficie totale e hanno visto i maggiori aumenti di raccolto. Nella provincia di Helmand, un quinto dei seminativi era dedicato al papavero da oppio”.

Nell’aprile 2022 hanno annunciato il divieto di coltivazione (ma non la distruzione del “mega” raccolto 2022, così come non ne è stata vietata la lavorazione e il commercio): i prezzi dell’oppio sono aumentati vertiginosamente e la sua vendita ha fruttato dai 425 milioni di dollari del 2021 a 1,4 miliardi di dollari nel 2022 (equivalente al 29% del valore dell’intero settore agricolo dell’Afghanistan nel 2021).

La riduzione della coltivazione è confermata dall’ultimo rapporto di UNODC (giugno 2023): “Il raccolto di oppio del 2023 in Afghanistan potrebbe subire un drastico calo a seguito del divieto nazionale di droga, poiché i primi rapporti suggeriscono riduzioni nella coltivazione del papavero”. Ma lo stesso rapporto mette in guardia sulla reale volontà di estirpare il traffico di stupefacenti: “L’Afghanistan è anche un importante produttore di metanfetamine nella regione e il calo della coltivazione di oppiacei potrebbe portare a uno spostamento verso la produzione di droghe sintetiche, di cui beneficeranno diversi attori”.

Inoltre, le nostre fonti in Afghanistan, oltre a sottolineare come questa “riduzione”, motivata principalmente dalla ricerca del riconoscimento da parte della comunità internazionale, garantisca ai talebani, grazie al rialzo dei prezzi, gli stessi elevati guadagni degli anni passati, ci informano che non tutta la produzione 2022 è stata posta sul mercato e le ingenti scorte consentiranno l’immissione di dollari nelle casse dei talebani ancora a lungo.

 

La violenza sulle donne è continua

L’Afghanistan è il peggior paese al mondo per nascere donna. Lo dicono le innumerevoli statistiche e rapporti dell’ONU, che in una recente dichiarazione definisce il trattamento dei talebani nei confronti delle donne “un crimine contro l’umanità”, di Human Rights Watch, di Amnesty International, solo per citare le fonti più quotate, che comunque possono riferire solo dati parziali, dal momento che le donne in Afghanistan raramente denunciano le violenze nei loro confronti, tanto meno dall’agosto 2021, momento in cui i talebani hanno ripreso il potere e imposto un’interpretazione estremamente restrittiva della sharia (nel lessico islamico “la legge sacra, imposta da Dio”).

La violenza inumana nei confronti delle donne afghane non è solo fisica ma anche psicologica; oggi in Afghanistan le donne sono escluse dalla vita. Non hanno accesso all’istruzione secondaria, non possono lavorare (e per i milioni di vedove questo significa non avere nulla con cui sostenere se stesse e le proprie famiglie), non possono frequentare parchi e palestre, non possono lavorare presso ONG, non possono uscire di casa senza un parente maschio ed è loro imposto di coprirsi da capo a piedi con un velo nero o con un burqa. Gli uomini sono ritenuti responsabili del comportamento delle donne di famiglia e quindi sono loro a subire condanne e sanzioni nel caso in cui le donne non si comportino come prescritto; questa “regola” costituisce un pesantissimo ricatto nei confronti della società tutta.

E dove divieti e tradizione non sono abbastanza, è la paura che costringe le donne a non uscire: “Si dice che i talebani prendano le ragazze per darle ai loro soldati e quindi le famiglie impediscono loro di uscire in strada anche per comprare il pane. E sono sempre di più le ragazze che, chiuse in casa, senza poter andare a scuola manifestano disordini del sonno e disturbi psichici”, raccontano da Kabul.

Le attiviste, coloro che resistono, che sono state e continuano a essere in prima linea nelle proteste pacifiche per affermare i diritti delle donne, vengono arrestate, incarcerate, torturate; spesso non si sa nulla del loro destino.

Ma le donne afghane non sono oggetto di violenza solo dall’agosto 2021: la violenza nei loro confronti è endemica, e l’occupazione ventennale USA e NATO, portata avanti anche con il pretesto di voler liberare le donne, non è certo servita a risolvere il problema.

Una relazione del 2015 pubblicata dallo Special Rapporteur per i diritti umani dell’ONU descrive la situazione in quel momento: oltre l’87,2% delle donne subivano violenze in famiglia a vari livelli (fisica, psicologica, sessuale, attraverso matrimoni forzati e precoci); nella maggior parte dei casi i responsabili di questi crimini non sono stati condannati se le corti accertavano che la violenza era stata perpetrata a causa di una disobbedienza della donna.

I matrimoni forzati e precoci sono diffusissimi: per la legge, l’età minima per contrarre matrimonio è di 18 anni per i maschi e 16 per le donne ma, nonostante questo, si tratta di una pratica prevalente.

Una ricerca condotta dall’Afghanistan Multi Indicator Cluster Survey (MICS) ha certificato che il 15,2 per cento delle donne intervistate si erano sposate prima dell’età di 15 anni e il 46,4 prima dei 18. Un fenomeno che è alla radice della maggior parte delle violenze domestiche e che spesso porta le vittime a infliggersi gravi ferite o a cercare la morte per autoimmolazione. Le ragazze che rifiutano il matrimonio forzato e fuggono rischiano di essere uccise dalla propria famiglia: tra il 2011 e il 2012 l’Afghan Independent Human Rights Commission ha registrato 280 casi.

Prima del ritorno al potere dei talebani, le donne che avevano avuto il coraggio di scappare da situazioni estreme potevano far ricorso agli shelter per donne maltrattate che, sebbene insufficienti e spesso male organizzati, offrivano una via di fuga. Oggi i talebani hanno imposto la chiusura di tutti gli shelter, rimandando le vittime a casa, dai loro aguzzini.

In pericolo sono anche le stesse operatrici degli shelter, persone facilmente rintracciabili e oggetto di ritorsione da parte dei talebani, che cercano coloro che considerano “nemici” casa per casa con retate e perquisizioni a tappeto.

Nella comunità la situazione non migliora: in un paese in guerra da oltre 40 anni le donne sono le prime vittime di rapimenti e stupri, e nella società afghana conservatrice e patriarcale è la vittima a dover portare il peso della vergogna. Le donne sono considerate le custodi dell’“onore familiare” e in caso di stupro sono viste come coloro che disonorano la famiglia.

La sfida di rimanere esseri umani

L’Afghanistan del 2023 continua a rappresentare la più grande crisi umanitaria al mondo, con un PIL diminuito del 35% negli ultimi diciotto mesi, il costo del paniere alimentare aumentato del 30% e una disoccupazione che arriva al 40% della popolazione attiva, mentre solo per il cibo viene speso il 75% del reddito (UN News). Negli ultimi quarant’anni, di guerre e occupazione, mai gli afghani avevano dovuto affrontare una crisi economica così pesante come quella innestata dal ritorno dei talebani al potere.

Nel 2022 oltre il 90% della popolazione ha sofferto di insicurezza alimentare: sono decine di milioni le persone che hanno sofferto la fame e sono aumentati i decessi nei bambini per la persistente malnutrizione (Human Rights Watch, Report 2023). La povertà ha costretto a “misure drastiche” per procurarsi un sostentamento minimo, dalla vendita di oggetti domestici vitali all’avvio al lavoro dei bambini, al matrimonio di giovani ragazze e di bambine spose per la dote, fino alla vendita dei propri organi per i trapianti (PAM).

Ma se tutti soffrono, chi sta pagando la crisi economica e sociale in misura enormemente sproporzionata sono le donne, che in conseguenza delle regole sempre più costrittive dei loro diritti di movimento, di lavoro, umani e sociali hanno visto drasticamente ridotte le possibilità di lavorare fuori casa e di procurarsi il cibo per sé e per i figli, ricevere assistenza sanitaria o trovare risorse finanziarie. Il divieto di spostarsi senza un parente maschio che le accompagni, anche quando sono rimaste vedove o sono le uniche in famiglia a poter lavorare, le ha rese ancora più povere e ha trascinato i loro figli nel lavoro minorile più duro: nel 2022 il 29% delle famiglie con capofamiglia donna aveva almeno un figlio occupato nelle fabbriche di mattoni, nei cantieri, nelle case, nella raccolta rifiuti o nell’accattonaggio per le strade (Save the Children).

Nel 2022 I livelli di occupazione sono crollati per tutti, quasi 450.000 posti di lavoro sono scomparsi. Ma se l’occupazione maschile è diminuita del 7%, l’occupazione femminile è stata inferiore del 25%, così come quella dei giovani. Il lavoro da casa è diventato la forma predominante di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, rendendole invisibili e sempre più vulnerabili (ILO Brief, 2023).

Anche le donne che erano riuscite a studiare e godevano di posizioni professionali hanno visto chiudersi tutti gli spazi. Le leggi restrittive dei talebani hanno spazzato via quasi completamente quei lavori che nei vent’anni precedenti erano stati una faticosa conquista di una parte della popolazione femminile, quella che era riuscita a realizzare, o almeno sognare, un riscatto dalla posizione di subalternità e segregazione. Magistrate, giornaliste, mediche, infermiere, insegnanti… sono ora perseguitate e rinchiuse, e, con gli ultimi decreti, addirittura alle operatrici delle ONG e dell’ONU è stato vietato il lavoro, rendendo così ancora più difficile il sostegno umanitario e l’accesso delle donne all’assistenza sanitaria.

Come segnala il report dell’Human Rights Council dell’ONU del giugno 2023, le imprese femminili sono state duramente colpite dalle politiche restrittive introdotte: i redditi delle imprenditrici sono crollati, impedendo loro spesso di pagare i propri dipendenti; alcune imprenditrici hanno riferito che alcuni fornitori si rifiutano di vendere loro materiali sulla base del fatto che una donna non dovrebbe essere a capo di un’impresa e che, come minimo, dovrebbero essere accompagnate da un maharam.

Come dice la nostra compagna Maryam Rawi di RAWA, “Oggi in Afghanistan è una grandissima sfida anche essere semplicemente un essere umano”.

L’Afghanistan due anni dopo. Comunicato CISDA

Comunicato emesso da CISDA dopo 2 anni dalla presa del potere dei talebani

Le donne afghane non si arrendono al regime dei talebani

15 agosto 2021: i talebani entrano a Kabul da vincitori, quasi senza sparare un colpo, dopo 20 anni di invasione NATO e USA che hanno riconsegnato l’Afghanistan (con tutti gli armamenti) ai barbari fondamentalisti che dicevano di voler sconfiggere per portare “la democrazia” e affermare “i diritti delle donne”.

Due anni, ma per la popolazione afghana, in primo luogo le donne, questa è solo la continuazione di una tragedia che dura da oltre 40 anni fatta di guerre, fondamentalismi, povertà e deprivazione di diritti. Nel silenzio, lontano dai riflettori che dopo l’agosto 2021 hanno illuminato la scena per pochi mesi ma evitando di parlare delle gravissime responsabilità dell’Occidente e senza rendere conto di 20 anni di occupazione militare costata complessivamente circa 2300 miliardi di dollari.

La popolazione è allo stremo: nel 2022 oltre il 90% ha sofferto di insicurezza alimentare, con conseguenze devastanti. Le donne sono private di ogni diritto: non possono frequentare la scuola, praticare attività sportive, lavorare, uscire di casa senza un familiare che le accompagni, passeggiare in un parco pubblico, viaggiare… Per i talebani non hanno diritto di esistere, se non per procreare e occuparsi di figli e casa, troppo spesso in famiglie violente che non rischiano nulla dal momento che ogni legge che avrebbe potuto colpirli è stata cancellata.

Chi lotta e ha sempre lottato per la libertà, per i diritti delle donne, per i diritti umani è in pericolo e deve muoversi in clandestinità, tra mille ostacoli: i talebani hanno vietato il dissenso e fanno arresti di massa; i prigionieri spesso spariscono o vengono torturati.

Le nostre compagne di RAWA sono determinate a restare nel loro paese, a continuare la resistenza contro l’imperialismo, il fondamentalismo e il sistema patriarcale. “Le donne” dicono, “sono le principali vittime delle politiche dell’imperialismo e del fondamentalismo islamico ma, nonostante le grandi sofferenze, continuano a lottare con coraggio e non si sono mai arrese. Gli USA, da potenza imperialista che persegue solo i suoi interessi, mettono in secondo piano le sofferenze della popolazione afghana e non esitano a sostenere e a portare al potere i gruppi più brutali per mantenere il controllo.

Nonostante le carcerazioni, le torture, gli stupri e le umiliazioni, questo gruppo di donne consapevoli sta continuando la sua lotta, sostenendo la popolazione e le donne con aiuti concreti ma avendo ben chiaro che la lotta contro il fondamentalismo non può essere separata dalla lotta contro l’imperialismo USA.”

CISDA continuerà a stare al loro fianco in tutti i modi possibili, consapevoli che la loro resistenza al fondamentalismo ci riguarda tutte, è una lotta che deve vedere le donne di tutto il mondo unirsi e camminare insieme per liberarsi ovunque dalla tirannia del patriarcato.

Hotak Abdul Rahman Mawlawi

Mawlawi Abdul Rahman Hotak proviene dal distretto di Shinkay, provincia di Zabul; non è nota la data di nascita.

  • Vice ministro dell’informazione o della cultura durante il periodo talebano
  • Partecipante alla conferenza di Bonn (2011)
  • Capo dell’Organizzazione afgana per i diritti umani e la protezione ambientale (AOHREP) 2012
  • Commissario dell’AIHRC, Commissione indipendente afgana per i diritti umani, 2013

Cosa si dice di lui

Mawlawi Abdul Rahman Hotak proviene dal distretto di Shinkay, provincia di Zabul. Si è laureato in una madrassa di Quetta (Pakistan) ed è presumibilmente vicino a Inter Service Intelligence (ISI, Pakistan).
Si dice che abbia precedentemente lavorato per i talebani, come ha affermato la Rete della società civile e dei diritti umani (CSHRN). Lui ha affermato di non essere stato un combattente talebano, ma solo l’editore di un giornale pubblicato a Kandahar durante l’era talebana. Hotak lavorava in un giornale (TOLO-e-Afghan) nella provincia di Kandahar. Dopo che i talebani sono arrivati ​​a Kabul, ha lavorato nel ministero dei Trasporti. Successivamente è stato imprigionato per tre anni nella prigione di Bagram e poi rilasciato. Durante l’era del presidente Karzai, divenne membro del Consiglio degli ulema.(20130627) (fonte Who is who in Afghanistan).

(Kabul) – “Il presidente Hamid Karzai dovrebbe immediatamente licenziare Abdul Rahman Hotak, recentemente nominato membro della Commissione indipendente per i diritti umani dell’Afghanistan (AIHRC), viste le sue dichiarazioni in opposizione alla legge afghana sull’eliminazione della violenza contro le donne”, ha detto oggi Human Rights Watch. La legge afghana sull’eliminazione della violenza contro le donne è nota come legge EVAW.

Hotak ha detto al New York Times che “Le persone che hanno scritto quella legge non conoscono molto bene l’Afghanistan e la società afghana – forse pensano che Kabul sia l’Afghanistan”. Ha detto a Reuters che a suo avviso la legge EVAW sta “violando l’Islam” e che ci deve essere una legge con cui le persone siano “a proprio agio”.

In precedenza Hotak era membro del governo talebano al potere fino al 2001 e ha perseguito pratiche che violavano e limitavano regolarmente i diritti fondamentali delle donne. Il presidente Karzai ha nominato Hotak, insieme ad altri quattro nuovi commissari, nell’AIHRC nel giugno 2013. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani e Human Rights Watch hanno entrambi criticato le nomine per non aver rispettato gli standard richiesti per le nomine alle istituzioni nazionali per i diritti umani, in base alle norme sui diritti umani.

La legge EVAW dell’Afghanistan del 2009 criminalizza gli abusi sulle donne, inclusi stupri, matrimoni precoci, matrimoni forzati, vendita di donne e violenza domestica, e in molti casi per la prima volta in Afghanistan. Sebbene l’applicazione della legge sia stata lenta e irregolare, la legge è ampiamente riconosciuta come uno dei risultati più importanti nello sforzo di ricostruire i diritti delle donne in Afghanistan nell’era post-talebana.

“C’erano molti dubbi sull’idoneità del signor Hotak per questo lavoro – e il signor Hotak li ha appena chiariti”, ha detto Brad Adams, direttore per l’Asia. “Il presidente Karzai ha nominato una volpe a guardia del pollaio. L’unica soluzione è che venga rimosso e sostituito con un nuovo commissario che protegga effettivamente i diritti umani “.

Rappresentanti delle nazioni donatrici si sono incontrati questa settimana a Kabul per discutere il seguito della conferenza di Tokyo del luglio 2012 sull’Afghanistan. Alla conferenza di Tokyo, il governo afghano e i donatori avevano concordato un “quadro di responsabilità reciproca” per disciplinare i futuri contributi agli aiuti all’Afghanistan. Nell’ambito di tale quadro, il governo afghano, in cambio dell’assistenza dei donatori, si era impegnato a far rispettare la legge EVAW e a consentire all’AIHRC di svolgere le sue funzioni. (fonte Da Human Rights Watch)

Poiché c’è stata molta confusione sull’ultimo nuovo membro dello staff, Mawlawi Abdul Rahman Hotak, la sua biografia è più lunga delle altre. Mawlawi Hotak è di Zabul. Secondo il suo racconto, era troppo giovane per combattere nel jihad degli anni ’80; era un rifugiato in Pakistan, dove aveva un’istruzione mista, frequentando la scuola primaria e una madrassa; si diplomò all’Università di Karachi. È tornato in Afghanistan nei primi tempi dei talebani. Fonti indipendenti lo hanno indicato come un collaboratore nella segreteria del Mullah Omar nei primissimi e piuttosto caotici giorni del movimento – egli stesso afferma di essere stato a capo del dipartimento dell’Istruzione a Kandahar e fondatore del quotidiano Tolo-ye Afghan [nota: questo giornale è stato fondato prima della seconda guerra mondiale; è stato pubblicato a fasi alterne sotto vari regimi e i talebani hanno continuato (o ripreso) a farlo funzionare … quindi forse Hotak era il suo editore]. È arrivato a Kabul poco dopo l’ascesa dei talebani nel 1996 e ha lavorato presso il ministero dei Trasporti di Kabul come capo dipartimento. Ha lasciato il governo talebano, ha detto, poco più di un anno dopo a causa di disaccordi politici.

Dopo la caduta dei talebani, fu delegato alla Loya Jirga appena costituita, fu membro del Consiglio degli ulema e consigliere del ministero dell’Istruzione. È stato arrestato nella sua casa a Zabul nel 2006/07 dalle forze statunitensi e portato a Bagram. È stato rilasciato senza dover affrontare alcuna accusa tre anni dopo e con una buona padronanza dell’inglese. Al suo rilascio, è diventato di nuovo un membro del Consiglio degli ulema. Attualmente lavora presso il Dipartimento Curriculum che supporta il Ministero dell’Istruzione. (fonte Afghan Anallysts Network)

Il controverso passato di Hotak, comprese le voci di essere stato un aiutante del leader dei talebani con un occhio solo, il mullah Mohammad Omar, ha sollevato allarme tra gli attivisti per i diritti civili, tra cui Human Rights Watch con sede a New York e le commissioni per i diritti delle Nazioni Unite.

Anche prima che i talebani diventassero una formidabile forza post-guerra civile nel 1994, Hotak era il caporedattore del quotidiano talebano Afghan Sunrise nella provincia meridionale di Kandahar, dove è stato fondato il movimento islamista.

Hotak nega di aver servito direttamente sotto Omar e dice di essersi unito al movimento radicale nei suoi primi giorni per “servire il suo paese” e aiutarlo a riprendersi da decenni di sanguinosa guerra civile che aveva lasciato gran parte di Kabul in rovina.

Ma dice di non essere mai stato d’accordo con gran parte dell’ideologia oppressiva durante il governo talebano tra il 1996 e il 2001, che vietava alle donne qualsiasi lavoro e l’istruzione, oltre al voto, decretandole anti-islamiche e imponendo dure punizioni per le violazioni.

“Tutti in Afghanistan avevano legami con un gruppo o un altro e io non sono un’eccezione”, ha detto Hotak.

Hotak, in segno di moderazione, ha accettato di stringere la mano a una giornalista, cosa insolita in Afghanistan per i membri dei talebani passati e presenti.

Ma ha anche espresso scetticismo circa l’eliminazione della violenza contro le donne contenuta nella nuova legislazione in preparazione dal 2005, che ha suscitato scalpore in parlamento. Se approvate, le leggi metterebbero fuori legge il matrimonio forzato o minorile, così come lo stupro e la violenza contro le donne, anche all’interno delle famiglie.

“Il nostro terzo emendamento dice che nessuna legge può violare l’Islam, ma ora abbiamo questa legge che viola l’Islam”, ha detto Hotak. “È necessario adottare una legge che i musulmani e la società civile possano accettare, in modo che le persone si sentano a proprio agio con la legge”.

I legislatori di ispirazione religiosa si sono precedentemente opposti ad almeno 8 dei 22 articoli della legislazione, inclusi il mantenimento dell’età legale a 16 anni perché le donne possano sposarsi, l’esistenza di rifugi per vittime di abusi domestici e il dimezzamento a 2 del numero di mogli consentite. (fonte Reuters)