In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica.
Ci hanno scritto:
“Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle.
Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto:
‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan. Ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.
Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’.
Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse.
Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”.
In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale.
Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi firmavano garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento.
Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza.
Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate.
NON PER LA RELIGIONE MA PER IL PREDOMINIO
Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso.
Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento e nell’abbigliamento.
Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita. Ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale.
Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano.
Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana.
Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino.
Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro paese va avanti, faticosamente e lentamente certo, ma senza sosta.
Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia.
Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”.
Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”.
Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche.
Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro.
Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal paese.
Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriate e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan.
Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola.
In occasione dei Giochi olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan.
Secondo Rezayee permettere al suo paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team).
La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres.
Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico.
Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah.
Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato.
Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali, dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile.
Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo.
È in corso un’ondata di deportazioni forzate e disumane di migranti afghani dall’Iran . Migliaia di famiglie vengono espulse con violenza, costrette a lasciare in Iran i propri averi, e, una volta varcata la frontiera, padri e figli vengono portati in prigione senza alcun contatto o informazione, mentre madri e bambini vengono abbandonati sotto il sole cocente, senza protezione. Sono esposti a un caldo estremo, senza accesso ad acqua potabile, cibo o riparo. I bambini si ammalano di disidratazione, diarrea e spossatezza.
Sia HAWCA – Humanitarian Assistance for Women and Children of Afghanistan (Associazione Umanitaria per l’Assistenza alle Donne e ai Bambini dell’Afghanistan) che OPAWC – Organization Promoting Afghan Women’s Capabilities (Organizzazione per la promozione delle abilità delle donne afghane) si stanno impegnando a sostenere queste famiglie e chiedono il nostro aiuto per fornire: cibo, acqua pulita e prodotti per l’igiene.
La situazione sta rapidamente peggiorando ed è diventata un’emergenza su vasta scala, si sta ripetendo quanto già avvenuto con le espulsioni dal Pakistan. L’agenzia dell’ONU per le migrazioni stima che a giugno oltre 250.000 persone, tra cui migliaia di donne sole, siano tornate in Afghanistan dall’Iran.
Condividiamo l’appello inviatoci dalle associazioni che sosteniamo e vi chiediamo uno sforzo per poter raccogliere fondi che, come CISDA, ci impegniamo a far arrivare in Afghanistan.
Con il vostro aiuto riusciremo a trovare il modo di aiutare queste associazioni che da sempre si prodigano per la popolazione afghana e poterle sostenere anche in questa occasione.
L’IBAN del CISDA è: IT74Y0501801600000011136660 Causale: “Emergenza deportati afghani Iran”.
L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 9 luglio 2023
In Afghanistan non poteva più restare, Belquis Roshan, ex senatrice del Parlamento afghano (componente dal 2011 della Camera Alta, Meshrano Jirga, e dal 2019 della Camera Bassa, Wolesi Jirga). È dovuta scappare per non essere uccisa. Ma il senso di sconfitta è più forte del sollievo per lo scampato pericolo.
“Ogni momento, da quando sono uscita dall’Afghanistan, è stato difficile. Ho cercato di fare del mio meglio per migliorare il mio Paese ma siamo stati traditi e abbiamo fallito. Sono stata costretta ad andarmene da sola, tutta la mia famiglia è rimasta lì”.
Roshan era molto conosciuta, dalla sua posizione in Parlamento aveva sempre denunciato crimini, corruzione e tradimenti, si era sempre battuta per i diritti delle donne e contro tutti i fondamentalisti islamici che lo infestavano. I nemici non le mancavano. L’abbiamo incontrata a Roma, dove ha parlato alla conferenza stampa alla Camera dei deputati, promossa dal Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) per presentare i risultati della petizione “Stop Fondamentalismi – stop Apartheid di genere”.
Belquis Roshan, non è la prima volta che lascia il suo Paese, giusto? BR Questa è la terza fuga. Ero scappata con la mia famiglia ai tempi dell’invasione russa e del primo governo talebano ma non immaginavo di ripercorrere di nuovo questa strada. Per tutto il primo anno, dopo l’arrivo dei Talebani a Kabul, ho sperato di poter restare. Ma poi nel 2022 alcuni politici afghani dell’ex governo sono stati picchiati, torturati, trascinati per strada e uccisi. Dopo questo episodio i miei compagni hanno fatto molta pressione perché partissi. Mi dicevano: “Se tu rimani, ti arrestano e noi restiamo senza speranza. Sarebbe una vergogna per tutto il movimento di resistenza perché non siamo riusciti a proteggerti. All’estero potresti avere la possibilità di aiutarci da fuori”.
È stato difficile arrivare in Europa? BR Sì, difficile e pericoloso. Pochi mesi prima dell’arrivo dei Talebani a Kabul, il governo ci aveva obbligato a prendere un passaporto diplomatico. Con quel tipo di documento non potevo passare la frontiera, il rischio di essere riconosciuta era alto. Una persona ha portato il mio passaporto in Pakistan e io sono andata a piedi, clandestinamente, attraverso le montagne, con altre persone sconosciute. Un viaggio difficilissimo che molti afghani sono costretti a fare.
Come si sente adesso nella sua vita in Germania? BR Ho una grande responsabilità, quella di denunciare quello che sta succedendo nel mio Paese, come vivono le persone, le donne soprattutto, e la condizione dei rifugiati in Iran e Pakistan. Ogni volta mi chiedo che colpe hanno gli afghani per dover vivere una simile tragedia da così tanto tempo.
In Afghanistan era molto popolare, aveva tanti sostenitori che credevano in lei. Ha ancora contatti con loro? BR Sì, li sento regolarmente e mi raccontano un situazione disperata, senza soldi, senza lavoro, molti sono fuggiti in Pakistan e in Iran. L’oppressione e la violenza sono molto forti e la gente non ce la fa più. Ti faccio un esempio. Un amico che era capo di una guarnigione dell’esercito a Farah è stato barbaramente ucciso mentre tornava a casa dopo che l’esercito era stata sciolto. I Talebani hanno chiesto alla famiglia di venire a riprendersi il cadavere ma hanno rifiutato, volevano solo la loro vendetta. Volevano uccidere gli assassini. Ogni famiglia ha un lutto, un massacro, una violenza talebana da vendicare. La vendetta cova e potrebbe esplodere con molta violenza. Il mese scorso i Talebani hanno ucciso 300 ragazzi, così, tutti insieme. Non si può sopportare tutto questo. Ci sarà per forza una rivolta.
È possibile che questa rabbia diventi un giorno una resistenza organizzata? BR Non posso sapere quando ma sono sicura che prima o poi ci sarà una rivoluzione popolare contro questo governo. Soltanto noi possiamo liberarci davvero dei Talebani.
Quali sono gli ostacoli? BR Prima di tutto manca una leadership. Nessuno si fida di nessuno, hanno tutti paura uno dell’altro. La gente è spaventata, chiusa, sospettosa. Molte delle persone che si vogliono presentare come leader non sono affidabili. Però piano piano stanno emergendo dei giovani militari e attivisti che cercano di organizzare questa opposizione. Ci vorrà molto tempo, ma sappiamo che ogni famiglia in Afghanistan ha un’arma con cui combattere e tante vendette da consumare. Se una rivolta parte poi tutti si uniranno.
Qualche rivolta spontanea c’è stata in questi anni. BR Sì, in quasi tutte le province afghane la popolazione si è ribellata, gente comune, gente del mercato, disoccupati, ma sono stati sconfitti. I Talebani hanno arrestato e ucciso tantissime persone, a Badakhshan, Kandahar, Jalalabad. Queste rivolte non hanno leadership e sono molto deboli, sono state spazzate via con facilità dai Talebani. In Panshir, ad esempio, la rivolta militare è fallita. La loro guida, Ahmad Massud, era già all’estero mentre i giovani venivano massacrati. E adesso quella provincia è invasa da 30mila soldati Talebani e ogni giorno ci sono persone che perdono la vita. Sono molto controllati, non possono nemmeno usare un telefono.
E le rivolte delle donne? BR Le donne sono state coraggiose ma sono state sconfitte perché erano male organizzate. Hanno commesso un errore strategico fondamentale. Si sono riunite e si sono subito espresse apertamente e per i Talebani è stato facile ritrovarle nelle loro case, arrestarle, torturarle e ucciderle. Anche i membri delle loro famiglie vengono perseguitati, ancora adesso.
Che cosa avrebbero dovuto fare? BR Avrebbero dovuto lavorare a lungo in clandestinità per organizzare una rivolta più grande, più profonda e più unita. Così avrebbero potuto sopravvivere e avere maggiore successo.
Quindi un lungo lavoro clandestino, è questo che, secondo lei, potrebbe funzionare? BR Sì, non bisogna avere fretta. La resistenza deve essere clandestina e diffusa, non concentrata in un solo luogo, sarebbe troppo fragile. Restare nell’ombra, finché non si sia abbastanza forti da avere speranze di vittoria.
Esiste un consenso ai Talebani nel Paese, ad esempio tra la popolazione pashtun? BR I Talebani della base sono stufi di questo malgoverno. Stanno facendo un gran lavoro di lavaggio del cervello, costruendo migliaia di madrase (istituti d’istruzione media e superiore per le scienze giuridico-religiose musulmane, ndr) per indottrinare la popolazione, per aumentare il loro consenso, ma non ce la fanno. La rigidità delle loro regole è respinta da tutti. Ovunque c’è una quotidiana disobbedienza civile, come quando ai matrimoni suonano e cantano lo stesso, nonostante i divieti. Addirittura all’interno dei Talebani alcune regole estreme sono rifiutate. Penso che proprio tra i pashtun i Talebani abbiano i loro più forti oppositori. L’ideologia estrema talebana non fa parte della nostra cultura. Gli afghani non sono mai stati religiosi radicali, poi, quando il regime comunista è caduto, l’Onu non si è opposto ai mujaheddin e ha lasciato che prendessero il potere con la loro ideologia estremista. È stato un grave errore non intervenire, non hanno evitato tutte le tragedie che da questo errore sono scaturite. Tragedie che hanno colpito soprattutto le donne. C’è stata tanta violenza contro le donne anche nel periodo passato però almeno si potevano denunciare questi casi, c’erano delle leggi a cui appoggiarsi, adesso ogni crimine è permesso, l’impunità è totale. Ascolto tutti i giorni storie orribili, anche nei racconti della mia famiglia.
Il governo talebano potrebbe sopravvivere senza il sostegno economico degli Stati Uniti?
BR I Talebani si sono appropriati delle miniere e delle altre risorse del Paese ma posso dire con sicurezza che, senza questi soldi, non potrebbero sopravvivere nemmeno sei mesi. Ne hanno bisogno per far funzionare la macchina governativa.
Se questo sostegno dovesse finire, potrebbe essere un vantaggio per far crollare il regime? BR Non credo. Se i Talebani dovessero restare senza fondi, scoppierebbe una guerra civile, anche tra loro, perché le tensioni interne sono molto alte e, per le risorse, si scatenerebbero sicuramente lotte feroci. Sarebbe un periodo di guerre senza controllo, nessuno gestirebbe più il Paese, tutto sarebbe allo sbando. E questo non conviene nemmeno agli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti potrebbero fare pressioni politiche sul governo talebano? BR Certo. Gli Stati Uniti stanno giocando contro gli interessi della popolazione afghana. Hanno sempre fatto quello che volevano, consegnare il Paese ai Talebani, mettere due presidenti, gestire i governi fantoccio. Attraverso il ricatto economico potrebbero facilmente mettere pressione sul governo talebano e ottenere quello che vogliono, perfino organizzare delle elezioni, qualsiasi cosa. Ma non lo fanno.
Perché? BR Non hanno nessun interesse per il miglioramento della situazione della popolazione afghana, l’importante è avere il controllo del Paese, per contrastare meglio la Cina e l’Iran. E per questo serve un Paese fragile, completamente dipendente. Se gli afghani fossero più forti non sarebbero più manipolabili.
C’è ancora una presenza militare statunitense sul territorio afghano? BR Sul terreno sono molto attivi i servizi segreti non tanto i militari. Ma i Talebani sono in contatto con i soldati americani per addestramento e sostegno militare. Ora sembra che vogliano riprendersi la base di Bagram. Il cielo dell’Afghanistan è sempre nelle loro mani.
Che cosa le manca di più del suo Paese? BR Le persone, la gente. La libertà di movimento che avevo. Qui sono costretta a stare sempre nello stesso posto, devo chiedere il permesso per viaggiare, per muovermi, sono sempre controllata. Con tutte le difficoltà, in Afghanistan non mi sentivo mai depressa o triste.
C’è ancora speranza in Afghanistan? BR La guerra da noi dura da 50 anni. Anche adesso è una guerra, alle donne, alla vita, alla libertà, alla gioia, alla sopravvivenza. Ma nonostante tutto, la popolazione afghana continua a essere piena di vita e di speranze per il futuro. Quando parlo con i miei parenti mi dicono sempre: “Non ti preoccupare, tornerai presto. I Talebani rimangono ancora due anni e poi se ne vanno”. Sono loro a dare coraggio a me. Anche quando sento i miei amici, che erano soldati dell’esercito, mi dicono: “Noi ti stiamo aspettando, sappiamo che tornerai e siamo pronti a lavorare ancora con te”.
L’articolo è stato pubblicato su Altreconomia il 18 giugno 2025.
Su una cosa Donald Trump e Joe Biden si sono trovati sempre d’accordo: grazie agli accordi di Doha e alla promessa dei Talebani, il terrorismo islamista, perlomeno quello che preoccupava gli USA, non avrebbe più albergato in Afghanistan. E, dato che il lupo perde il pelo ma non il vizio, se poi qualche piccolo gruppo avesse continuato a dar fastidio a Cina e Russia, magari ci sarebbe potuto scappare anche un “aiutino”.
E pazienza se il ritorno dei Talebani avrebbe significato rigettare la popolazione afghana nell’incubo, se alle donne sarebbe stato tolto il futuro e per loro si sarebbero riaperte le porte dell’inferno, se i diritti umani sarebbero diventati carta straccia. Si, certo, negli Accordi c’erano dichiarazioni pompose sul rispetto delle donne e dei diritti umani, ma quello che realmente importava era che l’Afghanistan non rappresentasse più una minaccia per gli USA. Del resto, è per questo che il Paese ha subito un’occupazione durata 20 anni.
Oggi possiamo dire che questa si sta rivelando una grande illusione, anche se i Talebani continuano nella farsa: in occasione del quinto anniversario dell’Accordo di Doha lo scorso 28 febbraio, hanno dichiarato di aver adempiuto ai propri obblighi di impedire ai gruppi terroristici di operare in Afghanistan e pertanto di non sentirsi più vincolati dall’accordo.
Dichiarazione di fatto sconfessata dallo stesso Dipartimento di Stato USA, come si può appurare leggendo il Report del 30 aprile 2025 dal SIGAR (Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, ente indipendente del governo degli Stati Uniti, istituito per sorvegliare e verificare come vengono spesi i fondi statunitensi destinati alla ricostruzione dell’Afghanistan): “I gruppi terroristici hanno continuato a operare in Afghanistan e dall’Afghanistan, nonostante le persistenti preoccupazioni di Stati Uniti, Nazioni Unite e della regione circa il fatto che il Paese rimanga un rifugio per i terroristi, nonostante gli impegni assunti dai Talebani nell’Accordo di Doha del 2020… Il Dipartimento di Stato ha affermato nel suo rapporto annuale sul terrorismo, pubblicato nel dicembre 2024, che “gruppi terroristici come lo Stato Islamico – Provincia del Khorasan (ISIS-K) e il Tehreek-e-Taliban Pakistan (TTP) hanno continuato a trarre vantaggio dalle scarse condizioni socioeconomiche e dalle procedure di sicurezza irregolari [in Afghanistan] che rendono l’ambiente operativo più permissivo… Il Dipartimento di Stato ha inoltre dichiarato al SIGAR che ‘non è ancora chiaro se i Talebani abbiano la volontà e la capacità di eliminare completamente i rifugi sicuri per i terroristi’”.
E poi “lui”, il male assoluto per gli USA, al-Qaeda: “I talebani continuarono a fornire un ambiente permissivo ad al-Qaida in tutto l’Afghanistan. Il rapporto di febbraio del team [dell’ONU] riteneva che la strategia del leader di al-Qaida Sayf al-Adl di ‘riorganizzare la presenza di al-Qaida in Afghanistan e riattivare le cellule dormienti in Iraq, Libia, [Siria] e in Europa fosse indicativa dell’intenzione a lungo termine del gruppo di condurre operazioni esterne’”.
Nella valutazione annuale delle minacce del 2025, l’ODNI (Office of the Director of National Intelligence, ente federale degli Stati Uniti la cui missione è coordinare e supervisionare tutte le agenzie dell’intelligence statunitense) ha rilevato l’intenzione di al-Qaida di “prendere di mira gli Stati Uniti e i cittadini statunitensi attraverso i suoi affiliati globali”.
Non c’è che dire. Un bel risultato dopo 20 anni di occupazione e aver riconsegnato l’Afghanistan nelle mani dei Talebani. Ma vediamo nel dettaglio quali sono le evidenze che dimostrano come l’Afghanistan stia diventando l’hub dei jihadisti.
Gli amici di al-Qaeda, protetti e coccolati
Il rapporto dei Talebani con al-Qaida si basa su un difficile equilibrismo tra il mantenimento di un rapporto storico con il gruppo terroristico ideologicamente più affine e il riconoscimento internazionale alla loro presunta lotta al terrorismo, primo passo per l’ingresso del cosiddetto Emirato Islamico dell’Afghanistan nella comunità internazionale.
Come è noto, lo stretto legame con al-Qaida del primo regime talebano (1996-2001) e il rifugio offerto al suo capo Osama bin Laden provocarono l’attacco USA all’Afghanistan dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, organizzati dal gruppo terroristico. Spostatosi in Pakistan dopo la caduta del regime, Osama bin Laden verrà ucciso il 6 maggio 2011 nel corso di un’operazione militare statunitense, ma cellule dell’organizzazione continueranno a essere presenti in Afghanistan.
All’inizio del 2021, le agenzie di intelligence statunitensi stimavano che al-Qaida fosse al minimo storico in Afghanistan contando meno di duecento membri. Ma un anno dopo, il numero totale di affiliati in Afghanistan era, secondo il Consiglio di sicurezza dell’ONU, raddoppiato, raggiungendo i quattrocento combattenti, con la maggior parte dei membri installati nelle province di Ghazni, Helmand, Kandahar, Nimruz, Paktika e Zabul. Fin dai primi mesi dopo l’agosto 2021, i principali leader del gruppo si sono trasferiti in Afghanistan, a cominciare dal successore di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, grazie ai saldi legami con i Talebani, in particolare con il potente “ministro” dell’interno Sirajuddin Haqqani. E sarà proprio in una casa di Haqqani che al-Zawahiri verrà ucciso da droni statunitensi nel luglio 2022.
Nel febbraio 2024, l’ONU segnala che al-Qaida gestisce campi di addestramento in 8 delle 34 province afghane (secondo alcune fonti oggi sono 10, di cui uno nel Panjshir, ex roccaforte del Fronte di Resistenza anti-talebano) e che il responsabile di questi campi si chiama Hakim al Masri. E il Rapporto ONU del febbraio 2025 afferma che “I Talebani mantengono un ambiente permissivo che ha consentito ad Al-Qaida di consolidarsi, grazie alla presenza di rifugi sicuri e campi di addestramento sparsi in tutto l’Afghanistan (vedi grafico).
Campi di addestramento di al-Qaida presenti in Afghanistan. Fonte: Long War Journal della Foundation for Defense of Democracies
I membri di basso profilo risiedono, con le loro famiglie, sotto la protezione dei servizi segreti talebani nei quartieri di Kabul (per esempio, Qala-e-Fatullah, Shar-e-Naw e Wazir Akbar Khan), mentre i leader di alto livello sono dislocati in aree rurali fuori Kabul (come il remoto villaggio di Bulghuli nella provincia di Sar-e Pul), Kunar, Ghazni, Logar e Wardak. Alcuni Stati membri hanno segnalato che Hamza al Ghamdi, veterano dell’organizzazione, si trova nella zona di massima sicurezza di Shashdarak a Kabul con la sua famiglia. I Talebani hanno trasferito Abu Ikhlas Al-Masri (arrestato intorno al 2013 e liberato dopo il ritorno dei talebani) in un complesso altamente sicuro nel quartiere di Afshar a Kabul”.
Le relazionitra i Talebani e gli esponenti di al-Qaida sono complesse e si articolano su più livelli anche perché, nell’arco di trent’anni di presenza in territorio afghano o nei campi profughi in Pakistan, tanti membri dell’organizzazione terroristica si sono sposati con donne di famiglie di Talebani o a loro vicine. Anche il rapporto “istituzionale” con l’organizzazione non è monolitico e varia a seconda del momento e dei singoli leader del gruppo terroristico, ma l’Afghanistan rimane un nodo strategico centrale per al-Qaeda. Come del resto dimostra il pamphlet pubblicato nel luglio 2024 su as-Sahab, il media di riferimento dell’organizzazione, attribuito a Sayf al-Adl, nome con il quale è conosciuto il cittadino egiziano Mohammed Salahaldin Abd El Halim Zidane considerato il successore di al-Zawahiri, dove si legge: “Il popolo leale della Ummah [comunità islamica mondiale] interessato al cambiamento deve recarsi in Afghanistan, imparare dalle sue condizioni e trarre beneficio dalla sua esperienza [dei talebani]”. Al-Adl afferma poi che i musulmani dovrebbero considerare l’Emirato Islamico in Afghanistan come un eroe e un modello per costruire futuri stati islamici.
Affermazioni perfettamente in linea con quello che è sempre stato l’obiettivo principale di al-Qaeda: istituire un califfato panislamico e rovesciare i regimi corrotti “apostati” nel mondo islamico. Per farlo stringe alleanze con vari gruppiterroristici, come rileva anche il Report del SIGAR: “Al-Qaida ha continuato a espandere la sua portata al di fuori dell’Afghanistan rafforzando il coordinamento con Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), Movimento islamico dell’Uzbekistan (IMU), Movimento islamico del Turkestan orientale/Partito islamico del Turkestan (ETIM/TIP) e Jamaat Ansarullah”.
Il nemico numero 1: ISIS-K
Abbreviazione di Islamic State – Khorasan Province (Stato Islamico – Provincia del Khorasan), ISIS-K rappresenta uno dei gruppi jihadisti più pericolosi e complessi dell’Asia meridionale. Nato nel 2015, questo ramo regionale del cosiddetto Stato Islamico (ISIS) si è rapidamente affermato come una minaccia significativa per la sicurezza non solo in Afghanistan e Pakistan, ma anche nell’intera regione dell’Asia Centrale. A capo dell’organizzazione c’è dal giugno 2020 Sanaullah Ghafari, afghano di etnia tagika noto anche con il nome di battaglia Shahab al-Muhajir, che ha trasformato l’ISIS-K in un’organizzazione con ambizioni globali. Il gruppo ha rivendicato attentati in diversi paesi, tra cui i più devastanti in Russia dove, nel marzo 2024, un attacco a una sala concerti vicino a Mosca ha causato almeno 137 morti, e in Iran dove, nel gennaio 2024, un doppio attentato suicida a Kerman ha ucciso quasi 100 persone durante una commemorazione per Qassem Soleimani.
La denominazione “Khorasan” fa riferimento a una storica regione dell’Asia centrale che include parti di Afghanistan, Iran, Pakistan e dei paesi limitrofi. Nel contesto jihadista, il nome ha un forte valore simbolico e apocalittico, legato alla convinzione che da quella terra nasceranno i combattenti dell’Islam negli ultimi tempi.
Fondato da ex militanti talebani pakistani (TTP), combattenti provenienti da al-Qaida e dissidenti talebani afghani che hanno scelto di aderire alla causa globale dello Stato Islamico, distinto dai tradizionali Talebani. Questa scissione ha segnato un punto di svolta nel panorama jihadista regionale, portando a una rivalità accesa e sanguinosa tra i due gruppi.
Come branca regionale dello Stato Islamico, ISIS-K mira a stabilire un califfato islamico rigoroso basato sulla sharia, estendendo la propria influenza su Afghanistan, Pakistan e oltre. A differenza dei Talebani, che hanno una visione più nazionale e tribale, ISIS-K si propone una jihad globale e più radicale, opponendosi anche ai Talebani che considerano “moderati” e insufficientemente rigorosi.
Dal 2015 ISIS-K ha condotto numerosi attacchi violenti e spettacolari, caratterizzati da un’elevata brutalità e un alto numero di vittime civili. Tra gli episodi più tragici, altre ai due già citati all’estero, spicca l’attentato suicida del 26 agosto 2021 all’aeroporto di Kabul, che causò oltre 180 morti, compresi tredici soldati statunitensi, durante l’evacuazione delle forze straniere e dei civili afghani. ISIS-K ha preso di mira in particolare le minoranze religiose sciite, come gli Hazara, organizzando attacchi contro moschee, scuole e mercati, oltre a operazioni contro i Talebani stessi.
La principale base di ISIS-K rimane l’Afghanistan orientale, soprattutto nelle province montuose di Nangarhar e Kunar, dove le forze talebane hanno difficoltà a controllare completamente il territorio. Oltre a Kabul, ISIS-K ha cercato di espandersi in altre province afghane e ha cellule operative in Pakistan, in particolare nelle regioni tribali di Waziristan e Belucistan. Il gruppo ha anche cercato di estendere la propria influenza in Asia Centrale, in paesi come Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan, sfruttando le frontiere porose e le fragilità politiche locali. E proprio questo “miscuglio” jihadista rappresenta un punto di forza di ISIS-K che, come spiega l’ONU, sta “astutamente utilizzando cittadini afghani per condurre attacchi in Pakistan, cittadini pakistani per condurre attacchi all’interno dell’Afghanistan, cittadini tagiki per condurre attacchi in Iran (Repubblica Islamica dell’Iran) e nella Federazione Russa e ha utilizzato un cittadino kirghiso per compiere un attacco nel cuore dei talebani, Kandahar”.
Lontani dall’aver “pacificato” il Paese, non solo i Talebani non sono in grado di proteggere i cittadini afghani dagli attentati terroristici dell’ISIS-K, ma il gruppo terroristico ha anche “beneficiato dell’incapacità dei talebani di proteggersi dall’infiltrazione e dalla corruzione tra i suoi stessi ranghi, nonostante i raid condotti per arrestare funzionari sleali”, come si legge nel Report ONU di febbraio 2025.
I fratelli pakistani del TTP
Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), conosciuto anche come i Talebani pakistani, è una coalizione jihadista sunnita nata nel 2007 con l’obiettivo dichiarato di rovesciare il governo del Pakistan e instaurare un emirato islamico basato sulla sharia. Nel tempo, il gruppo è diventato una delle principali minacce alla sicurezza del Pakistan, responsabile di alcuni degli attacchi più sanguinosi della sua storia recente.
Fondato da Baitullah Mehsud, un influente comandante tribale della regione del Waziristan meridionale, insieme ad altri leader militanti attivi lungo la zona tribale al confine afghano-pakistano, TTP nasce in risposta alle operazioni militari lanciate dall’esercito pakistano contro gruppi affiliati ad al-Qaida e ai talebani afghani, che godevano di rifugi sicuri nelle aree tribali.
Il movimento ha preso ispirazione ideologica dai Talebani afghani, ma è strutturalmente e operativamente indipendente da essi perseguendo specifici obiettivi: l’instaurazione della legge islamica in Pakistan; la fine della cooperazione del Pakistan con gli Stati Uniti e l’Occidente; la vendetta contro l’esercito pakistano per le sue operazioni nelle aree tribali e per il sostegno alla guerra statunitense contro il terrorismo.
Dalla sua fondazione, il TTP ha condotto centinaia di attentati, attacchi suicidi e imboscate contro obiettivi militari, governativi e civili attraversando diverse fasi di declino e rinascita. La morte di Baitullah Mehsud in un attacco drone USA nel 2009 fu seguita da lotte interne per la leadership; nel 2018, Mufti Noor Wali Mehsud è stato nominato nuovo leader. Sotto la sua guida, il gruppo ha cercato di riorganizzarsi, migliorare la comunicazione e sfruttare le divisioni settarie ed etniche del Paese. Il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan ha offerto al TTP nuove opportunità logistiche e operative, rafforzando la sua presenza al confine.
Sebbene i talebani afghani abbiano negato formalmente di sostenere il TTP, è noto e riportato da diversi organismi internazionali che molti leader del TTP si rifugiano in Afghanistan e godono di protezione. Il Global Terrorism Index 2025 ha rilevato che gli attacchi del TTP sono aumentati di cinque volte dal ritorno al potere dei Talebani. Il Pakistan ha più volte chiesto a Kabul di estradare membri del gruppo, ma senza successo. Secondo il già citato Rapporto del SIGAR, nella seconda metà del 2024 si sarebbe verificata una maggiore collaborazione tra il TTP, i talebani afghani e al-Qaeda, con attacchi condotti sotto l’egida di Tehrik-e Jihad Pakistan, un’organizzazione ombrello. Infine, sempre secondo il SIGAR, il TTP ha istituito nuovi centri di addestramento nelle province afghane di Kunar, Nangarhar, Khost e Paktika, ha ampliato il reclutamento, includendo membri talebani afghani, e ha ricevuto sostegno finanziario dal regime talebano.
E, per concludere, il già citato ODNI, mette in guardia: “Le capacità del TTP, i legami storici con al-Qaida e il precedente supporto alle operazioni contro gli Stati Uniti ci preoccupano per la potenziale minaccia futura”.
Piccoli terroristi crescono
Se quelle descritte sono le organizzazioni principali che si stanno irrobustendo in Afghanistan, non sono le sole: “I gruppi terroristici hanno continuato a utilizzare il suolo afghano per addestrare e pianificare attacchi e un flusso “piccolo ma costante” di terroristi stranieri ha continuato a recarsi in Afghanistan e a unirsi a uno degli oltre due dozzine di gruppi terroristici lì basati”, si legge nel Rapporto ONU del febbraio 2025.
Diciamo che non c’è che l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, oltre agli Stati Uniti e l’Occidente in generale, neanche i paesi vicini possono dormire sonni tranquilli. Solo per citare alcuni gruppi: il Turkistan Islamic Party (TIP), è un gruppo uiguro, quindi particolarmente inviso alla Cina, con legami storici con i Talebani; Katibat Imam al-Bukhari e Islamic Movement of Uzbekistan (IMU) sono gruppi uzbeki, legati a Talebani e al-Qaida ; per quanto riguarda il Pakistan non abbiamo solo il TTP, ma anche Lashkar-e-Taiba (LeT) e Jaish-e-Mohammed (JeM), anch’essi con legami storici con Talebani e al-Qaida .
C’è poi un ultimo, ma non secondario, elemento da considerare. In Afghanistan si sta smantellando il sistema scolastico e le discipline religiose in chiave fondamentalista sostituiscono in gran parte le altre materie. Il report pubblicato da UNAMA in aprile evidenzia come sia in atto la trasformazione del sistema di istruzione pubblica del Paese in un modello religioso basato sulle madrase. Nel settembre 2024, il Ministero dell’Istruzione del governo di fatto ha annunciato un aumento dei centri di educazione islamica a 21.257, di cui 19.669 madrase, superando il numero totale di scuole pubbliche e private, pari a 18.337. Tutto ciò non può che portare a una radicalizzazione delle giovani generazioni con la crescita di nuovi militanti che potranno essere persino più pericolosi di quanto siano percepiti gli attuali Talebani.
Nella terza settimana di maggio 2025, il team sanitario mobile di Hamoon ha intrapreso un viaggio che non solo ha attraversato la geografia, ma ha anche toccato i confini del dolore, dell’abbandono e del bisogno.
Un viaggio di oltre sei ore: da Kabul a Jalalabad e poi nel cuore del distretto di Dara-eNoor, verso un villaggio chiamato Janshegal; un luogo lontano e dimenticato, incastonato tra le aspre montagne della provincia di Nangarhar. Questo tortuoso sentiero montano che attraversa il pericoloso passo di Mahipar testimoniava a ogni curva anni di negligenza governativa; una distanza che sulla mappa potrebbe essere solo di pochi chilometri, ma in realtà è un muro tra le persone indigenti e povere e i servizi essenziali di base di cui non hanno mai beneficiato. Il villaggio di Janshegal, come un’isola isolata tra i meandri della montagna, privo di strade ben servite e veicoli adeguati, rimane privo delle più elementari strutture sanitarie, educative e di sostentamento.
Non c’è né una clinica né una scuola. Nessuna istituzione governativa o non governativa ascolta il grido silenzioso di queste persone. Il centro sanitario di base più vicino si trova a 5 chilometri di distanza, ma non è né adeguatamente funzionante né facilmente accessibile per la gente del posto. Donne e bambini di questo villaggio sono privati dei loro diritti umani più elementari, come l’accesso all’assistenza sanitaria, un’alimentazione adeguata e acqua a sufficienza, per non parlare dell’educazione alla dignità umana. Gli uomini sono per lo più migranti che lavorano a giornata o disoccupati nel villaggio.
La vita ricade pesantemente sulle spalle delle donne che, nonostante le sofferenze fisiche e psicologiche, portano il peso con la schiena curva e il cuore saldo: dalla cura dei bambini e degli anziani della famiglia alla cucina, alla raccolta della legna da ardere, al trasporto dell’acqua e ad altre faccende quotidiane, oltre al duro lavoro nei campi e nell’agricoltura. Nella zona che abbiamo visitato, tutto parlava di lontananza e isolamento, ma una volta messo piede lì, ci siamo resi conto che l’isolamento non era solo geografico; era come se queste persone fossero state cancellate anche dalla memoria del mondo. Gli abitanti erano montanari, le cui case semplici e primitive erano costruite con le proprie mani, utilizzando pietra e legno raccolti dalle montagne e dalle foreste circostanti.
La deforestazione incontrollata e il contrabbando di legname in Pakistan non rappresentano solo un problema ambientale, ma anche una sofferenza per la popolazione locale, contro la quale il governo non ha fatto alcuno sforzo per intervenire. In questa zona, la pianura è considerata un tesoro e, oltre alla coltivazione, gli abitanti del villaggio la usano per raduni e varie cerimonie. Erano le 10 del mattino e il calore del sole gravava pesantemente sul pendio della montagna. Abbiamo visto gruppi di donne tornare dai campi: falci in mano, piedi impolverati, schiene curve sotto il peso della tristezza e di un dolore silenzioso. I loro sguardi mescolavano la stanchezza a una domanda silenziosa: “Siete venuti per restare?”. Non vedevano un medico da molto tempo, non avevano accesso alle medicine e nessuno a cui chiedere aiuto.
Si installa la clinica mobile
Quando il nostro team è arrivato a Janshegal, la prima sfida è stata trovare un’area pianeggiante dove allestire la tenda medica. Ovunque guardassimo, vedevamo case di pietra o ripidi pendii che rendevano difficile stare in piedi per qualche minuto. Dopo esserci consultati con gli anziani del villaggio, abbiamo deciso di esplorare diversi punti per trovare un posto adatto alla postazione della squadra; un luogo dove donne malate e bambini deboli potessero aspettare senza timore di cadere o di prendere un’insolazione.
Ne abbiamo valutate tre: uno vicino alle case, ma stretto e scivoloso; un altro con più alberi, ma più ripido e pericoloso; e il terzo, che alla fine abbiamo scelto, era una parte della montagna naturalmente terrazzata. Da un lato si affacciava sulla valle, e dall’altro si appoggiava alla montagna; gli altri due lati erano circondati da alberi ad alto fusto che fornivano un’ombra limitata ma rilassante.
Mentre scaricavamo l’attrezzatura e montavamo la tenda, la preoccupazione si è insinuata nei nostri cuori: questo caldo di mezzogiorno, questo sole cocente orientale, avrebbe potuto mettere a dura prova i corpi fragili di bambini e donne incinte e causare nuove malattie. Soprattutto nelle regioni montuose, la luce del sole è più diretta e l’aria più pesante. Eravamo preoccupati, così abbiamo cercato di creare ombra e di installare alcuni angoli al riposo. Ma ciò che ci ha insegnato una grande lezione è stata la reazione della gente del posto. Calmi e sorridenti, hanno ascoltato le nostre preoccupazioni, e un uomo anziano con voce stanca ma decisa ha detto: “Non abbiamo problemi con il caldo; dalla mattina alla sera, ogni giorno, lavoriamo sotto questo sole. Questo caldo è parte della nostra vita, non una minaccia”.
I pazienti aspettano fiduciosi
Le donne con il viso bruciato dal sole, le mani callose e il corpo stanco si sono sedute una alla volta. I bambini erano in braccio alle madri o giocavano tra i cespugli. Alcuni occhi erano pieni di paura e alienazione, altri ci guardavano con curiosità. Alcune donne all’inizio non hanno osato avvicinarsi ai medici. A causa della minaccia di un’improvvisa presenza della polizia religiosa (Amr bil Maroof), abbiamo preparato due tavoli separati per i medici uomini e donne. Nei primi momenti, la gente si è radunata da ogni parte; alcuni con i bambini in braccio, altri sostenevano i genitori anziani. Volti bruciati dal sole, ma ancora luminosi di speranza. In quei momenti, la nostra presenza non era solo una visita medica per loro, ma una finestra su un mondo dove forse qualcuno sente ancora, vede e porge una mano.
La prima paziente è stata Bibi, una donna di mezza età con pressione bassa e gravi sintomi di affaticamento, portata dal marito nella nostra tenda. Quando l’abbiamo visitata, ha mormorato di non aver preso medicine da anni e, nonostante la grave debolezza, saliva ancora ogni giorno in montagna per raccogliere i prodotti agricoli. Ha detto di avere sei figli e che suo marito è disoccupato. Era il simbolo di una donna divisa tra un corpo stanco e la maternità a tempo pieno, ma non ancora sconfitta. Le abbiamo prescritto sieri e farmaci e le abbiamo dato consigli nutrizionali che lei stessa sapeva essere impossibili da seguire perché diceva: “Non abbiamo sempre nemmeno il pane secco”.
Un altro uomo anziano di nome Kaka, con le mani tremanti e gli occhi pieni di dolore, è stato aiutato a farsi strada tra la folla. Al suo arrivo, aveva le lacrime agli occhi. Ci ha raccontato dei suoi due figli piccoli, che avevano prestato servizio nell’esercito governativo durante la repubblica e che erano stati uccisi, e di un terzo figlio, scomparso durante la migrazione. Aveva la pressione alta e i sintomi di una profonda depressione erano evidenti nel suo comportamento. Quando gli abbiamo prescritto delle medicine, disse con voce roca: “Le medicine potrebbero abbassarmi la pressione, ma che ne sarà di questo cuore…?”.
Una bambina di nome Maryam è entrata con uno shock nervoso e forti palpitazioni con segni di ansia cronica e disturbi psicologici. Le abbiamo parlato con gentilezza, le abbiamo somministrato i farmaci necessari e consigliato alla famiglia di offrirle un ambiente tranquillo. Il momento in cui un piccolo sorriso è apparso sulle sue labbra è stato forse una delle ricompense più silenziose e profonde del nostro viaggio.
In un altro angolo, un bambino si era nascosto dietro la tenda. Quando ci ci siamo avvicinati, abbiamo visto che aveva paura degli abiti bianchi e degli strumenti medici. Lo abbiamo calmato dolcemente con carezze e sorrisi. La paura del bambino è stato per noi un amaro promemoria: bambini che crescono non con ricordi di gioco e gioia, ma con ricordi di dolore, isolamento, abbandono e povertà.
Una giovane donna si è presentata dal medico e, dopo averle prescritto dei farmaci, il medico le ha prescritto di attaccarle immediatamente una flebo alla mano. La vista del poco sangue l’ha fatta svenire. L’équipe sanitaria si è radunata intorno a lei e il medico ha riesaminato attentamente le sue condizioni, scoprendo che, a causa di problemi ginecologici durante la gravidanza, soffriva di anemia, emorragie e grave debolezza fisica. A causa dell’affollamento, abbiamo chiesto che venisse riportata a casa per proteggerla dalla polvere e dal caldo. L’anziana madre l’ha portata in spalla e si è spostata rapidamente dalla cima della montagna alla mezza montagna dove si trovava la sua casa. Vedere questa scena è stato sorprendente ed emozionante per il nostro team, insieme alla sensazione che queste donne, a causa della mancanza di strutture, siano diventate così tenaci e laboriose. La dottoressa ha sistemato la paziente nella stanza e le ha avviato la flebo. Un’infermiera è rimasta con lei mentre la dottoressa tornava al punto di ritrovo dei pazienti. Al termine delle operazioni, abbiamo visitato di nuovo la donna e, constatando che si sentiva meglio, ci hanno offerto dell’acqua di sorgente fresca in segno di gratitudine.
Quel giorno, oltre 200 persone del posto sono state visitate e curate. Tra le malattie più comuni c’erano problemi digestivi, infezioni cutanee, anemia, disturbi ormonali, pressione sanguigna, mal di testa cronici, malattie respiratorie e dolori muscolari e scheletrici. Abbiamo prescritto farmaci a tutti i pazienti, distribuito i medicinali necessari e fornito anche consigli su igiene personale, alimentazione e cura dei bambini.
Il momento di lasciare il villaggio
Alla fine della giornata, quando il sole è scomparso dietro le montagne e il canto degli uccelli si sentiva in lontananza, gli abitanti del villaggio ci hanno salutato. Alcuni con le lacrime, altri con un sorriso, altri solo con uno sguardo. In quegli sguardi, c’era qualcosa che ci è rimasto impresso: un desiderio di ritorno, la speranza che noi tornassimo e una gratitudine inesprimibile a parole.
Sebbene la nostra missione sia stata breve, quel giorno rimase impresso nei cuori e nelle menti di tutti i membri del team. Ci siamo resi conto che l’assistenza sanitaria non consiste semplicemente nel curare un paziente: è la garanzia per il paziente di essere ascoltato, visto e non dimenticato. Con il cuore colmo di esperienza e consapevolezza, e con la certezza che la nostra presenza, con il vostro aiuto, sia una luce nell’oscurità, siamo tornati a casa.
Questo viaggio non sarebbe stato possibile senza il sostegno finanziario e umano di CISDA. Mentre ce ne andavamo, lo stesso anziano che ci aveva avvicinato per primo ci ha detto: “La montagna è sempre qui; se tornerete, i nostri cuori saranno più caldi di questo sole“.