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COMUNICATO – Uno schiaffo al dialogo

Di fronte all’abominevole recente legge dei Talebani emanata dal Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio contro le donne, la loro libertà e la loro stessa esistenza, la comunità internazionale si è affrettata a esprimere la sua totale condanna e a chiederne l’abrogazione.

In realtà la legge non afferma niente di nuovo rispetto a quanto era già stato deciso e applicato dalla “giustizia” talebana in questi tre anni di suo dominio assoluto. Già le donne non potevano frequentare la scuola dopo i 12 anni, lavorare fuori casa tranne in casi rari, uscire da sole senza l’accompagnamento di un famigliare, farsi vedere senza il jahab, frequentare parchi pubblici, bagni, saloni di bellezza, palestre nemmeno se a loro riservati.

Ora è stato chiaramente sentenziato anche il divieto per le donne a far sentire in pubblico la loro voce, cantare, recitare, leggere ad alta voce, come ultimo segno della volontà di cancellare completamente le donne come esseri umani.

I talebani si sono spinti ad affermare con una legge scritta e con validità nazionale la loro interpretazione della Sharia, che considerano la base del “mandato divino” del loro governo e che intendono propagandare come la giusta interpretazione della religione musulmana.

E’ chiaramente un segno di forza, quello che vogliono mostrare, al mondo prima ancora che ai loro sudditi.

Ma come mai, nonostante tutte le dichiarazioni di condanna della loro politica verso le donne da parte di praticamente tutti gli stati della comunità internazionale e di gran parte del Mondo musulmano i Talebani hanno avuto il coraggio e la faccia tosta di promulgare una legge così forte dando uno schiaffo a tutte le istituzioni internazionali e alle sanzioni promulgate nei loro confronti?

In questi tre anni molti Governi e Stati, non solo quelli vicini nella Regione ma anche i paesi donatori occidentali, hanno praticato aperture sempre maggiori verso il riconoscimento di fatto del governo talebano, fino ad arrivare alla 3° Conferenza di Doha organizzata dall’Onu stessa dichiaratamente per avvicinare i talebani al consesso internazionale, accettando, in nome del loro avvicinamento, di non parlare di donne e diritti umani proprio per dimostrare ai talebani la buona volontà di dialogare con loro, nella speranza  che questi avrebbero poi dato qualcosa in cambio. Basta con il pugno di ferro che ha isolato i talebani e li ha resi più “cattivi” – dicevano –  lasciamo perdere i diritti umani e andiamo avanti con il dialogo su argomenti meno controversi, dimostriamo come siamo “buoni” noi e il nostro sistema democratico, così capiranno…

Ma nel terzo anniversario della loro presa del potere i talebani hanno mostrato con questa legge non solo che non hanno alcuna intenzione di fare aperture sui diritti umani per nessuno, ma addirittura hanno consolidato le loro convinzioni e la presa repressiva sulle donne e tutta la popolazione, mostrando che le norme finora applicate localmente e con arbitrio personale da parte dei vari funzionari talebani e governatorucci locali non rappresentavano semplici abusi o esagerate interpretazioni della sahria ma invece quello che è e continuerà a essere il pensiero ispiratore della loro governance.

Sarà sufficiente questa ulteriore presa di posizione ufficiale per convincere l’Onu, gli Stati e le Istituzioni internazionali che è inutile sperare in un ravvedimento e un cambiamento della loro ideologia ma che invece i Talebani vanno trattati per i delinquenti che sono e costretti alle loro responsabilità, denunciandoli agli organi di Giustizia nazionali e internazionali?

Questo è quanto chiedono le donne afghane che resistono dentro e fuori il Paese e tutte le istituzioni e le organizzazioni che lavorano per i diritti umani.

Questo chiede anche il CISDA.

Hanafi Khalid

Khalid Hanafi è nato nel 1971 nel villaggio di Kolam Shaheed nel distretto di Doabi della provincia di Nuristan in Afghanistan.

Ruolo e responsabilità attuali

Attualmente Khalid Hanafi ricopre la carica di Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio del cosiddetto Emirato islamico dell’Afghanistan, il governo de facto, non riconosciuto dalla comunità internazionale, che è al potere in Afghanistan dall’agosto 2021.

“Hanafi è emerso come una delle figure più note dal ritorno al potere dei talebani.

La comunità internazionale lo identifica come un grave violatore dei diritti umani, in particolare per il suo ruolo nell’applicazione delle leggi draconiane dei talebani che hanno gravemente limitato le libertà dei cittadini afghani, soprattutto delle donne…Il suo ministero, noto per aver imposto alcune delle più severe restrizioni alla società afghana, è stato in prima linea nella campagna dei talebani per limitare i diritti delle donne. Queste misure includono il divieto alle donne di entrare nei parchi pubblici, la limitazione della loro libertà di movimento e l’applicazione di rigidi codici di abbigliamento prendendo come riferimento la legge islamica.

La posizione intransigente di Hanafi sui diritti delle donne riduce il loro ruolo nella società confinandole al matrimonio e agli obblighi religiosi. La sua retorica ha chiarito che l’interpretazione della legge della Sharia da parte dei talebani, in particolare per quanto riguarda l’hijab e la presenza pubblica delle donne, non è negoziabile: Possiamo rinunciare a qualsiasi cosa, ma non possiamo rinunciare alla Sharia. Sharia e hijab sono le nostre linee rosse perché il nostro obiettivo era implementare un sistema islamico, ha dichiarato in un recente incontro.

Hanafi è strettamente legato alla rete Haqqani, una fazione influente all’interno dei talebani, e mantiene una stretta relazione con il leader supremo dei talebani, Hibatullah Akhundzada. La sua lealtà e il suo allineamento con la visione di Akhundzada hanno portato a un’autorità ampliata sugli organi esecutivi e giudiziari dei talebani, rafforzando ulteriormente la sua influenza nel governo oppressivo del regime.

Negli ultimi anni, le azioni di Hanafi hanno suscitato una condanna diffusa, sia a livello nazionale che internazionale. Le donne afghane, in particolare, hanno sopportato il peso delle sue politiche. Sotto la guida di Hanafi, il Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio è stato autorizzato a detenere e punire coloro che sfidano le sue restrizioni, rafforzando ulteriormente il controllo dei talebani sulla società afghana.

La portata del ministero si estende oltre i codici di abbigliamento e il comportamento sociale, comprendendo restrizioni sulle pratiche culturali e la presenza stessa delle donne nella vita pubblica. Mentre l’Afghanistan continua a confrontarsi con le conseguenze del governo dei talebani, Khalid Hanafi rimane una figura fondamentale negli sforzi del regime per imporre la sua austera interpretazione della legge islamica, con effetti profondi e devastanti sul tessuto sociale del paese.” (fonte Amu TV, 24 agosto 2024)

Biografia

Khalid Hanafi è figlio di Malik Habibullah, leader jihadista del periodo dell’invasione russa e governatore locale. Cresciuto in una famiglia integralista, Hanafi ha studiato in varie madrase in Afghanistan e in Pakistan. In particolare, ha compiuto i suoi studi nella madrasa Darul Uloom Haqqania, nella provincia pakistana di Khyber Pakhtunkhwa, “importante centro di diffusione della cultura islamica sunnita del movimento Deobandi, … Fu ribattezzata l’Università della Jihād per il contenuto, i metodi della didattica e per le future occupazioni di alcuni dei suoi più noti allievi. … diede ampio sostegno ai mujahideen e ai talebani dell’Afghanistan, sfornando in particolare il loro leader, il Mullah Omar.” (fonte Wikipedia)

Tra gli allievi di questa madrasa, oltre a Hanafi e al Mullah Omar, si annoverano Jalaluddin Haqqani, ex leader della rete terroristica omonima; Akhtar Mansour, ex leader dei talebani; Sirajuddin Haqqani, succeduto al padre Jalaluddin quale leader della rete che porta il suo nome; Mohammad Yunus Khalis, esponente di spicco dei mujaheddin.

Oltre a studiarvi, Hanafi ha successivamente insegnato in questa e in altre madrase, radicalizzandosi ulteriormente nel quadro ideologico che ora guida le politiche dei talebani.

Della sua vita privata, come di quella di molti leader talebani, non si sa molto.

Formazione e carriera politica

Vicino al primo governo talebano (1996-2001), anche grazie all’attività del fratello, Maulvi Rustam, allora vice ministro dei lavori pubblici, Hanafi ha formato un movimento jihadista nei distretti di Nimroz e Delaram (nell’Afghanistan meridionale).

Negli anni dell’intervento Nato, Hanafi è stato responsabile di tre distretti nella provincia di Nuristan: Norgram, Doab e Mandol. Inoltre, è stato responsabile anche delle province di Laghman e Nuristan e dei campi di addestramento militare nella zona orientale del Paese.

Dal ritorno al potere dei talebani, nell’agosto 2021, ricopre l’incarico di Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio.

Hanafi è il promotore della legge, approvata dai vertici talebani lo scorso 22 agosto, che sistematizza i numerosi divieti già in vigore nel paese, aggiungendone di nuovi.

“La nuova legge, divisa in 35 articoli, raggruppa in unico testo varie norme (alcune delle quali già in vigore nel paese) che limitano notevolmente i diritti delle donne e impongono restrizioni sul loro comportamento, sia in pubblico che in privato. Tra le altre cose la legge stabilisce che le donne debbano coprire il corpo e il viso quando sono in pubblico, e non possano indossare indumenti aderenti o corti. Non possono cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico, dato che secondo i talebani la voce di una donna è considerata un aspetto intimo e deve rimanere privata. Vieta inoltre alle donne di viaggiare senza essere accompagnate da un uomo con cui hanno un legame di sangue, e di fare incontri di qualsiasi tipo con uomini con i quali non sono imparentate.

Sono regolamentati anche alcuni aspetti dell’abbigliamento maschile: gli uomini non possono portare pantaloni sopra al ginocchio e devono sempre curare la propria barba. Sono vietate la produzione e la diffusione di immagini rappresentanti esseri viventi, l’ascolto della musica, l’omosessualità, l’adulterio e le scommesse.” (fonte il post)

In risposta alle numerose critiche sollevate dall’emanazione della legge da parte della comunità internazionale e, in particolare, di UNAMA Hanafi ha liquidato le proteste sottolineando che l’Emirato islamico si impegna con il mondo solo nel quadro delle leggi islamiche. “Secondo Mohammad Khalid Hanafi, l’hijab e l’implementazione delle punizioni islamiche sono linee rosse e nessun ordine di nessuno in merito verrà accettato. Il ministro ha affermato: Se l’Emirato islamico interagisce con il mondo, lo fa secondo il quadro della Sharia. Non agirà contro il quadro della Sharia, se Dio vuole. Il nostro obiettivo è un sistema basato sulla Sharia islamica.” (fonte Tolonews)

Se non sono bastate le violazioni dei diritti delle donne e di tutti i cittadini afghani e le violenze di cui il popolo afghano è vittima, questa legge e queste dichiarazioni dovrebbero mettere una pietra tombale su ogni tentativo, diretto e indiritto, di riconoscimento del governo talebano oltre a far sprofondare nella vergogna chi ha ceduto alle loro ignobili richieste pur di averli presenti all’ultima Conferenza di Doha.

Valutazione internazionale

Khalid Hanafi compare in 2 liste di individui sanzionati in Unione Europea e negli Stati Uniti.

L’8 marzo 2023, Hanafi è stato inserito nella lista nera dei nemici delle donne redatta dall’Unione Europea, una nuova categoria di sanzioni, che va a colpire nove persone e tre entità in tutto il mondo.  L’inserimento nella black list europea viene inquadrato nell’ambito di un regime globale di sanzioni dell’Ue per i diritti umani che si applica ad atti quali il genocidio, i crimini contro l’umanità e altre gravi violazioni o abusi dei diritti umani. Tra le nove persone colpite, oltre ad Hanafi, c’è anche il ministro per l’Educazione superiore Neda Mohammed Nadeem, entrambi colpevoli di “serie violazioni dei diritti delle donne afghane”, si legge nel testo approvato a Bruxelles.

L’8 dicembre 2023 Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha imposto sanzioni a Mohammad Khalid Hanafi, Ministro per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, e a Fariduddin Mahmood, capo dell’Accademia talebana, citando violazioni dei diritti umani e repressione di donne e ragazze. Il dipartimento ha affermato che i membri del ministero di Hanafi “hanno commesso gravi abusi dei diritti umani, tra cui rapimenti, frustate e percosse”. Hanno anche aggredito gli afghani che protestavano contro le restrizioni all’attività delle donne, tra cui l’accesso all’istruzione, ha osservato la dichiarazione.

Comunicato di RAWA a tre anni dalla presa del potere dei talebani

“Il Cisda che da sempre sostiene Rawa Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane condivide il comunicato  pubblicato da Rawa sulla pagina Facebook a tre anni dalla presa di potere dei talebani e continua a sostenere la loro lotta”

Revolutionary Association of the Women of Afghanistan – RAWA, 14 agosto 2024 

Tre anni fa l’America e l’Occidente hanno abbandonato la corrotta repubblica da loro voluta e consegnato il potere ai brutali talebani. Mentre USA e NATO ritiravano le loro truppe dall’Afghanistan, i talebani hanno portato avanti la loro missione incompiuta godendo, fino a oggi, del sostegno finanziario e diplomatico dell’Occidente.

I sinistri e malvagi talebani sapevano fin dall’inizio che la crescita dei semi degli attentati suicidi, del terrorismo e della superstizione avrebbero trovato terreno fertile solo in una società impoverita e ignorante.

Guidati dal fascismo religioso, questi criminali hanno attaccato la libertà e le donne con il fine di paralizzare la parte di società più oppressa, privandola di istruzione, conoscenza e opportunità, e imprigionando le donne a casa.

Ma le donne afghane, grazie al loro grande coraggio contro questo regime medievale sostenuto dagli USA, hanno dimostrato di aver raggiunto un tale livello di consapevolezza che nessuna forza sarà capace di far arretrare, riportando indietro le lancette della storia e facendole finire nell’oscurità.

Tre anni di governo soffocante, oppressivo e infernale di CIA e talebani segnano il periodo più oscuro della nostra storia. Un periodo in cui si è cercato in ogni modo di sradicare ciascuno degli elementi di una società umana: la scienza, l’arte, la conoscenza e la vita stessa.

Le donne che si sono sollevate hanno subito frustate, prigionia, tortura, confessioni forzate, molestie sessuali e sono persino state assassinate.

Nonostante questo, le nostre coraggiose donne non hanno perdonato i talebani per il sangue di Forouzan, Arzu, Negar e molte altre che sono state uccise, e continuano a far sentire la loro voce contro l’ingiustizia in ogni angolo della nostra terra e mostrano al mondo, che ha dimenticato le loro sofferenze, che non si arrenderanno all’ingiustizia, all’ignoranza e all’oppressione.

Spie malvagie quali Zalmay Khalizad, Hamed Karzai, Rina Amiri e i funzionari di UNAMA, insieme ad altri, stanno cercando di tenere in piedi l’odioso governo talebano attraverso un gruppo di lobbisti e lobbiste corrotti.

Ma i leader dei crudeli talebani sono essi stessi corrotti e abietti e cercano di accumulare ricchezze anche attraverso i loro numerosi matrimoni, cosa che oggi intensifica il rancore e la rabbia di una popolazione povera, senza lavoro e disperata ogni giorno di più.

Jihadisti in fuga e leader repubblicani che hanno portato la nostra patria sofferente nell’attuale tragica situazione grazie a corruzione, saccheggi, tradimenti, ora chiedono all’America e all’Occidente di rendere l’Emirato Islamico un regime “inclusivo” che consentirebbe loro di rivestire ruoli di potere accanto ai loro fratelli talebani. Per il nostro popolo, talebani, jihadisti e leader repubblicani sono fatti tutti della stessa pasta; se guideranno ancora la nostra terra, questi delinquenti ruberanno ancora una volta i sogni del popolo.

L’avvento e il governo dell’Emirato talebano sono un amaro scherzo del colonialismo ai danni della nostra terra e della nostra gente, ma gli artefici di questo disastro non saranno in grado di mantenere il potere a lungo. Il nostro popolo, come tanti altri popoli nel mondo, ama la libertà, la giustizia e la democrazia e non potrà essere privato a lungo di questi valori fondamentali.

Ispirati dal coraggio delle donne afghane e da chi resiste in altre nazioni oppresse dall’imperialismo e dal fondamentalismo islamico, i nostri partigiani insorgeranno, e a quel punto non basteranno nemmeno i miliardi di dollari degli Stati Uniti a salvare i talebani dalla tempesta di rabbia di una nazione unita.

Sorelle, potremo liberarci dalla morsa dell’oppressione e della violenza solo attraverso la lotta!

Lunga vita alla lotta per la democrazia e contro il fascismo religioso dei talebani!

[Trad. a cura di CISDA]

Come funziona la brutale giustizia talebana che seppellisce vive le donne afghane

Dal loro pieno ritorno al potere nell’agosto di tre anni fa i Talebani hanno imposto un sistema che prevede crimini “morali”, spesso puniti con la fustigazione o la lapidazione. Leggi usate per opprimere le donne mentre i tribunali e le corti ignorano sempre di più i crimini e le violenze di genere. Uno scenario asfissiante che le insegue anche negli ospedali e nei parchi pubblici,

Un villaggio di polvere e vento, come tanti altri in Afghanistan. Lo spazio di terra battuta coperto di sassi è circondato da uomini, barbuti, inturbantati, i fucili che ciondolano dalla spalla. Parlano tra loro, sembrano incerti, si armano. Raccolgono da terra i sassi, come bambini goffi per un gioco. Al centro un buco, profondo abbastanza per coprire la parte inferiore di un corpo. Di un corpo di donna.

Il suo volto è cancellato nel video ma si sentono i suoi deboli lamenti. Non grida, non ne ha più la forza. Ha rinunciato. Gli uomini cominciano il tiro al bersaglio, si guardano tra loro, si approvano. I lamenti aumentano, strascicati, come una litania. Il bersaglio è facile, esposto. Una dopo l’altra, le pietre spengono la vita della giovane donna. Una buona lapidazione ha le sue regole: sassi non troppo piccoli, altrimenti non fanno abbastanza male, né troppo grossi altrimenti l’agonia è subito finita. Il buco in cui la condannata è sepolta le impedisce di fuggire ma salva anche la “moralità”, impedisce che le sue parti intime siano visibili.  

Da marzo scorso il leader supremo talebano Hibatullah Akhundzada ha annunciato che le punizioni corporali, comprese la fustigazione pubblica e la lapidazione, sono strumenti di legge e verranno obbligatoriamente applicati in tutto l’Afghanistan. Poi si è rivolto all’Occidente: “Nella vostra visione la lapidazione è una violazione dei diritti delle donne. Nel prossimo futuro, prevediamo di applicare la punizione per l’adulterio, che include la lapidazione e la fustigazione pubblica delle donne. Proprio come voi affermate di lottare per salvare e liberare l’umanità, anch’io lo faccio. Voi rappresentate satana e io rappresento dio. Il partito di Allah prevarrà”. 

Il partito di Allah, ossia i Talebani, prevale sicuramente in Afghanistan, dove fanno quello che vogliono, con timide e inutili proteste dei Paesi democratici solo a casa loro, più interessati agli affari con le autorità de facto del Paese, che ai diritti delle donne.

Il rappresentante dell’Onu per i Diritti umani, Jeremy Laurence, ha denunciato a giugno l’aumento della diffusione delle punizioni fisiche, impartite in pubblico per “crimini morali” e “fuga da casa”. Sugli spettatori c’è uno stretto controllo, niente giornalisti, né testimoni, cellulari sequestrati.

Zina, ossia adulterio, è il crimine. Una mannaia sospesa sulla testa di qualunque donna da molti anni, non solo da quando i Talebani controllano il Paese. Non è affatto necessario tradire realmente il proprio marito, cosa piuttosto difficile, adesso, per donne recluse nelle case e sorvegliate. Una donna che scappa dalla casa di un marito violento per salvarsi la pelle è accusata di zina, così come una ragazza che si rifiuta di sposare un vecchio sconosciuto, una donna che parla con uomini che non siano della famiglia, una ragazza che vuole sposare l’uomo che ama. Il crimine è sempre zina. Condanna, con un marchio infamante, qualsiasi ribellione delle donne, che possono diventare vittime dei sempre più frequenti “delitti d’onore” da parte delle famiglie. La minaccia dei reati morali, ingabbia il comportamento quotidiano delle donne. E, dato che alle donne è proibito quasi tutto, è facile delinquere. 

“Uscire è diventato molto difficile -racconta Salima, assistente sociale a Kabul-, la polizia morale è ovunque, controlla tutto, dal modo in cui sei vestita ai motivi per cui ti trovi in strada. Cercano di spaventarci. Se non sei in regola arriva l’arresto e sappiamo che cosa aspettarci, violenze sessuali e botte. Mesi fa, stavamo andando con la mia famiglia a Pagman, una destinazione ricreativa, un bellissimo parco. All’ingresso i Talebani di guardia ci hanno fermato, appena hanno visto che nella macchina c’erano delle donne. Si sono messi a gridare che alle donne è proibito l’ingresso nei parchi pubblici e lo svago. Hanno minacciato di arrestarci, di frustarci, perché stavamo violando la legge. Questa scena rimarrà per sempre nella mia mente, come l’immagine della totale deprivazione di tutti i nostri diritti. La volontà organizzata di seppellirci vive”.

I suicidi e le patologie mentali sono in forte aumento tra le donne, specialmente tra le più giovani. Le madri spaventate tengono chiuse in casa le loro figlie. “Manizha era tra le nostre allieve più entusiaste -dice Razia, insegnante alle scuole clandestine-. Un giorno non si è presentata e nemmeno quello seguente. Sparita. Abbiamo fatto di tutto, insieme alla madre, per trovarla. Non sappiamo più niente di lei”. I Talebani si sentono liberi di rapire le ragazze, quando meglio credono. Nessuno protesta. Nessuno punisce.

Ma come funziona la giustizia talebana? Un esempio, tanto per avere un’idea. Una donna è portata con urgenza in ospedale dai vicini. Il marito l’ha picchiata e le ha dato fuoco. Le ustioni sono molto gravi. Dopo un mese di agonia la donna muore. La famiglia di lei si appella alla corte talebana perché l’assassino sia punito. Dopo molte insistenze, la corte condanna l’uomo a dare, in risarcimento alla famiglia, un piccolo pezzo di terra. Questo è tutto. Un orto al posto di una figlia. 

I Talebani hanno smantellato il quadro giuridico e istituzionale. La giustizia, come noi la intendiamo, non esiste più. C’è una Corte suprema talebana e ci sono diverse corti specifiche e locali. Ma il personale precedente è totalmente sostituito.

Al posto di giudici, avvocati e procuratori ci sono studenti o diplomati alle madrase pakistane, con nessuna esperienza in campo legale, né in altri campi. Nessuna idea di che cosa sia un processo, nessuna indagine. Il risultato è un vuoto e un caos diffuso nel quale le violazioni dei diritti e gli abusi aumentano senza controllo. Il metodo più comune per chiudere un caso rimane la tortura e la confessione estorta, come denuncia Rawadari, organizzazione afghana per i diritti umani, basata in Inghilterra, con operatori all’interno dell’Afghanistan, nel suo report sulla giustizia. Le leggi del Parlamento quasi completamente abolite, specialmente quelle che riguardavano le donne. 

Per loro nessuna protezione, nessuna speranza di avere giustizia. I delitti contro le donne non sono più reato. Così non c’è più argine alle violenze domestiche e all’escalation di suicidi e dei matrimoni forzati di bambine. Se una donna ha il coraggio di presentarsi alla polizia per lamentarsi delle violenze del marito rischia di subire ulteriori violenze, verbali e fisiche. Nelle corti talebane i casi che riguardano le donne non sono presi in considerazione.

Non esistono, nell’ultimo anno, procedimenti che riguardino accuse mosse da donne. I casi penali più gravi, vengono giudicati nelle corti religiose, nelle jirga, presiedute da mullah e anziani dei villaggi, trattate al di fuori di qualsiasi struttura giuridica.

La vita della popolazione è regolata dai continui decreti emanati con effetto di legge. Ce ne sono stati più di duecento di cui cento riguardano proprio le donne. “C’è solo la sharia -racconta Soheila, militante di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne afghane-. Non abbiamo leggi e non abbiamo un Parlamento che possa discutere delle leggi, o altre istituzioni. L’Afghanistan è un Paese che non ha Costituzione, non ha sistema legale, ha solo la shariaNon ti serve altro, secondo i Talebani. Ogni tipo di problema, in qualsiasi campo, istruzione, famiglia, giustizia, può essere risolto in base alle leggi della sharia. Chiunque conosce, o pensa di conoscere, il Corano e la sharia può essere un giudice, specialmente se è armato e ha potere. Tutto è completamente arbitrario”. 

Nel corso del 2023 la vita delle donne si è ulteriormente deteriorata. Al peggio non c’è limite. Ce lo racconta l’ultimo report di RawadariI nuovi divieti per le donne sono aumentati di numero, peggiorati dalla frequenza di arresti e punizioni pubbliche. C’è chi è stata arrestata e detenuta per aver preso un taxi senza il guardiano maschio, il mahram. Uccisioni extragiudiziali, torture, uccisioni di detenuti, sparizioni forzate, aumento delle punizioni crudeli e degradanti, sono queste le testimonianze raccolte. L’intimidazione e la paura paralizzano le persone, soprattutto le donne, che, sempre di meno, si ribellano. La prigione sempre più stretta.

Anche l’ospedale diventa un miraggio. L’accesso alle cure mediche è limitato da 14 misure specifiche. In ospedale, da sola, non ci vai. Nessuno ti fa entrare e vieni maltrattata. È obbligatorio avere accanto un mahram. Ma gli uomini della famiglia spesso non sono interessati a far curare le loro donne. L’ulteriore ostacolo è la mancanza di personale femminile. Un dottore maschio non può nemmeno vederti.

Negli ospedali il mahram non è richiesto solo alle pazienti. “Il 24 ottobre 2023 -secondo il report di Rawadar- ufficiali del dipartimento per la salute pubblica di Bamyan hanno proibito alle donne impiegate all’ospedale, infermiere, farmaciste, dottoresse, di continuare il loro servizio senza un mahram che le sorvegliasse per tutto il tempo di lavoro. A Nimruz invece, cento donne professioniste della salute sono state espulse e sostituite da altrettanti parenti maschi dei Talebani”.

Di chi è stato rapito, arrestato, punito, poco si riesce a sapere, i media sono controllati. Intimidazioni e minacce verso testimoni, vittime degli abusi e giornalisti sono quotidiane. In alcune province, come nel Panshir, sono stati vietati i cellulari, perché non si possano diffondere video e testimonianze.  

Una prigioniera, riporta il Guardian il 3 luglio, è vittima di uno stupro di gruppo da parte dei Talebani, suoi carcerieri. Gli uomini girano un video sulla violenza e lo mandano alla ragazza, minacciando di renderlo pubblico se lei non terrà la bocca chiusa su quanto successo. Ma la ragazza li sfida e manda il video alla stampa locale e internazionale. Non sappiamo se sia sopravvissuta al suo coraggio. 

È dai social che arriva quel poco che si riesce a sapere. Non solo dalle vittime ma anche dai Talebani stessi, molto attivi sulle piattaforme. Su Twitter (ora X) si possono trovare sentenze, condanne e punizioni decise dalle corti talebane. Riguardano soprattutto le donne e le persone Lgbtq+. Sostengono la propaganda della paura.

Di tutto questo non si è parlato alla recente conferenza di Doha tra fine giugno e inizio luglio. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) pubblica ottimi report sulla situazione delle donne, si parla di persecuzione di genere e crimini contro l’umanità, con conseguenti raccomandazioni ad agire. Che cadono nel vuoto delle lussuose sale di Doha dove i ricatti dei Talebani, che vincolavano la loro partecipazione al silenzio sui diritti delle donne, sono stati accettati dall’Onu senza battere ciglio. 

Così donne, ragazze e bambine continuano a percorrere, giorno dopo giorno, il loro labirinto di divieti, con l’ansia nella gola, la paura annidata stabilmente nei pensieri. Che cosa resta alle donne? Poco, oltre alla tenacia e al coraggio di chi si ostina a non lasciarsi schiacciare, a non far incenerire i propri sogni. Ragazze che continuano, ad esempio, nonostante l’alto rischio, a studiare nelle scuole segrete, proteggendo il prezioso sapere delle donne come un tesoro.  

Dice Samia, allieva di una scuola clandestina di Rawa: “Non ho nulla per realizzare i miei scopi, tranne una penna”. 

Pubblicato su Altreconomia

L’immagine è di repertorio e si riferisce a una lapidazione eseguita in Afghanistan per mano dei talebani nel 2015

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

L’Unità Sanitaria Mobile Hamoon in una baraccopoli vicino a Kabul

L’Unità Sanitaria Mobile Hamoon fornisce servizi sanitari essenziali a donne e bambini.

Pubblichiamo l’ultimo report, giunto ieri, dell’organizzazione afghana che gestisce l’Unità relativo all’intervento effettuato presso una baraccopoli auto costruita da rifugiati interni non lontano da Kabul, emarginati e abbandonati dalle autorità di fatto.

Il racconto testimonia, ancora una volta,  le condizioni disumane in cui versa la popolazione dell’Afghanistan.

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Queste famiglie hanno dovuto sopportare anni di guerra ed avversità, hanno perso le proprie case e hanno cercato rifugio a Kabul, dove hanno trovato solo ulteriore miseria e deprivazione. Vivono in abitazioni precarie e buie, prive di servizi igienici.

Quando abbiamo raggiunto questo accampamento, è stato per noi incredibile trovare tali condizioni di vita vicino alla capitale, dove per 20 anni gli Stati Uniti hanno parlato di democrazia, diritti delle donne e ricostruzione. Perché qui donne e ragazze sono ancora scarti umani, smarrite tra cumuli di rifiuti, i loro occhi colmi di dolore e sofferenza.

Nel vedere arrivare il nostro team sanitario, la gente ci correva incontro con gioia. Un uomo anziano ci ha chiesto, incredulo: “Vi siete persi?”

I nostri medici, toccati nel profondo, hanno soccorso e curato gli abitanti disperati di questo accampamento. Abbiamo constatato che ogni donna, ragazza, bambino è affetto da gravi infezioni, in gran parte generate dall’esposizione all’ambiente: una discarica, nella quale i rifugiati sono costretti a cercare il proprio cibo e materiali da riciclare quale unica opportunità di sopravvivenza.

Oltre ad essere ammalati, molti pazienti soffrono di malnutrizione e sono molto deboli, con disturbi infiammatori e deficienze vitaminiche dovute alla mancanza di accesso a un cibo adatto ad esseri umani e all’acqua potabile.

Habiba, una donna di mezza età, è venuta da noi per chiedere un trattamento per lei e per sua figlia, sofferenti di infezioni alla gola e diarrea causate dal degrado ambientale: “La pena e la sofferenza delle donne sembrano non finire mai. Dopo di noi, saranno ancora le nostre figlie a dover soffrire per la povertà e morire di fame”, si è lamentata. ”Ho perso mio marito anni fa e ho due figlie, di 12 e di 18 anni, e un figlio di 15 anni. Mio figlio raccoglie rifiuti nelle vicinanze durante il giorno e li porta a casa, dove le mie figlie ed io trascorriamo l’intera giornata con le mani nella spazzatura, sperando di recuperare avanzi di cibo da mangiare e plastica da vendere. Tutti i giorni, ci ammaliamo. Nessuno si può mai abituare a mangiare scarti di cibo recuperati dalla spazzatura; noi siamo semplicemente obbligati a farlo.”

Una operatrice del nostro team ha abbracciato Habiba e le ha dato le vitamine e le medicine necessarie, ma questo può solo alleviare una minima parte della sua sofferenza, della sua pena.

Ogni paziente aveva storie da raccontare, di anni di guerra, dolore e miseria. Nessuno dei bambini sta frequentando una scuola, anzi in quanto bambini lavoratori sono loro gli unici che portano il cibo a casa per la famiglia. I bambini visitati hanno potuto solo esprimere il proprio dolore per la mancanza di opportunità di studio ed educazione.

Il team sanitario ha trascorso l’intera giornata con loro, non solo curando e distribuendo medicine ed altri generi di prima necessità, ma anche ascoltando il loro dolore, il racconto di ciò che gli tocca vivere.

Alla fine la gente ci ha salutati con calore, pregandoci di tornare dato che nessun altro si prende cura di loro, sono stati completamente dimenticati.

Doha 3: la “prima volta” dei talebani

Fare finta che sia una cosa normale: è così che si accetta e si fa accettare quello che prima sembrava abominevole. Basta non parlarne, non nominarlo, parlare d’altro.

Parlare di banche, droga, aiuti… cose “normali”, quotidiane, di vita e così far dimenticare l’orrore che subiscono quotidianamente le donne in Afghanistan, sottoposte al regime fanatico dei talebani e della loro ideologia, così estrema e aberrante che persino altri regimi estremisti ne suggeriscono un limite. L’Afghanistan è scomparso nei telegiornali e dalla politica internazionale; nessuno ne parla più, come invece è accaduto dopo la presa di potere dei talebani, quando i paesi “donatori” piangevano la tragica situazione del popolo affamato e delle donne schiavizzate e regalavano soldi e parole scandalizzate, come avevano fatto nei venti anni di occupazione in cui avevano sostenuto governi così incapaci e corrotti da non avere credibilità nemmeno per loro.

La distratta condanna morale e le finte sanzioni economiche comminate al governo talebano – ogni mese l’Onu invia in Afghanistan 40 milioni di dollari – non sono state in grado di ammorbidire le leggi crudeli contro le donne e l’Onu oggi dichiara di nutrire preoccupazioni per i crimini nei confronti delle donne e della loro resistenza per poi tirare dritto sulla necessità impellente di aiutare la popolazione e contrastare il traffico di droga. Si sta cercando di ottenere la disponibilità dei talebani a dialogare con la cosiddetta comunità internazionale e far sì che gli interessi dell’Occidente in Afghanistan continuino a essere tutelati.

I talebani chiedono e l’Onu acconsente

In questo contesto, nei giorni scorsi ha avuto luogo la III Conferenza di Doha, un incontro internazionale che ha segnato una svolta nelle politiche occidentali verso quel paese: organizzata dall’Onu per normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche con le economie occidentali, che in realtà non si erano mai interrotte per alcuni paesi come Cina, India, Asia centrale, Russia, Iran.

La novità è stata la partecipazione diretta dei talebani, che nelle due precedenti Conferenze di Doha non avevano accettato di partecipare, grazie all’accoglimento delle loro condizioni, finora sempre escluse, che hanno imposto di invitare solo loro come rappresentanti del popolo afghano e di non affrontare il problema dell’oppressione e dell’esclusione sistematica delle donne dall’istruzione e dalla società.

Condizioni umilianti, non solo per le donne afghane ma anche per tutta la comunità democratica internazionale, ma accettate dall’Onu e da tutti gli stati partecipanti (seppure con il dissenso del Canada). Accettazione molto criticata da varie associazioni afghane di donne, da organizzazioni per i diritti umani come Amnesty e addirittura da Richard Bennett, “relatore speciale Onu sui diritti umani in Afghanistan, (che non ha partecipato all’incontro) e che sono costate all’Onu una grossa perdita di credibilità circa il suo ruolo di difensore dei diritti umani. Persino il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione contro le donne (CEDAW) ha espresso profonda preoccupazione per l’esclusione di donne e ragazze dall’incontro di Doha.

La “prima volta” dei talebani… un passo verso il riconoscimento

Apparentemente questa conferenza non ha sortito risultati importanti. Non ci sono stati commenti ufficiali entusiasti alla conclusione dell’incontro, niente toni trionfalistici. Rosemary DiCarlo, sottosegretaria generale dell’Onu per gli affari politici e di pace, che ha presieduto il meeting a nome dell’Onu, ha fatto la sua conferenza stampa in tono minore, quasi in sordina.

Ha messo in evidenza che non c’è stato alcun riconoscimento ufficiale del governo de facto, che non sono state tolte le sanzioni, e che quindi i talebani non hanno ottenuto quanto avevano chiesto. Inoltre ha dichiarato di aver sostenuto in tutti i modi i diritti delle donne, sia direttamente nei colloqui con i talebani, sia attraverso gli incontri, avvenuti a meeting concluso, con le donne che hanno accettato di parlare con lei (alcune si sono rifiutate per protesta), ma senza alcun risultato.

Si potrebbe dire che l’incontro sia finito con un nulla di fatto, dato che né i talebani hanno ottenuto il riconoscimento internazionale del loro governo e la revoca delle sanzioni internazionali, né l’Onu ha ottenuto il mitigamento dei decreti contro i diritti delle donne.

Ma invece un risultato importante c’è stato: è proprio ciò che DiCarlo ha chiamato, soddisfatta e orgogliosa, “la prima volta” dei talebani, il loro primo contatto ufficiale con l’Onu, promettendo che sarà solo l’inizio…

Il vero successo è invece tutto dei talebani ed è costituito proprio dall’essere stati ammessi a un incontro con l’Onu per la prima volta e alle loro condizioni, che l’Onu ha accettato pur di averli a Doha, soprassedendo all’apartheid subito dalle donne e tanto stigmatizzato dall’Onu stesso. Questa “prima volta”, tanto contrastata dalle donne e dagli attivisti per i diritti umani, rappresentava un successo già prima che la conferenza avesse luogo, per il fatto stesso di essere auspicata e cercata dall’Onu.

Mentre l’Onu svende i loro diritti, le donne in Afghanistan sono ancor più represse

Bennett aveva ben espresso il sentire di tutti gli oppositori al governo de facto dell’Afghanistan e delle organizzazioni di donne, dichiarando che la rinuncia ai loro diritti era un prezzo troppo alto da pagare per avere in cambio la normalizzazione dei rapporti con i talebani e l’ingresso nella cosiddetta comunità internazionale.

Un altro importante riflesso di questa visibilità internazionale che i talebani hanno ottenuto nel sedersi al tavolo dell’Onu alle loro condizioni è tutto interno. Le donne che resistono e continuano a protestare a rischio della vita ora saranno ancor più duramente represse grazie a una legittimazione di fatto che la comunità interazione ha regalato a chi devasta diritti delle donne e del proprio popolo.

Ma come giustifica l’Onu questa svendita dei diritti delle donne?

DiCarlo ha spiegato che purtroppo i talebani non si vogliono sedere al tavolo delle trattative se ci sono le donne, quindi, l’Onu è stato costretto a lasciarle fuori dalla porta.

Questa frase, che fa passare questa scelta come un atto di realismo, in realtà dà per scontata la sconfitta della comunità internazionale nella difesa delle donne afghane, dimostra che ci si è già arresi al volere dei talebani, che non si vedono alternative.

Il vero messaggio che emerge da Doha3 sta nel dare per scontato che i talebani abbiano il controllo del paese, e nel riconoscere, di fatto, il loro governo, anche se lo si nega ufficialmente.

L’Onu si giustifica con la necessità di favorire lo sviluppo economico dell’Afghanistan al fine di aiutare il popolo affamato, come se bastasse dialogare con i talebani per convincerli ad avviare un “normale” processo di governo basato sui bisogni del popolo e non su quelli della sharia.

Ma non si vuole tener conto dei fatti: tutti gli aiuti finora inviati all’Afghanistan sono stati intercettati e taglieggiati dai talebani a beneficio dell’apparato statale e dei loro fedeli funzionari mentre poco o niente è arrivato nelle mani delle persone a cui erano destinati, a dimostrazione di quanto poco importi al governo talebano il benessere del suo popolo. Si è visto, per esempio, come si sono comportati in occasione dei terremoti e delle alluvioni che hanno distrutto interi territori e tolto tutto alla popolazione già stremata: come numerose fonti hanno riferito, il soccorso è stato nullo o tardivo perché la logica talebana è quella di considerare le catastrofi come fenomeni naturali mandati da dio e quindi da accettare come una fatalità.

Può quindi davvero bastare l’apertura di un dialogo con i talebani per condizionarli a cambiare la loro visione fondamentalista e teocratica e adottare una governance laica?

I soldi congelati da USA e paesi europei sono degli afghani NON dei talebani

I soldi della Banca centrale afghana congelati da USA e paesi europei (circa 9 miliardi di dollari), che l’Onu e diverse organizzazioni (anche italiane) chiedono di scongelare potrebbero certamente servire a dare ossigeno a una popolazione stremata da guerre e miseria, ma consegnare questi fondi ai talebani significherebbe darli a despoti che hanno a cuore solo il mantenimento del proprio apparato e dei propri sostenitori e che taglieggiano la popolazione con balzelli, tasse, ricatti (come ha ben dimostrato il report (Corruption And Kleptocracy In Afghanistan Under The Taliban)

Bisogna trovare forme più dirette di sostegno alla popolazione, e bisogna colpire il governo talebano per la sua responsabilità nell’imporre un sistema di oppressione di tutto il popolo e di apartheid di genere alle donne.