LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE TRA STORIE, DIRITTI E CULTURE
4 Ottobre 2024
Talebano. Una parola ormai entrata nel nostro vocabolario quotidiano per indicare un’intransigenza cieca e feroce. Eppure, è una parola della quale, fino alla seconda metà degli anni ‘90, la maggioranza degli italiani ignorava l’esistenza e che, in ogni caso, non aveva nulla di sinistro significando “studente”.
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ToggleIl 27 settembre 1996 il termine “talebano” è esploso nei media occidentali nel significato minaccioso e truce che oggi utilizziamo: quel giorno, l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah, viene prelevato dall’edificio dell’ONU di Kabul (nel quale era rifugiato dal 1992), mutilato, torturato, trascinato con una jeep attorno al palazzo presidenziale, infine ucciso e il suo cadavere esposto per giorni. A compiere l’efferata messa in atto della condanna a morte dell’ex presidente è un “nuovo” gruppo, i talebani appunto, comparso un paio di anni prima in un paese devastato dalla guerra civile, dai crimini compiuti dai “signori della guerra” e da 10 anni di occupazione sovietica.
Descritti come “studenti formatisi nelle scuole coraniche pakistane”, i talebani sono entrati nella scena politica afghana nel 1994 e non ne sono più usciti. Ma chi sono i talebani? Da dove vengono? Come sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan nel 1996 e a riconquistarlo nel 2021, dopo 20 anni di occupazione NATO?
Delle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita, quella hanafita, costituita verso la fine dell’VIII secolo in Iraq e considerata la più “liberale” tra le scuole ortodosse dell’Islam, è oggi l’elaborazione dottrinale più diffusa nell’Asia centrale, in Egitto, Turchia, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. All’interno di questa scuola, nella seconda metà del 1800 a Deoband in India, nasce la corrente detta appunto deobandi principalmente come reazione alla colonizzazione inglese dell’India che, ritenevano i suoi promotori, rischiava di corrompere l’Islam. Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che più che una dottrina religioso-giuridica, quella deobandi è un’ideologia che si caratterizza, fin da subito, per il suo carattere anti-imperialista e si diffonde rapidamente in tutto il subcontinente indiano e in Afghanistan.
Dal punto di vista dottrinale si rifà a un’interpretazione molto rigida dell’Islam. L’ideologia deobandi è influenzata anche dal wahabismo (che appartiene, seppur in modo contestato, a un’altra scuola giuridica, la hanbalita). Facciamo questa precisazione non per puro gusto accademico, ma perché dal wahabismo deriva, a sua volta, la scuola di pensiero salafita profondamente legata alla casa regnante dell’Arabia Saudita (e fondamento del movimento della Fratellanza musulmana) e il cui personaggio più famoso, a partire dagli anni ‘90, è un certo Osama bin-Laden.
Nonostante i sunniti pakistani che seguono l’ideologia deobandi siano circa il 20%, essi gestiscono circa il 65% delle madrase (scuole religiose): è in queste scuole che si sono formati i talebani e dove emerge rapidamente una figura ammantata di mistero, il mullah Omar.
Il contesto è quello che possiamo leggere nel capitolo finale di questo dossier: dopo l’evacuazione delle truppe sovietiche, in Afghanistan si è scatenato un nuovo inferno e gli “eroici” mujahiddin si sono trasformati nei nuovi aguzzini della popolazione, responsabili di crimini e soprusi quotidiani. Nelle scuole coraniche pakistane, i figli (spesso orfani) di afghani rifugiatisi in Pakistan dai tempi dell’invasione sono “profondamente delusi per lo sbriciolamento della leadership dei mujaheddin, un tempo idealizzata, e per le attività criminali dei loro esponenti”, scrive Ahmed Rashid nel suo libro Talebani. E il giornalista prosegue: “I talebani più giovani conoscono a malapena il proprio paese e la sua storia, ma nelle loro madrase vagheggiano la società islamica ideale creata dal profeta Maometto millequattrocento anni prima, la società che vogliono emulare… La loro semplice fede in un Islam messianico, puritano, l’Islam che è stato impresso nelle loro menti da semplici mullah di paese, è l’unico puntello cui aggrapparsi e che conferisce un po’ di senso alle loro vite”.
Ma non solo: “Si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato… sono orfani cresciuti senza donne – madri, sorelle, cugine. … Vivono una vita aspra, durissima… Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah che ricorrono a primitive ingiunzioni islamiche prive di fondamento nella legge coranica”, scrive sempre Rashid.
Tutto il paese è risucchiato dalla guerra civile, ma l’Afghanistan meridionale e la provincia di Kandahar sono il centro dell’inferno con bande di ex mujaheddin che razziano la popolazione, commettendo ogni sorta di sopruso. È il 1994 e i talebani stanno per entrare in scena con un episodio ormai diventato leggenda: Omar è il mullah di una piccola madrasa a Singesar, vicino a Kandahar, e viene informato che un comandante locale ha fatto rapire due ragazzine poi violentate. Omar raduna una trentina di studenti di teologia e attacca la base, uccidendo il comandante e liberando le ragazzine. Fatti simili si ripetono e le fila dei talebani, che si presentano come “un movimento che si prefigge lo scopo di purificare la società” (Rashid), si ingrossano.
Ma i talebani giocano un’altra carta che si rivelerà vincente: proteggono la mafia pakistana dei trasporti e del contrabbando che garantisce denaro e appoggi per poter liberamente transitare nei territori controllati dagli stessi talebani.
Militari, governo e servizi segreti pakistani avevano fino a quel momento sostenuto Gulbuddin Hekmatyar ritenendolo il più probabile vincitore della guerra civile in un paese indispensabile per aprire le vie commerciali, e del petrolio, con le repubbliche centro-asiatiche. Rendendosi invece conto di star favorendo un perdente, i pakistani iniziano a sostenere il movimento dei talebani al quale, nel frattempo, si sono uniti anche diversi gruppi salafiti, appoggiati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita.
Inizialmente sostenuti da una parte della popolazione alla quale, dopo anni di guerre e angherie, promettono la pace, patrocinati da Pakistan e Arabia Saudita i talebani nel giro di due anni controllano il 90% del paese fino a conquistare Kabul e proclamare l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.
Se l’uccisione di Najibullah è l’atto che li fa conoscere al mondo, è la messa in atto della più oscurantista interpretazione dell’Islam che mostrerà al popolo afghano il vero volto dei talebani: le scuole femminili vengono chiuse, le donne non possono uscire di casa da sole e quando lo fanno devono essere integralmente coperte, vengono distrutti gli apparecchi televisivi e messi al bando sport e attività creative, vietata la musica e gli aquiloni, imposta la barba agli uomini e la frequentazione delle moschee, ogni violazione della sharia viene punita severamente fino ad arrivare a pubbliche esecuzioni e lapidazioni.
L’Emirato viene riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, ma l’appoggio dell’Arabia Saudita e le repressioni della minoranza hazara, sciita, fanno dell’Iran un nemico dell’Emirato, solleticando così l’interesse degli USA (vedi l’articolo dedicato alla storia dell’Afghanistan): l’amministrazione Clinton vede favorevolmente l’affermarsi del movimento talebano non solo in visione anti-Iran, ma anche perché auspica di trovare un appoggio per la realizzazione dell’oleodotto sponsorizzato dalla multinazionale texana Unocal.
Intanto, mentre la popolazione afghana, annichilita dal regime di terrore instaurato dai talebani, cerca di sopravvivere in un paese distrutto, gli “studenti” consolidano il proprio potere anche grazie ai proventi della coltivazione del papavero da oppio.
Il vero salto di qualità, però, i talebani lo compiono nel 1996, quando Osama bin Laden si trasferisce definitivamente in Afghanistan insediando la base più importante di al-Qaeda, dove vengono addestrati 2500 guerriglieri. L’instaurazione dell’Emirato con l’implacabile applicazione della sharia e la presenza nel paese di uno dei 10 uomini più ricercati dagli Stati Uniti trasformano l’Afghanistan in un formidabile aggregatore di jihadisti: “L’Afghanistan era un’incubatrice, dove i semi [del movimento jihadista] sarebbero cresciuti”, sono le parole del numero due di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri riportate da Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan.
Ed è proprio in quanto sede del centro operativo di Bin Laden che il regime dei talebani verrà ritenuto corresponsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 e l’Afghanistan attaccato nell’ottobre dello stesso anno. Grande rilievo viene dato in Occidente alle operazioni USA prima e alle missioni NATO poi, ma la caduta dell’Emirato non corrisponde alla scomparsa dei talebani, che si rifugiano prima nei villaggi del sud dell’Afghanistan, loro storica roccaforte, e poi in Pakistan, nel Beluchistan e nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), un’area nella quale le tribù pashtun godono di una certa indipendenza rispetto al governo centrale di Islamabad.
Nonostante le perdite, quasi l’intera struttura di comando dei talebani è rimasta intatta e in Pakistan, grazie al supporto dei servizi segreti pakistani, si riorganizzano rapidamente. I pashtun delle FATA aprono il loro territorio a integralisti di tutto il mondo (ceceni, centroasiatici, africani, indonesiani, uiguri) che vanno a ingrossare le file di al-Qaeda, le cui sorti si intrecciano sempre più con quelle dei talebani. Questi stanno anche imparando dall’organizzazione di Bin Laden e dai servizi segreti pakistani le tecniche di guerriglia e a utilizzare sofisticati mezzi di comunicazione. Nel 2004 i talebani possono già contare su solide basi in territorio afghano e compiono continue azioni contro le forze di polizia afghane e le truppe NATO.
Il governo centrale afghano controlla di fatto solo la capitale, tanto che Hamid Karzai più che presidente viene chiamato “sindaco di Kabul”, mentre il resto del paese è nuovamente in balia dei signori della guerra e degli attacchi suicidi dei talebani che, a partire dal 2006, hanno intensificato l’utilizzo di questa tattica per colpire gli avversari.
Rimandiamo alla Cronologia per il dettaglio degli eventi, quello che qui dobbiamo sottolineare è che in questi anni Karzai mantiene contatti con i talebani per cercare di coinvolgerli in “trattative di pace”. È qui che nasce il “mito” dei talebani “moderati”, con i quali, si dice, è possibile instaurare un dialogo. No, in questo caso il termine ha un significato ben diverso: i talebani non hanno modificato di una virgola la loro ideologia e nei territori che controllano l’oscurantismo integralista viene applicato con lo stesso zelo di quando governavano l’intero paese. Semplicemente, i talebani “moderati” sono quelle frange disposte a trattare con Karzai per spartirsi il controllo del paese e con l’Occidente perché la NATO esca dall’Afghanistan.
Negli anni successivi i talebani continuano la loro guerra di logoramento e, nel contempo, terrorizzano la popolazione. Nel frattempo, gli USA sono impegnati nella guerra con l’Iraq e di lì a poco il mondo sarà sconvolto dalle guerre in Libia e in Siria che fanno emergere un nuovo attore nel panorama dell’integralismo islamico, l’ISIS. Un attore che farà il suo ingresso anche nella scena afghana.
Mentre gli occhi del mondo sono catalizzati dagli orrori dell’ISIS in Siria, in Afghanistan i talebani controllano i tre quarti del paese. E quando nel febbraio 2020 si siedono al tavolo con i negoziatori USA in Qatar, quella che firmano non è un’intesa di pace, come viene pomposamente chiamata dall’amministrazione Trump, ma una via d’uscita per gli USA per l’evacuazione delle loro truppe dal paese entro l’agosto 2021 (termine precedentemente dato dall’amministrazione Obama).
A questo punto torniamo alla domanda iniziale: sono diversi i talebani tornati al governo di Kabul nel 2021 rispetto a quelli che avevano preso il potere nel 1994? Sicuramente sono più preparati alla gestione del potere e nell’utilizzo dei mezzi informatici, cosa che ha permesso loro, per esempio, di accedere facilmente ai database con le informazioni relative ai cittadini afghani (vedi pagina 7). Poi sono meglio equipaggiati militarmente: oltre ai finanziamenti diretti ricevuti da Pakistan e Arabia Saudita, i talebani sono entrati in possesso dell’arsenale americano lasciato sul territorio dopo la fuga da Kabul nell’agosto 2021. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato che i miliziani hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: [5] dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29; anche se è probabile che abbiano difficoltà a utilizzare le armi più avanzate, rimane comunque una dotazione importante di armi “leggere” in loro possesso.
Ideologicamente invece sono sempre gli stessi e lo hanno dimostrato subito, ma sono meno coesi. Nella lotta per il potere emergono due fazioni principali, quella legata al mullah Abdul Ghani Baradar e quella che fa capo a Sirajuddin Haqqani. Il primo era il vice del mullah Omar, arrestato a Karachi nel 2010 e successivamente liberato su richiesta degli USA perché partecipasse ai colloqui di Doha fino alla firma dell’accordo del 2020. Il secondo è a capo della Rete Haqqani, un gruppo alleato dei talebani ma autonomo e molto vicino ad al-Qaeda; Sirajuddin è il figlio di Jalaluddin che fondò il proprio movimento durante l’occupazione sovietica grazie a un grosso trasferimento di armi e denaro da parte della CIA [6].
Infine, c’è l’incognita ISIS. Nel 2014 l’ISIS aveva avviato contatti con il gruppo Tehrik i Taliban Pakistan (TTP), i cosiddetti talebani pakistani aderenti alla corrente salafita e quindi molto vicini ad al-Qaeda. Questa relazione aveva dato vita all’ISIS-K (Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che si era radicata nelle aree orientali dell’Afghanistan, attaccando tanto il governo afghano quanto i talebani. Oggi l’ISIS-K, responsabile di continui attentati ed azioni di guerriglia, in particolare nella zona di Narganhar, sta reclutando tra le proprie fila ex combattenti che non si sentono adeguatamente remunerati dal nuovo governo per il loro passato impegno ed ex membri delle forze di sicurezza afghane desiderosi di sfuggire ai talebani. La polveriera Afghanistan è pronta a esplodere nuovamente.
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