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Nazbo, Kapisa

Nazbo nasce in un villaggio rurale, Najrab, nella provincia di Kapisa. Ha 15 anni quando la sua famiglia la vende in matrimonio, contro la sua volontà, a un mullah di 45, con due mogli e svariati figli. È la più giovane e le toccano sempre i lavori più pesanti. Le botte arrivano, tutti i giorni, per qualsiasi sciocchezza. Non solo il marito ma anche le due mogli più vecchie fanno a gara per picchiarla e insultarla.
Passa 20 anni così, fronteggiando e sopportando violenze di ogni tipo. Ha 5 figli, dei quali il padre non si occupa mai.
4 di loro muoiono in tenera età per la malnutrizione e la mancanza di cure. Racconta Nazbo: ”I miei bambini erano piccoli e io non avevo tempo per prendermi cura adeguatamente di loro, dovevo sempre lavorare sotto la minaccia delle botte. Dovevo lavare, cucinare, pulire, fare il bucato per tutti e nessuno si prendeva cura dei miei piccoli”.

Per loro, non c’era mai abbastanza cibo.” Una sola figlia sopravvive alla famiglia, ma, a 13 anni, il padre la sposa a un uomo di 40 anni. Lo stesso destino di sua madre, la storia infinita. Rimane subito incinta, ma è troppo giovane per avere una gravidanza normale.
L’assistenza medica non esiste. Muore durante il parto, insieme al suo bambino. La vita di Nazbo precipita. Il marito e le mogli la insultano, la picchiano, la umiliano, le dicono che porta male, che è lei la responsabile delle sue sventure. In quel periodo ha seri problemi mentali, i cui effetti continuano ancora oggi. Dopo qualche anno, il marito si ammala e muore. Le mogli più anziane la sbattono fuori di casa.

Trova rifugio da alcuni parenti che la accolgono e la portano in ospedale. Le cure le fanno bene e, quando sta un po’ meglio, decide di adottare un bambino.
Restano a vivere con queste persone per parecchio tempo. Per fortuna, la sua strada, un giorno, incrocia quella di Hawca e comincia a lavorare per loro, nel Centro di Peace Building, come cuoca. Trova una stanza vicino al Centro e comincia una nuova vita con suo figlio. Purtroppo, al Centro, tutto lo staff è minacciato dai talebani.

La situazione si fa sempre più pericolosa e Hawca è costretta a cambiare zona e a trasferire il Centro in un’altra parte della città, lontano dall’abitazione di Nazbo. Spostarsi, per grandi distanze, nella città è difficile e rischioso, Nazbo deve lasciare il lavoro.
Gli anni passati a lavorare con Hawca, dove ha trovato l’affetto che non aveva mai conosciuto, sono stati i migliori della sua vita ma, adesso, è di nuovo senza lavoro. Ogni giorno è una scommessa. Di nuovo, la sua vita è difficile e le tracce del suo passato riemergono rendendola fragile.

Aggiornamenti

Entra nel progetto un anno fa. Ora non è più sola, ha accanto a sé il sostegno di Maurizio. Potrà curarsi e cercare, senza ansia, insieme ad Hawca, il lavoro di cui ha bisogno. Nazbo è stata incredibilmente felice quando ha saputo di avere uno sponsor e del denaro per vivere, lo ringrazia con tutto il cuore.

Non sapeva dove andare a vivere e Hawca le ha trovato una stanza nella casa di un insegnante della scuola di Peace Building che hanno dovuto chiudere a causa delle minacce talebane. Potrà stare lì fino a quando non avrà trovato un lavoro per pagarsi una stanza autonoma.
Sta cercando un lavoro come domestica, magari anche tra i vicini di casa. Ma il quartiere dove vive è abitato da gente molto povera che non può permettersi una domestica.
Per questo è difficile, per lei, trovare lavoro.

Dice Nazbo al suo sponsor:’ Sono molto felice, non avrei mai pensato che ci potessero essere persone, in giro per il mondo, così amorevoli come te, che si occupano degli altri e si aiutano l’un l’altro. Il tuo aiuto sta cambiando la mia vita. Grazie a te sono viva, potrò vivere e stare ancora per molto tempo con il mio bambino.’

Aggiornamento gennaio 2023

Nazboo è una donna in grave difficoltà. Ringrazia tanto il suo sponsor e spera nel suo aiuto per la sua sopravvivenza. “Al telefono la sua voce , dice Shafiqa, era fievole e oppressa. Non ha mezzi di sussistenza e il denaro del progetto serve per le medicine e le cure che deve fare. Ha problemi per procurarsi la legna e, senza aiuto, non sa come superare l’inverno.” Dice: “I miei vicini conoscono la mia situazione, e, ogni tanto, quando possono, dividono il loro cibo con noi. La loro solidarietà e la vostra è tutto quello che abbiamo.”

È importante continuare a sostenere questa donna, di cui, comunque, Hawca si sta prendendo cura.

Aggiornamento gennaio 2024

Nazbo dice: “Che cosa posso dire della mia vita dolorosamente difficile? Ogni giorno affronto pressioni strane e insolite, e a volte mi chiedo quando è stata l’ultima volta che ho riso veramente. La vita in Afghanistan era dura, ma lo è diventata ancora di più con l’arrivo dei talebani. Non vediamo alcuna speranza per condizioni migliori. Tutti fuggono e nessuno è soddisfatto di questa situazione. I sogni e le aspirazioni delle ragazze e delle donne sono stati sepolti. Nonostante l’estrema povertà, speravo che mio figlio potesse ricevere un’istruzione in modo da non soffrire come me. Ma ora ho perso la speranza per il suo futuro e temo che subirà lo stesso mio destino e le mie stesse miserie. Uno dei nostri parenti, vedendo le mie condizioni di vita, si è dispiaciuto per me e si è offerto di presentarmi al loro datore di lavoro nella speranza che potessi trovare lavoro. Fortunatamente, ha accettato e ora lavoro in un laboratorio di cucito. Anche se il reddito è molto scarso e i miei occhi sono diventati estremamente deboli, sono ancora contenta. Rimango sveglia fino a tarda notte per lavorare un po’ di più. Sono felice del mio lavoro. Questa volta, con l’aiuto del mio gentile sponsor e del mio magro stipendio, sono stata in grado di provvedere ad alcune cose essenziali per la casa e al cibo per mio figlio. Esprimo la mia più sentita gratitudine al mio gentile e solidale sponsor che è al mio fianco e ci aiuta in questa situazione. Auguro loro tutto il meglio”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Nahida

Nahida ha due sorelle più piccole e un fratello di 8 anni.
Siamo una famiglia povera ma fino a un anno fa ce la facevamo a vivere decentemente. Poi c’è stato quell’attacco suicida, uno dei tanti.
Ma quel giorno c’era anche mio marito. Ha perso i piedi e le mani e non può più lavorare. Sono io a mantenere la famiglia, faccio il bucato per i vicini.
Ma Nahida è la mia preoccupazione più grande.
Ha un‘infezione alle orecchie che ha attaccato anche l’osso. Quando mio marito stava bene, ha cercato di curarla. Il medico ha detto che deve essere operata al più presto altrimenti sarà sorda per sempre e avrà problemi anche con la gola. Ma i soldi adesso non ci sono per curarla. L’unico modo per trovarli è andare a mendicare.
A volte, i problemi che ho sulle spalle mi sembrano troppi e mi manca il coraggio.

Aggiornamenti

Nahida ha sei anni quando entra nel progetto. Albalisa, che è considerata dalla famiglia una seconda mamma, si prende cura di lei fin dall’inizio e le è sempre vicina per tutti questi anni.
La bimba soffre molto d’inverno, gli inverni qui sono durissimi, gelidi e riscaldarsi costa molto. Deve anche mangiare bene per sostenersi.
Pian piano migliora le sue condizioni, si cura e riprende la scuola con molto successo. È brava anche se deve fare parecchie assenze.
Il suo problema non è di facile soluzione e va spesso in Pakistan per le cure. Ora Hawca le ha trovato un apparecchio per sentire meglio e la sua vita è molto migliorata.

Aggiornamento gennaio 2023

Nahida è sempre tanto grata alla sua sponsor per tutto l’aiuto che le hanno dato in questi anni. È sempre una ragazza forte e non smette mai di andare avanti e di imparare nuove competenze e abilità. “Nonostante i miei problemi fisici, adesso, tengo dei corsi di Dari e matematica per i bambini dei miei vicini. Naturalmente la maggior parte dei miei allievi sono ragazze e io sono felice di passare del tempo insieme a loro. Con quello che guadagno dai miei allievi mi pago i corsi di Inglese e Scienze (che organizza Hawca)” È sempre sotto trattamento regolare per i suoi problemi alle orecchie.

Manda tutto il suo amore alla sua sponsor che le sta accanto da tanto tempo e anche adesso, in questi tempi così difficili.

Aggiornamento gennaio 2024

Nahida dice di aver perso la speranza. I talebani hanno chiuso il corso che teneva per i bambini del vicinato a casa sua e hanno minacciato la prigione per chi si azzarderà a farlo. Hanno persino annunciato nella moschea che, a meno che non sia una scuola religiosa, chiunque inizi un corso privato sarà arrestato insieme a tutti gli uomini del villaggio. Di conseguenza, Nahida è stata costretta a chiudere il suo corso, ed è molto a terra. A volte le sue studentesse la contattano, piangendo e dicendo che le loro speranze si basavano su questo corso. Due sue studentesse, di circa quindici e sedici anni, si sono sposate. Quando parlano con Nahida, dicono: “Maestra, i nostri sogni sono stati sepolti per sempre”. Da un lato, Nahida ha perso tutte le sue entrate e, dall’altro, si sente immensamente dispiaciuta e preoccupata per i suoi studenti. Tutte queste preoccupazioni e stress l’hanno resa profondamente depressa e senza speranza. È rattristata dal fatto che il mondo non ascolti le voci delle donne afghane e che siano costrette a rinunciare ai loro diritti umani. Si sente angosciata e triste, ma è grata che ci siano ancora sponsor gentili come l’amica che sostiene lei e altre donne afghane. Con l’aiuto della sua amorevole sponsor, è riuscita a visitare un medico e a pagare parte dell’affitto della sua casa. Esprime profonda gratitudine per il suo aiuto e spera che verrà un giorno in cui potrà stare in piedi da sola e coprire le sue spese.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

Freshta Khatera

Ero ancora una bambina quando mi sono resa conto di essere una pedina nel gioco d’azzardo di mio padre. Quando ero ancora nel ventre di mia madre, mi aveva promessa in sposa al figlio di un uomo che gli aveva vinto al gioco molto denaro.
A dieci anni sono stata fidanzata e a 13 anni ero sposata.
Giocavo con le bambine della mia età, quando mi è stato detto che sarei diventata la sposa di un uomo. La nostra situazione finanziaria non era buona da quando mio padre aveva perso al gioco tutto quello che il nonno gli aveva lasciato in eredità.
Non avevo ancora raggiunto la pubertà quando mi sono sposata, è successo dopo tre anni che vivevo con lui. Io non sapevo niente del sesso e delle relazioni tra marito e moglie. Mio marito non ha avuto nessun rispetto per me e per la mia età.
Adesso ho capito che venivo regolarmente violentata, tutto era terribile per me, piangevo per giorni ma non potevo dirlo a nessuno. Credevo che tutte le ragazze avessero queste difficoltà nel matrimonio. Ogni tanto pensavo alla crudeltà dei miei genitori e alla fine arrivavo sempre alla conclusione che tutti i genitori erano così, come i miei e in questo modo riuscivo a calmarmi.
La mia vita era molto brutta ma crescendo è diventata anche peggiore. Per fortuna non sono diventata madre a quell’età! Pensavo, tra me, che se fossi rimasta incinta, non sarei sopravvissuta al parto o, anche se fossi sopravvissuta, avrei avuto molte difficoltà a prendermi cura del bambino e di tutti gli altri lavori. Ho dovuto sopportare ogni tipo di violenza durante il mio matrimonio. Per queste condizioni di vita disumane, ho perso tre figli.
Mio marito era un maniaco sessuale e se rifiutavo le sue avances mi legava mani e piedi e faceva quello che voleva. Ho passato 12 anni con lui senza che ci fosse il minimo cambiamento nel suo comportamento , anzi, diventava ogni giorno più selvaggio. Adesso ho 5 figli, l’ultimo è nato dopo il divorzio. Sono malata e non ho mai potuto vedere un dottore.
Ho avuto il mio divorzio dopo un lungo e difficile lavoro, sono stata capace di liberare me stessa dalla violenza e dall’umiliazione. I miei bambini sono tutto per me. Adesso il mio desiderio più grande è quello di vedere i miei figli istruiti e crescerli perché siano di mente aperta e rispettosi verso le donne. Mio marito ancora mi minaccia, vuole portarmi via i miei figli. Io so bene che se i miei ragazzi andassero a vivere con lui diventerebbero delle bestie come lui, sarebbero ignoranti e crudeli come il loro padre.
Ho lavorato per tre mesi nell’ufficio di Hawca e mi hanno incoraggiato a studiare. Ho chiesto aiuto a una mia vicina di casa e adesso lei insegna a leggere e scrivere a me e ai miei figli. Purtroppo l’ufficio di Hawca in Mazar-e- Sharif è stato chiuso e io ho perso il lavoro. Cucinavo e facevo le pulizie per loro e sto cercando di trovare un altro lavoro. Per ora non l’ho trovato e ho davvero bisogno urgente di sostegno per poter continuare la mia strada e superare questi ostacoli.

Aggiornamenti

Freshta, che è entrata nel progetto qualche mese fa, ha ora il sostegno di Antonella, Mimmo e Marco. Accanto a loro affronterà le sue grandi sfide con un po’ di pace nel cuore.

Aggiornamento gennaio 2023

Khatera è molto felice di avere accanto i suoi sponsor. Ci dice: “Sono grata dal profondo del cuore ai miei sponsor. Sono persone davvero gentili. Per favore, continuate a tenere stretta la mia mano e quella dei miei bambini in questa orribile situazione.” Freshta era molto brava a ricamare, i bellissimi ricami afghani, ma questo oggi non basta affatto a sopravvivere. Nessuno ha soldi per comprare stoffe e vestiti. Così ha cominciato a cuocere dolci. Ci racconta: “Ho imparato a fare dei dolci molto speciali tra i ‘Mazari sweets’. Quando le persone fanno delle feste, come un compleanno oppure un matrimonio, io vado a casa loro e gli cucino i miei dolci. Ovviamente vado nelle case degli amici e di persone che mi sono presentate da loro, è questa la mia clientela. Ma anche se lavoro una o due volte al mese, è per me una buona opportunità andare nelle case a cucinare dolci e ne sono felice, perché penso che, così, potrò farmi pubblicità e espandere il mio lavoro in futuro. Quello che per me è importante è che le persone apprezzino i miei dolci fatti a mano e che io possa continuare a fare questo lavoro anche nei prossimi anni. Anche se guadagno poco, posso contribuire alle spese per i miei figli. Spero, con l’aiuto dei miei sponsor, di potere un giorno far rendere bene il mio lavoro e creare un futuro pieno di luce per i miei bambini. Abbraccio forte i miei sponsor.”

Aggiornamento gennaio 2024

“Sono diventata infinitamente felice quando ho visto Freshta – ci racconta S. la direttrice di Hawca –  Quando l’ho vista, sono rimasta insieme stupita e felicissima. Ho visto in Freshta una donna molto energica e allegra. Freshta era estremamente soddisfatta del suo lavoro e ha detto che la sua attività dolciaria era fiorente. Ora ha un contratto con una delle famose panetterie di Kabul e il suo datore di lavoro è una persona nobile e infinitamente cortese”.

“Dico sempre a me stessa- racconta Freshta- che sono stata benedetta due volte nella mia vita. Una è stata la presenza del mio caro sponsor, che ha trasformato la mia vita attraverso la sua assistenza e il suo sostegno. Sono sempre grata al mio caro sponsor e gli devo un mondo di gratitudine. E ora, anche il mio datore di lavoro si è mostrato una persona gentile e non smette di incoraggiarmi, permettendomi di stare in piedi da sola e di affrontare le spese della mia vita. Ancora una volta, esprimo la mia gratitudine per gli sforzi del mio amato sponsor e spero che invece di me, un’altra donna afgana riceva sostegno e porti un cambiamento nella sua vita come è successo per me. Io, finalmente, me la cavo da sola”.

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Una storia del progetto Vite preziose.

La fotografia è di solo carattere grafico e non rappresenta la donna protagonista della storia. Data la attuale situazione in Afghanistan, per evitare l’identificazione delle donne i nomi sono stati modificati, così come i luoghi dove si svolgono i fatti.

 

 

 

 

Un rifugio che diventa inferno: così il Pakistan deporta i rifugiati afghani

Se ne devono andare: un milione e 700mila persone, immigrati senza documenti in regola, quasi tutti afghani. L’annuncio è stato fatto il 7 ottobre dal governo pakistano, “per salvaguardare il benessere e la sicurezza del Paese”. In una prima fase potranno allontanarsi in forma “volontaria”, poi saranno deportati. In molti, più di trecentomila, hanno lasciato tutto e sono già partiti per paura di essere arrestati.

La vera caccia agli afghani si è aperta però il primo novembre 2023 e le carceri hanno iniziato a riempirsi. La polizia blocca le strade strette e affollate delle città pakistane, per impedire la fuga. Entra nelle case e chi non ha i documenti in regola viene caricato su furgoni e camion. Ma, a quanto ci dicono, succede anche a chi è regolare. A volte gli agenti entrano nell’abitazione di notte oppure giungono sul posto di lavoro. Succede, anche, che la casa e il negozio vengano distrutti. C’è poco tempo, devi sbrigarti, lasciare quasi tutto: puoi portare con te solo 150 dollari. “Mentre camminavo per strada a Lahore ho visto coi miei occhi famiglie picchiate dalla polizia per farle salire sul camion -racconta Javed, giovane attivista rifugiato-. Inutili le loro urla: si rifiutavano e sventolavano i documenti ma gli agenti rispondevano col manganello. Qualcuno, che il visto non ce l’ha, offre denaro: si apparta col poliziotto e poi risale in casa con tutta la famiglia. Se paghi ti lasciano in pace e ti congedano con rispetto”.

I video inondano il web. Si vedono afghani spinti a forza sui mezzi, schiacciati come in una valigia troppo piena, qualcuno cade e viene spinto di nuovo su, come un oggetto ingombrante. Si dirigono verso le porte del ritorno in Afghanistan: il valico di Torkham, Nord-Ovest del Paese, e quello di Chaman, a Sud-Ovest. Si caricano pezzi di vita sulle spalle, nei fagotti: qui in Pakistan non c’è più posto per loro. Nemmeno per chi è arrivato quarant’anni fa fuggendo dalla guerra dei russi: i “fratelli afghani” che vivono una vita a tutti gli effetti pakistana, i cui figli parlano solo urdu.

Per i 600mila arrivati negli ultimi due anni in fuga dai Talebani che danno loro la caccia è il crollo della speranza. “Molte famiglie sono venute qui -dice Rahima, cooperante per i diritti delle donne, fuggita in Pakistan- per salvarsi dalla mannaia talebana o per far studiare i figli, soprattutto le femmine, e dar loro la speranza di una vita che è morta da tempo in Afghanistan. Oppure per avere cure e medicine, impossibili nel nostro Paese. Devono lasciare subito le case in affitto ma è difficile trovare una guest house che ti accetti se non hai i documenti, anche perché i pakistani che ci aiutano sono passibili di arresto. Il governo ci ha voltato le spalle e sta distruggendo i nostri sogni. Tutti dovremo tornare a matmesra (parola in lingua dari che possiamo tradurre con ‘luogo buio dove non c’è speranza’, ndr)”.

Intanto nella spianata brulla di fronte al valico di Torkham si ammassano i camion, enormi, colorati, dipinti come quadri naif e stracolmi degli oggetti che accompagnano la vita di migliaia di persone. File interminabili di afghani nella piana desertica, contenute dal filo spinato. Aspettano, spingendo i loro averi in una carriola o se li portano sulle spalle, insieme ai bambini. A volte la pressione della folla, incalzata dalla polizia, si fa insostenibile ed è difficile proteggere anziani e bambini perché non siano calpestati. Beena ci racconta di aver perso la sua bambina, trascinata dalla folla, ma per fortuna l’ha ritrovata il giorno dopo, spaventata ma viva.

Hussein prende in braccio suo figlio sollevandolo da un tappeto polveroso su cui è appoggiato insieme ai pochi averi, ben impacchettati, della famiglia. È accampato davanti all’ufficio della Society for human rights and prisoners aid (Sharp), una Ong che fa la “selezione” per rilasciare il documento dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) che dovrebbe permettere agli afghani di restare. Ma la polizia spesso non lo tiene in considerazione.

Hussein ha paura: scuote la testa, racconta che era un soldato dell’Ana, l’esercito afghano, e i Talebani vogliono ucciderlo. Ha viaggiato per giorni da Karachi, città sulla costa orientale, fino a Islamabad ma i soldi sono finiti e adesso vive per terra, in questo campo desolato di spazzatura e zanzare. Spera di avere quel documento, per continuare la strada verso una vita possibile. Si guarda intorno, come per cercarla.

“Facciamo pressione sul governo pakistano- dice Philippa Candler, dell’Unhcr a Islamabad- perché fermi le deportazioni delle persone per le quali è proibito il respingimento dalle leggi internazionali. Per chi rischia la vita in caso di rientro: soprattutto le donne, le persone che hanno documenti, che sono registrati con noi o con il governo, che aspettano di essere ricollocati verso altri Paesi. Serve formare un Comitato di valutazione dei casi e lavorare insieme con le autorità locali”.

Intanto il fiume umano attraversa il confine, migliaia al giorno, verso il nulla. Cosa li aspetta al di là? Un Paese allo stremo, devastato dalla siccità e dai terremoti, in cui due terzi della popolazione hanno bisogno “urgente” di assistenza per poter sopravvivere ma il governo non ha né volontà, né capacità, né mezzi per intervenire. Dove non ci sono istruzione e lavoro per le donne. Non c’è vita. Che cosa ne farà il governo di Kabul, alle porte dell’inverno, di migliaia di compatrioti rifugiati che non hanno niente, e non sanno dove andare?

“Passato il confine i Talebani accolgono tutti gentilmente -continua Rahima- un bentornato ufficiale pieno di promesse. Ma sappiamo che non sono in grado di gestire questa situazione. È stato allestito solo un campo profughi a pochi chilometri dal confine. Tende, ma senza servizi igienici. Un problema enorme soprattutto per donne e bambini. Le Ong prevedono un disastro umanitario di proporzioni enormi”. Queste montagne hanno sostenuto i passi di migliaia di afghani nel corso di quarant’anni di guerra e di violenza, portando non pochi vantaggi al governo pakistano.

Ero a Peshawar nel 1980 e un fiume di persone attraversava la frontiera, da mesi, in fuga dalla guerra dei russi. La città era il regno dei partiti fondamentalisti afghani che registravano, con improbabili tessere, ogni compatriota arrivato. Se li contendevano ferocemente per ingrossare le fila dei sostenitori e imporsi sui propri rivali. Era sufficiente per stare in Pakistan: in quegli anni i rifugiati erano un buon affare per il governo. Per sostenere i mujaheddin afghani in funzione anti-russa, arrivavano fiumi di denaro, armi e sostegno politico. Soprattutto dalla Cia ma anche da altre agenzie di intelligence. Tutto passava per le mani del governo pakistano e dell’Inter-services intelligence.

“Quando sono arrivati gli americani -dice Noor Ahmed, anche lui rifugiato e oggi avvocato per i diritti umani- il Pakistan si è trovato a giocare due ruoli distinti. Da un lato era l’alleato chiave degli Stati Uniti e riceveva dalla Nato fondi per il supporto logistico delle truppe, dall’altro intascava il sostegno per l’accoglienza dei profughi, infine controllava sul suo territorio i gruppi Talebani. Oggi i rifugiati afghani non portano più vantaggi. Non servono a niente”.

Sul perché di questa immane deportazione Aisha, insegnante anche lei rifugiata, individua tre ragioni. “Il Pakistan ha ormai una posizione sbiadita nel gioco politico internazionale -spiega-. Per quarant’anni gli immigrati sono stati una risorsa: oggi non è più così e questa potrebbe essere una mossa per fare pressione sulla comunità internazionale e riacquistare importanza politica e denaro attraverso i rifugiati, d’altronde non sono i soli a farlo”. Ma per Aisha non è l’unico motivo: “La situazione economica pakistana è disastrosa e ci sono disordini e proteste. Presentare gli afghani come capro espiatorio e cacciarli dal Paese diventa una mossa diversiva per il consenso interno. Infine, i rapporti con Kabul stanno peggiorando: Islamabad fa pressione sui governanti afghani perché agiscano sui Talebani pakistani del Ttp (Tehreek-e-Taliban Pakistan), che operano al confine tra i due Paesi, e li spingano a negoziare con il governo. Accusano Kabul di essere dietro ai numerosi recenti attentati”. Intanto Hussein ha trovato degli amici. Ha una vera stanza, adesso. Il piccolo dorme finalmente su un materasso senza il tormento delle zanzare. Sorride, almeno per stanotte.

Pubblicato su Altreconomia 265 — Dicembre 2023

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

I talebani sono cambiati?

Talebano. Una parola ormai entrata nel nostro vocabolario quotidiano per indicare un’intransigenza cieca e feroce. Eppure, è una parola della quale, fino alla seconda metà degli anni ‘90, la maggioranza degli italiani ignorava l’esistenza e che, in ogni caso, non aveva nulla di sinistro significando “studente”.

Il 27 settembre 1996 il termine “talebano” è esploso nei media occidentali nel significato minaccioso e truce che oggi utilizziamo: quel giorno, l’ultimo presidente della Repubblica Democratica dell’Afghanistan, Mohammad Najibullah, viene prelevato dall’edificio dell’ONU di Kabul (nel quale era rifugiato dal 1992), mutilato, torturato, trascinato con una jeep attorno al palazzo presidenziale, infine ucciso e il suo cadavere esposto per giorni. A compiere l’efferata messa in atto della condanna a morte dell’ex presidente è un “nuovo” gruppo, i talebani appunto, comparso un paio di anni prima in un paese devastato dalla guerra civile, dai crimini compiuti dai “signori della guerra” e da 10 anni di occupazione sovietica.

Descritti come “studenti formatisi nelle scuole coraniche pakistane”, i talebani sono entrati nella scena politica afghana nel 1994 e non ne sono più usciti. Ma chi sono i talebani? Da dove vengono? Come sono riusciti a prendere il potere in Afghanistan nel 1996 e a riconquistarlo nel 2021, dopo 20 anni di occupazione NATO?

Le radici dottrinali

Delle quattro scuole giuridico-religiose dell’Islam sunnita, quella hanafita, costituita verso la fine dell’VIII secolo in Iraq e considerata la più “liberale” tra le scuole ortodosse dell’Islam, è oggi l’elaborazione dottrinale più diffusa nell’Asia centrale, in Egitto, Turchia, Siria, Giordania, Palestina e Iraq. All’interno di questa scuola, nella seconda metà del 1800 a Deoband in India, nasce la corrente detta appunto deobandi principalmente come reazione alla colonizzazione inglese dell’India che, ritenevano i suoi promotori, rischiava di corrompere l’Islam. Senza entrare nel dettaglio possiamo dire che più che una dottrina religioso-giuridica, quella deobandi è un’ideologia che si caratterizza, fin da subito, per il suo carattere anti-imperialista e si diffonde rapidamente in tutto il subcontinente indiano e in Afghanistan.

Dal punto di vista dottrinale si rifà a un’interpretazione molto rigida dell’Islam. L’ideologia deobandi è influenzata anche dal wahabismo (che appartiene, seppur in modo contestato, a un’altra scuola giuridica, la hanbalita). Facciamo questa precisazione non per puro gusto accademico, ma perché dal wahabismo deriva, a sua volta, la scuola di pensiero salafita profondamente legata alla casa regnante dell’Arabia Saudita (e fondamento del movimento della Fratellanza musulmana) e il cui personaggio più famoso, a partire dagli anni ‘90, è un certo Osama bin-Laden.

Nonostante i sunniti pakistani che seguono l’ideologia deobandi siano circa il 20%, essi gestiscono circa il 65% delle madrase (scuole religiose): è in queste scuole che si sono formati i talebani e dove emerge rapidamente una figura ammantata di mistero, il mullah Omar.

Piccoli integralisti crescono

Il contesto è quello che possiamo leggere nel capitolo finale di questo dossier: dopo l’evacuazione delle truppe sovietiche, in Afghanistan si è scatenato un nuovo inferno e gli “eroici” mujahiddin si sono trasformati nei nuovi aguzzini della popolazione, responsabili di crimini e soprusi quotidiani. Nelle scuole coraniche pakistane, i figli (spesso orfani) di afghani rifugiatisi in Pakistan dai tempi dell’invasione sono “profondamente delusi per lo sbriciolamento della leadership dei mujaheddin, un tempo idealizzata, e per le attività criminali dei loro esponenti”, scrive Ahmed Rashid nel suo libro Talebani. E il giornalista prosegue: “I talebani più giovani conoscono a malapena il proprio paese e la sua storia, ma nelle loro madrase vagheggiano la società islamica ideale creata dal profeta Maometto millequattrocento anni prima, la società che vogliono emulare… La loro semplice fede in un Islam messianico, puritano, l’Islam che è stato impresso nelle loro menti da semplici mullah di paese, è l’unico puntello cui aggrapparsi e che conferisce un po’ di senso alle loro vite”.

Ma non solo: “Si sono radunati volontariamente nella confraternita esclusivamente maschile che i leader talebani hanno creato… sono orfani cresciuti senza donne – madri, sorelle, cugine. … Vivono una vita aspra, durissima… Si sentono minacciati da quella metà del genere umano che non hanno mai conosciuto, ed è quindi molto più facile rinchiuderla, questa metà, soprattutto se a ordinarlo sono i mullah che ricorrono a primitive ingiunzioni islamiche prive di fondamento nella legge coranica”, scrive sempre Rashid.

 

L’entrata in scena

Tutto il paese è risucchiato dalla guerra civile, ma l’Afghanistan meridionale e la provincia di Kandahar sono il centro dell’inferno con bande di ex mujaheddin che razziano la popolazione, commettendo ogni sorta di sopruso. È il 1994 e i talebani stanno per entrare in scena con un episodio ormai diventato leggenda: Omar è il mullah di una piccola madrasa a Singesar, vicino a Kandahar, e viene informato che un comandante locale ha fatto rapire due ragazzine poi violentate. Omar raduna una trentina di studenti di teologia e attacca la base, uccidendo il comandante e liberando le ragazzine. Fatti simili si ripetono e le fila dei talebani, che si presentano come “un movimento che si prefigge lo scopo di purificare la società” (Rashid), si ingrossano.

Ma i talebani giocano un’altra carta che si rivelerà vincente: proteggono la mafia pakistana dei trasporti e del contrabbando che garantisce denaro e appoggi per poter liberamente transitare nei territori controllati dagli stessi talebani.

Militari, governo e servizi segreti pakistani avevano fino a quel momento sostenuto Gulbuddin Hekmatyar ritenendolo il più probabile vincitore della guerra civile in un paese indispensabile per aprire le vie commerciali, e del petrolio, con le repubbliche centro-asiatiche. Rendendosi invece conto di star favorendo un perdente, i pakistani iniziano a sostenere il movimento dei talebani al quale, nel frattempo, si sono uniti anche diversi gruppi salafiti, appoggiati ed equipaggiati dall’Arabia Saudita.

Il salto di qualità

Inizialmente sostenuti da una parte della popolazione alla quale, dopo anni di guerre e angherie, promettono la pace, patrocinati da Pakistan e Arabia Saudita i talebani nel giro di due anni controllano il 90% del paese fino a conquistare Kabul e proclamare l’Emirato Islamico dell’Afghanistan.

Se l’uccisione di Najibullah è l’atto che li fa conoscere al mondo, è la messa in atto della più oscurantista interpretazione dell’Islam che mostrerà al popolo afghano il vero volto dei talebani: le scuole femminili vengono chiuse, le donne non possono uscire di casa da sole e quando lo fanno devono essere integralmente coperte, vengono distrutti gli apparecchi televisivi e messi al bando sport e attività creative, vietata la musica e gli aquiloni, imposta la barba agli uomini e la frequentazione delle moschee, ogni violazione della sharia viene punita severamente fino ad arrivare a pubbliche esecuzioni e lapidazioni.

L’Emirato viene riconosciuto solo da Emirati Arabi Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, ma l’appoggio dell’Arabia Saudita e le repressioni della minoranza hazara, sciita, fanno dell’Iran un nemico dell’Emirato, solleticando così l’interesse degli USA (vedi l’articolo dedicato alla storia dell’Afghanistan): l’amministrazione Clinton vede favorevolmente l’affermarsi del movimento talebano non solo in visione anti-Iran, ma anche perché auspica di trovare un appoggio per la realizzazione dell’oleodotto sponsorizzato dalla multinazionale texana Unocal.

Intanto, mentre la popolazione afghana, annichilita dal regime di terrore instaurato dai talebani, cerca di sopravvivere in un paese distrutto, gli “studenti” consolidano il proprio potere anche grazie ai proventi della coltivazione del papavero da oppio.

Il vero salto di qualità, però, i talebani lo compiono nel 1996, quando Osama bin Laden si trasferisce definitivamente in Afghanistan insediando la base più importante di al-Qaeda, dove vengono addestrati 2500 guerriglieri. L’instaurazione dell’Emirato con l’implacabile applicazione della sharia e la presenza nel paese di uno dei 10 uomini più ricercati dagli Stati Uniti trasformano l’Afghanistan in un formidabile aggregatore di jihadisti: “L’Afghanistan era un’incubatrice, dove i semi [del movimento jihadista] sarebbero cresciuti”, sono le parole del numero due di al-Qaeda Ayman al-Zawahiri riportate da Elisa Giunchi nel suo libro sull’Afghanistan.

Fuga e riorganizzazione

Ed è proprio in quanto sede del centro operativo di Bin Laden che il regime dei talebani verrà ritenuto corresponsabile degli attentati dell’11 settembre 2001 e l’Afghanistan attaccato nell’ottobre dello stesso anno. Grande rilievo viene dato in Occidente alle operazioni USA prima e alle missioni NATO poi, ma la caduta dell’Emirato non corrisponde alla scomparsa dei talebani, che si rifugiano prima nei villaggi del sud dell’Afghanistan, loro storica roccaforte, e poi in Pakistan, nel Beluchistan e nelle FATA (Federally Administered Tribal Areas), un’area nella quale le tribù pashtun godono di una certa indipendenza rispetto al governo centrale di Islamabad.

Nonostante le perdite, quasi l’intera struttura di comando dei talebani è rimasta intatta e in Pakistan, grazie al supporto dei servizi segreti pakistani, si riorganizzano rapidamente. I pashtun delle FATA aprono il loro territorio a integralisti di tutto il mondo (ceceni, centroasiatici, africani, indonesiani, uiguri) che vanno a ingrossare le file di al-Qaeda, le cui sorti si intrecciano sempre più con quelle dei talebani. Questi stanno anche imparando dall’organizzazione di Bin Laden e dai servizi segreti pakistani le tecniche di guerriglia e a utilizzare sofisticati mezzi di comunicazione. Nel 2004 i talebani possono già contare su solide basi in territorio afghano e compiono continue azioni contro le forze di polizia afghane e le truppe NATO.

Il governo centrale afghano controlla di fatto solo la capitale, tanto che Hamid Karzai più che presidente viene chiamato “sindaco di Kabul”, mentre il resto del paese è nuovamente in balia dei signori della guerra e degli attacchi suicidi dei talebani che, a partire dal 2006, hanno intensificato l’utilizzo di questa tattica per colpire gli avversari.

Rimandiamo alla Cronologia per il dettaglio degli eventi, quello che qui dobbiamo sottolineare è che in questi anni Karzai mantiene contatti con i talebani per cercare di coinvolgerli in “trattative di pace”. È qui che nasce il “mito” dei talebani “moderati”, con i quali, si dice, è possibile instaurare un dialogo. No, in questo caso il termine ha un significato ben diverso: i talebani non hanno modificato di una virgola la loro ideologia e nei territori che controllano l’oscurantismo integralista viene applicato con lo stesso zelo di quando governavano l’intero paese. Semplicemente, i talebani “moderati” sono quelle frange disposte a trattare con Karzai per spartirsi il controllo del paese e con l’Occidente perché la NATO esca dall’Afghanistan.

1994 e 2021: i talebani sono diversi?

Negli anni successivi i talebani continuano la loro guerra di logoramento e, nel contempo, terrorizzano la popolazione. Nel frattempo, gli USA sono impegnati nella guerra con l’Iraq e di lì a poco il mondo sarà sconvolto dalle guerre in Libia e in Siria che fanno emergere un nuovo attore nel panorama dell’integralismo islamico, l’ISIS. Un attore che farà il suo ingresso anche nella scena afghana.

Mentre gli occhi del mondo sono catalizzati dagli orrori dell’ISIS in Siria, in Afghanistan i talebani controllano i tre quarti del paese. E quando nel febbraio 2020 si siedono al tavolo con i negoziatori USA in Qatar, quella che firmano non è un’intesa di pace, come viene pomposamente chiamata dall’amministrazione Trump, ma una via d’uscita per gli USA per l’evacuazione delle loro truppe dal paese entro l’agosto 2021 (termine precedentemente dato dall’amministrazione Obama).

A questo punto torniamo alla domanda iniziale: sono diversi i talebani tornati al governo di Kabul nel 2021 rispetto a quelli che avevano preso il potere nel 1994? Sicuramente sono più preparati alla gestione del potere e nell’utilizzo dei mezzi informatici, cosa che ha permesso loro, per esempio, di accedere facilmente ai database con le informazioni relative ai cittadini afghani (vedi pagina 7). Poi sono meglio equipaggiati militarmente: oltre ai finanziamenti diretti ricevuti da Pakistan e Arabia Saudita, i talebani sono entrati in possesso dell’arsenale americano lasciato sul territorio dopo la fuga da Kabul nell’agosto 2021. Il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha confermato che i miliziani hanno preso possesso di un enorme arsenale del valore di miliardi di dollari: [5] dai veicoli militari Humvee ai fucili M4 e M16, fino a elicotteri Black Hawk e aerei A-29; anche se è probabile che abbiano difficoltà a utilizzare le armi più avanzate, rimane comunque una dotazione importante di armi “leggere” in loro possesso.

Ideologicamente invece sono sempre gli stessi e lo hanno dimostrato subito, ma sono meno coesi. Nella lotta per il potere emergono due fazioni principali, quella legata al mullah Abdul Ghani Baradar e quella che fa capo a Sirajuddin Haqqani. Il primo era il vice del mullah Omar, arrestato a Karachi nel 2010 e successivamente liberato su richiesta degli USA perché partecipasse ai colloqui di Doha fino alla firma dell’accordo del 2020. Il secondo è a capo della Rete Haqqani, un gruppo alleato dei talebani ma autonomo e molto vicino ad al-Qaeda; Sirajuddin è il figlio di Jalaluddin che fondò il proprio movimento durante l’occupazione sovietica grazie a un grosso trasferimento di armi e denaro da parte della CIA [6].

Infine, c’è l’incognita ISIS. Nel 2014 l’ISIS aveva avviato contatti con il gruppo Tehrik i Taliban Pakistan (TTP), i cosiddetti talebani pakistani aderenti alla corrente salafita e quindi molto vicini ad al-Qaeda. Questa relazione aveva dato vita all’ISIS-K (Stato islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che si era radicata nelle aree orientali dell’Afghanistan, attaccando tanto il governo afghano quanto i talebani. Oggi l’ISIS-K, responsabile di continui attentati ed azioni di guerriglia, in particolare nella zona di Narganhar, sta reclutando tra le proprie fila ex combattenti che non si sentono adeguatamente remunerati dal nuovo governo per il loro passato impegno ed ex membri delle forze di sicurezza afghane desiderosi di sfuggire ai talebani. La polveriera Afghanistan è pronta a esplodere nuovamente.

 

Report Last Twenty 2023 – Afghanistan – La tragedia di un popolo sedotto e abbandonato

Come è noto, nel 2021 l’Italia ha ospitato il G20. Nel luglio dello stesso anno si è tenuto a Reggio Calabria, il primo incontro degli L20, ovvero degli Ultimi 20 Paesi in base agli indicatori socio-economici. A questo primo incontro ne son seguiti altri e nell’ottobre del 2022 si è costituita l’Associazione L20 a cui hanno aderito e continuano ad aderire singole persone, associazioni, Ong, ecc. È stato quindi un Comitato scientifico e un gruppo di lavoro per redigere il secondo Report L20 con l’obiettivo di guardare il mondo dai “margini”, per leggere il mutamento – economico, sociale, ambientale e politico – da quest’altra faccia del nostro pianeta. Dare voce agli Ultimi, conoscere questi Paesi, la loro storia, cultura, e i loro bisogni emergenti.

Riportiamo qui il testo, scritto da Antonella Garofalo di CISDA, relativo all’Afghanistan. Chi desidera ottenere il Report completo, lo può ricevere via mail compilando il modulo pubblicato in calce all’articolo.


La situazione dell’Afghanistan, dopo due anni di regime talebano, è quella di un Paese allo stremo delle sue forze, impoverito e affamato.

Nessuno aveva creduto alle promesse dei talebani. Appena avevano riconquistato il potere con la presa definitiva di Kabul il 15 agosto 2021 dichiaravano di essere cambiati: avrebbero consentito alle ragazze di andare a scuola e lavorare. Promettevano addirittura di concedere libertà di espressione. Ma non era possibile fidarsi. In questi due anni sono spariti o sono stati uccisi giornaliste, giudici donne, soldati, medici e infermiere. Continuano a eliminare i loro oppositori e oppositrici politiche, seminando violenza e terrore in tutta la popolazione.

Il 90% della popolazione afghana è sotto la soglia di povertà, i 2/3 della popola- zione (quasi 20 milioni su 34 milioni di abitanti) hanno difficoltà enormi ad accedere a provviste alimentari di prima necessità.

È diminuito il tasso di occupazione anche per gli uomini, ma per le donne, spesso vedove, subire il divieto di lavorare significa non poter dare da mangiare ai propri figli.

Da settembre del 2021 sono stati emessi dai talebani oltre 50 editti che cancellano ogni diritto per le donne, a cui è preclusa la partecipazione sociale e politica e soprattutto l’accesso ai servizi di base indispensabili, sanitari, educativi e di lavoro. Nostre fonti nel Paese ci confermano che l’applicazione degli editti è del tutto arbitraria e le sanzioni sono comminate a discrezione dei talebani presenti al momento dei con- trolli e diversi a seconda dei luoghi in cui si trovano. Ciò quindi rafforza un clima di insicurezza costante, terrore e impunità.

I fondi arrivano al governo di fatto soprattutto da USA e ONU, giustificati dalla crisi umanitaria a causa della quale sono state sospese le sanzioni economiche con- tenute nella risoluzione 2615 del Consiglio di Sicurezza. E arrivano dalle TASSE imposte dai Talebani sui passaggi alla frontiera di merci e persone (compresa la vendita dei passaporti); sulle concessioni minerarie (contratti con Paesi come la Cina e la Russia); dalla vendita dell’oppio.

Su quest’ultimo tema, l’oppio, uno studio di David Mansfield (2021-2023) docu- menta una significativa riduzione della produzione di papavero, rilevata attraverso immagini satellitari di precisione. Nella provincia di Helmand, da cui veniva il 50% del prodotto, la coltivazione risulta diminuita del 99%. Questo dimostrerebbe che il bando promulgato dai talebani nell’aprile 2022 viene ora applicato, mentre in una prima fase i talebani avevano lasciato concludere il ciclo già avviato, tanto che nel novembre del 2022 gli esperti ONU (rapporto UNODOC) avevano rilevato un aumento della produzione di oppio del 32%.

Ci sono varie ipotesi di spiegazione di questo nuovo corso: zelo religioso? Conflitti interni di potere? Attirare assistenza allo sviluppo dalla comunità internazionale? Monopolizzare il commercio e manipolare i mercati? Abbiamo chiesto ai nostri contatti di riferimento in Afghanistan e sono molto scettici sulla possibilità che i talebani intendano ridimensionare la loro principale fonte di reddito, cioè produzione, raffinazione e commercializzazione dell’oppio: non possono farne a meno.

Nell’immediato, si paventa la perdita di 450.000 posti di lavoro a tempo pieno nel settore con conseguente nuova spinta migratoria.

Rilevante anche il nuovo aumento dei rifugiati interni, documentato dall’ONU: nel novembre 2022 sono stimati 5.9 milioni, di cui 68% per conflitti e violenze, 32% per disastri “naturali”, cioè dovuti ai cambiamenti climatici (siccità e alluvioni) e terremoti.

Negli ultimi rapporti ONU (Human Right ONU resolution 51/20; il report del UN High Commissioner for Human Rights presentato alla 52° sessione dell’Hu- man Right Council; il report specifico sulla “Situazione delle donne e delle ragaz- ze” pubblicato il 15/06/23 a firma dello stesso Special Rapporteur, Richard Bennet, A/HRC/53/21) rileviamo dati che confermano ampiamente quanto arriva dai no- stri contatti all’interno dell’Afghanistan. Viene chiaramente indicato come l’insie- me delle violazioni vada considerato pienamente “persecuzione di genere”, crimine contro l’umanità. E che come tale andrebbe perseguito. Le autorità di fatto talebane stanno infatti “normalizzando” le discriminazioni e la privazione sistemica dei diritti fondamentali delle donne e la violenza contro di loro in quanto donne.

È la conclusione a cui giunge anche il rapporto di Amnesty International, scritto con la Commissione Internazionale dei Giuristi, che chiede quindi al Tribunale Penale Internazionale di indagare, e ai singoli Paesi di utilizzare i propri strumenti legali per consegnare alla giustizia i criminali che dovessero transitare nel proprio territorio.

Interessante anche il giudizio molto esplicito espresso dal doc ONU del 15/06/23 di cui sopra: gli accordi di Doha deL2020 “exemplified the willingness of all actors to disregard women’s rights for the sake of political expedience” (“dimostrano la volontà di tutti gli attori di ignorare i diritti delle donne a beneficio della convenienza politica”) e sono stati assunti in modo non trasparente e non inclusivo.

Il CISDA continua a sostenere la resistenza delle attiviste di Rawa, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane e delle attiviste e degli attivisti di Hambastagi, il Partito della Solidarietà. Sono organizzazioni progressiste, democratiche, laiche e antifondamentaliste. RAWA è anche, e in primo luogo, un’organizzazione femminista attiva in Afghanistan da 46 anni, rimasta fedele all’impegno per la giustizia sociale inaugurato da Meena, la sua fondatrice, come azione centrale nella rivoluzione portata avanti fin dalle origini. RAWA è da sempre costretta a operare nella clandestinità.

Insieme a RAWA e HAMBASTAGI, CISDA sostiene dalla fine degli anni ’90 tutta una rete di associazioni e ong che si occupano di portare aiuto alle donne e alla popolazione e di difendere i diritti umani. Si tratta di organizzazioni che hanno una caratteristica fondamentale: sono composte per lo più da donne e sono guidate dalle donne.

Quello che le organizzazioni non governative afghane stanno facendo oggi è un vero slalom tra emergenza umanitaria, e divieti e arbitri imposti dalle autorità. CISDA denuncia il pericolo in cui, a causa dell’inasprimento della repressione in corso, incorrono in modo particolare proprio le operatrici e gli operatori di questa rete di associazione e ong locali costretti alla semi-clandestinità perché le loro attività sono considerate sospette. I talebani rastrellano le case, quartiere per quartiere, in particolare quelle di attiviste e attivisti e delle responsabili. Spesso hanno elenchi con i nomi, per andare a colpo sicuro. Anche le case delle lavoratrici e dei lavoratori delle ong della nostra rete sono state perquisite e loro sono state obbligate/i a cambiare spesso abitazione per non rischiare la vita, a distruggere documenti e a nascondere computer e telefoni.

Una delle attività maggiormente a rischio in ambito umanitario è quella dell’istruzione: i talebani, oltre a vietare l’accesso alle scuole per le bambine dai 12 anni, vogliono impedire l’istituzione di classi clandestine, una delle poche modalità per garantire oggi il diritto all’istruzione di bambine e ragazze e di poter accedere allo studio di materie scientifiche e alla lingua inglese, sfuggendo all’indottrinamento religioso che pervade quello che rimane dell’istruzione statale.

Ma anche tante altre attività realizzate da RAWA e HAMBASTAGI e dalle ong afghane che sosteniamo vengono ostacolate in tutti i modi: impossibile tenere aperta una casa protetta per le vittime di violenza, se non rendendola ancora più segreta e assolutamente non identificabile come quella che stiamo sostenendo dopo l’evacua- zione dello shelter di Kabul.

Sempre più difficile anche la distribuzione di cibo alle persone più bisognose: per poterla realizzare è necessario passare controlli e interrogatori inventandosi ogni genere di trucco per far proseguire i rifornimenti oltre i check-point, senza mettere a rischio operatrici/attivisti e derrate alimentari.

Ci sembra più che mai necessario dare voce a Belquis Roshan, senatrice nella Ca- mera alta del Parlamento afghano durante il precedente governo, costretta a lasciare il suo Paese e ora rifugiata in Europa, che il 26 agosto 2023, durante un incontro con Richard Bennett, il relatore speciale dell’ONU sulla situazione dei diritti umani in Afghanistan e i delegati alla prima sessione delle NU per discutere dell’”apartheid di genere” in Afghanistan, dichiara:

«Chiedere semplicemente ai talebani di riaprire scuole e centri educativi per donne è un obiettivo molto limitato. I talebani hanno trasformato il sistema educativo in una piattaforma fondamentalista e terroristica al fine di crescere i nostri bambini e ragazzi con una mentalità violenta e prepararli ad attentati suicidi, esplosioni e criminalità, e questo è un grave pericolo non solo per l’Afghanistan ma per tutto il mondo. Anche se le ragazze vi potessero andare, è preferibile non avere scuole del genere dove non vi sono elementi di progresso o conoscenza.

Le donne che protestano vengono attaccate, quindi le istituzioni internazionali dovrebbero essere la loro voce. Invece di sponsorizzare alcune lobbiste talebane che sono la causa di questa misera situazione, alle donne che combattono coraggiosamente in Afghanistan contro i talebani dovrebbe essere data l’opportunità di far sentire le loro urla pro-democrazia e di essere ascoltate.

L’”amnistia generale” dei talebani è una menzogna: stanno uccidendo ex dipendenti governativi, soprattutto nel settore militare e gli attivisti per i diritti umani. Si dovrebbe alzare la voce su questo.

Il mondo ha dimenticato l’Afghanistan. Il caso dell’Afghanistan, i diritti umani e la sua catastrofe umanitaria non dovrebbero essere lasciati incustoditi, gli atti terroristici e misogini dei talebani dovrebbero essere smascherati e il mondo ne dovrebbe parlare seriamente.

Bisogna trattare i talebani non come un governo legittimo ma come criminali le cui mani sono macchiate del sangue di innocenti afghani e come forza che cerca di fare dell’Afghanistan il centro del terrorismo e del fondamentalismo. Questo è il minimo che possiamo aspettarci dal mondo e dalle istituzioni per i diritti umani».

A conclusione di questo report, comunichiamo che continua la campagna #StandUpWithAfghanWomen!

Si propone di tutelare i diritti umani in Afghanistan e di promuovere un’azione incisi- va per il sostegno alle realtà democratiche e antifondamentaliste che operano nel Paese.

La campagna si incentra su quattro temi principali:

  1. Non riconoscimento del Governo dei talebani
  2. Autodeterminazione del popolo afghano
  3. Riconoscimento politico delle forze afghane progressiste e messa al bando di personaggi politici legati ai partiti fondamentalisti
  4. Monitoraggio sul rispetto dei diritti umani

Stand Up With Afghan Women! nasce dalla collaborazione tra Cisda e Large Movements, con il sostegno della rivista Altreconomia nell’ambito della rete eu- ro-afghana di coalizione per la democrazia e la laicità, network di organizzazioni già impegnate a vario titolo nella loro azione quotidiana, per la difesa dei diritti umani.

L’unica via per le donne resta quella dell’autodeterminazione. Solo un governo democratico e laico può garantire al popolo afghano la sicurezza, l’indipendenza, l’uguaglianza di genere e la fine delle discriminazioni razziali. Come chiedono le attiviste afghane: “Aiutiamo a creare una coscienza politica afghana, aiutiamo le donne a sentirsi libere di pensare e dire quello in cui credono”.

Antonella Garofalo è un’attivista di CISDA

Il Report Last Twenty 2023 è il frutto di un lavoro collettivo, coordinato da Tonino Perna e Ugo Melchionda, rispettivamente Presidente e segretario dell’associazione L20 Aps. Hanno collaborato alla stesura di questo Report: Marco Ricceri, segretario generale EURISPES; Francesco Vigliarolo, Università Catòlica de la Plata, Cattedra UNESCO; Nadia Marrazzo, geografa, Università di Napoli Federico II; Valentino Bobbio, segretario generale NeXt; Antonella Garofalo, Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, Simon Gomnan e Rondouba Brillant giornalista; Federica Faroldi, cooperante internazionale; Siid Negash, Coordinamento Eritrea Democratica; Paolo Massaro, delegato di Terre des Hommes per il Mozambico.

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