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Nell’Afghanistan dei Talebani le donne sono sempre più invisibili

Eravamo sedute in mezzo al nulla, quattro anni fa, in un villaggio di polvere e fango dello stesso colore ocra delle montagne, nell’Ovest dell’Afghanistan, dove seguivamo un progetto per le donne. A pochi chilometri c’era una postazione talebana e a una trentina una dell’Isis Khorasan. Non si poteva restare più di due o tre ore nello stesso posto, per non lasciare loro il tempo di organizzare un attacco o un rapimento. Narges mi spiegava la geografia politica del suo Paese: una pelle di leopardo, dove ogni villaggio, ogni città, ogni angolo aveva il suo padrone in lotta con gli altri.

C’erano i distretti completamente in mano ai Talebani, altri contesi con le armi al governo, altri ancora formalmente in mano a Kabul, ma con un “esecutivo ombra” degli studenti coranici. E poi l’Isis Khorasan contro tutti. Una quantità di poteri diversi che esercitavano una pressione violenta e quotidiana sulla popolazione. Una vita in cui si poteva solo scegliere il male minore.

Oggi il palcoscenico si è svuotato: gli unici attori rimasti, i Talebani, governano nell’indifferenza del mondo. La guerra non c’è più, la delinquenza nemmeno, la produzione di droga diminuisce, è vietato portare armi e si può circolare anche di notte. Se ti comporti secondo le regole non hai problemi, ma se sei una donna puoi solo sparire.  Narges oggi vive a Kabul con la sua famiglia. Riesce a lavorare in un ufficio privato, segretamente, quasi sempre da casa. “Esco il meno possibile. Adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa”.

Perché? 

Narges: Gli agenti della polizia morale, uomini e donne, girano come cani affamati per le strade, in cerca delle loro prede. Fino a qualche tempo fa ti arrestavano se manifestavi o se l’hijab [il velo, ndr] non era in regola; adesso lo fanno anche se sei completamente coperta accanto al tuo mahram [l’accompagnatore di sesso maschile, ndr]. Lo fanno senza motivo. Perché? Non si sa e non si può sapere. Tutto è diventato arbitrario, casuale e imprevedibile. Non sai come proteggerti: ogni passo all’esterno costa un’ansia infinita.

Che cosa succede se ti arrestano?
Narges: Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più niente delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari.

Come mai questo ulteriore giro di vite?
Narges: La paura è la più forte delle restrizioni, il più economico sistema di controllo. Arriva ovunque e chiude i pochi spazi rimasti. Ho notato alcune cose negli ultimi anni. Da quando è diventato obbligatorio l’hijab, soprattutto qui a Kabul, le più giovani hanno iniziato a vestirsi in modo tradizionale, strettissimo.

Mi chiedevo il perché, poi ho capito: era l’unica concessione che avrebbero fatto ai nuovi governanti del Paese. Protette da un hijab perfetto potevano andare nei locali, nei ristoranti, passeggiavano con gli uomini, fumavano l’hookah, la pipa ad acqua, e si divertivano. Insopportabile per i Talebani, che hanno inasprito i divieti. Molte sono state arrestate, ma le guerriere della normalità non si sono arrese.

La vita delle donne è diversa nelle province?
Narges: Sì, molto. Gran parte del nostro Paese è stato “talebanizzato” molto prima del loro arrivo a Kabul. Nelle zone rurali, le donne non hanno mai avuto libertà, né diritti. Nei villaggi dell’Helmand, ad esempio, né le ragazze che incontro né le loro madri hanno mai frequentato la scuola. Durante i vent’anni di occupazione delle forze occidentali era possibile studiare, c’erano i servizi per il contrasto alla violenza, i rifugi e la possibilità di lavorare.

Ma tutto questo riguardava una parte limitata della società femminile. Se fossero stati cambiamenti strutturali, non sarebbe stato così facile spazzarli via in un giorno. Per noi che viviamo nelle città, che abbiamo studiato e avevamo un lavoro, l’arrivo a Kabul dei Talebani è stato uno shock ma nella gran parte del Paese non c’è stato alcun cambiamento. La situazione tragica dell’Afghanistan non è solo colpa dei Talebani, questa è una versione comoda per gli ex occupanti, ma è responsabilità di chi per vent’anni non ha fatto nulla.

Perché i Talebani odiano tanto le donne?
Narges: Sono uomini a cui è stato fatto il lavaggio del cervello molto in profondità e molto presto. I bambini nelle madrase vengono lasciati soli, lontani dalla famiglia, da sorelle, madri e zie. Non hanno alcun rapporto con le donne. Non sanno niente di loro se non quello che dice il mullah. Da adulti, sono a disagio, ne hanno paura e non sanno fare altro che opprimerle, diventano così uno strumento politico dell’Islam estremo.

Le donne che incontri hanno qualche speranza per il futuro?
Narges: No, nessuna. Tutti vogliono andarsene, lasciare il Paese. Affrontano qualsiasi pericolo per questo.

Che consenso ha il governo talebano?
Narges: Adesso molto poco. Nei vent’anni di occupazione la popolazione ha sofferto molto e ha sviluppato un profondo risentimento verso le forze straniere. Quando queste se ne sono andate, gli afghani erano pronti ad accettare i Talebani, ma adesso non ce la fanno più.

Con chiunque tu parli, anche con gli sconosciuti, il primo argomento di conversazione sono le critiche nei confronti degli attuali governanti. Farlo è molto pericoloso, ci sono spie ovunque, ma le persone si lasciano andare lo stesso. Sono esasperati, hanno fame e si impedisce alle madri di famiglia di nutrire i propri figli. I divieti per le donne, infatti, creano difficoltà a tutti.

I Talebani resteranno a lungo al governo?
Narges: Loro stessi non hanno speranza di durare molto. Molti si stanno preparando per quando perderanno il potere politico: avviano business, comprano case, preparano una sicurezza per il loro futuro. Mio marito, che è negli affari, lo vede ogni giorno.

Per ora sono stabili però. Che appoggi hanno?
Narges: Principalmente il denaro che gli arriva regolarmente dagli Stati Uniti, che faceva parte degli accordi di Doha. Senza questi soldi non ce la farebbero. Cercano di aumentare gli introiti con le tasse e cresce la corruzione: ma non basta. Non sarà mai abbastanza per sostenersi.

Quali altri sponsor hanno oltre agli Usa?
Narges: Il governo precedente dipendeva al 100% da Washington. Se altri Paesi volevano entrare nel “grande gioco” afghano dovevano rivolgersi ai ribelli. Allo stesso modo, anche oggi ci sono i Talebani iraniani, pakistani, russi. Ognuno ha le sue pedine. E questo non piace agli Stati Uniti: finché non avranno la sicurezza che i Talebani resteranno una forza mercenaria a loro leale continueranno a tenerli sulla corda. Trattano, dialogano ma ancora non vengono ufficialmente riconosciuti. La strada per Kabul è stata aperta all’interno di un piano prestabilito nel quale gli Usa devono mantenere la posizione preminente e limitare le influenze di altri Paesi.

Se gli americani volessero, quindi, potrebbero far cadere il governo talebano?
Narges: Hanno smantellato il governo di Ashraf Ghani in una settimana, potrebbero deporre questo in tre giorni.

E con chi potrebbero sostituirli? Con i vecchi signori della guerra, con un governo condiviso, con il giovane Ahmad Massud, il figlio di Ahmad Shah?
Narges: Potrebbero. Massud e gli altri sono in cerca di sponsor, ma non li trovano. Nessuno vuole sostenerli per ora. I signori della guerra aspettano pazientemente di ritornare in campo e riprendere gli affari. Sanno che non sono esclusi per sempre, ma aspetteranno a lungo. Nessuno ha interesse in questo momento a far cadere i Talebani, soprattutto agli americani non conviene: controllano i governanti di Kabul con il denaro e mantengono la loro influenza. Del nostro inferno non si vede la fine, ma le donne afghane sono molto forti. Abbiamo fatto una cura drastica a base di guerre, violenze, soprusi. Dobbiamo solo impegnarci a sopravvivere.

Pubblicato su Altreconomia 

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.

Roshan Belqis

Nata nel 1973 nella provincia di Farah nel Sud-ovest dell’Afghanistan, Belqis Roshan è ancora una bambina quando le truppe sovietiche invadono il suo paese. Come milioni di altri afghani, la famiglia di Belqis Roshan è fuggita in Iran dove è diventata adulta per poi seguire la famiglia nel suo trasferimento in Pakistan dove la politica afghana studia in una scuola per rifugiati.

Dice di sé riferendosi a quel periodo: “Assistendo alla difficile situazione del popolo afghano, in particolare delle donne, sotto il governo brutale dei fondamentalisti misogini, ho cercato di trovare modi per acquisire consapevolezza politica e ho cercato di servire le donne sofferenti del mio paese”

Dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti e della NATO nel 2001, Roshan torna a Farah e inizia a lavorare come direttrice di un centro sanitario femminile: “Per me – racconta – è stata una grande opportunità per entrare in contatto e prendermi cura di molte delle donne più povere e oppresse”.

Esortata da un gruppo di donne e da gente del posto, Roshan vince le elezioni del consiglio provinciale nel 2005 continuando a lavorare nel territorio a partecipando a conferenze internazionali in Corea e in Italia.  Nel 2009 vince nuovamente le elezioni del consiglio provinciale e va a Kabul come rappresentante del consiglio provinciale alla Mishrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento (Senato). Di quell’esperienza racconta: “Durante i miei quattro anni al Senato, volevo essere la voce delle donne afghane, essere onesta e coraggiosa e, conoscendo la vera natura dei signori della guerra, ho usato ogni modo possibile per smascherarli. Sfortunatamente, molti di coloro che sono oppressori e nemici del popolo erano membri del parlamento”.

Durante il periodo da senatrice, Roshan frequenta la Facoltà di legge all’Università di Kabul.

Nelle elezioni parlamentari del 2018 si candida, e vince, alla Wolesi Jirga (Camera Bassa del Parlamento) per la provincia di Farah: “Anche nella Wolesi Jirga, come nel caso precedente, ho protestato con forza contro i signori della guerra e, nonostante le continue minacce di morte che ho ricevuto, ho continuato a denunciare i crimini, la corruzione e i saccheggi dei governanti e dei parlamentari”, spiega.

Il 13 ottobre 2013, alla Loya Jirga (tradizionale Grande Assemblea) è stata l’unica rappresentante a opporsi alla firma di un patto di sicurezza con gli Stati Uniti e decide di lasciare l’Assemblea con lo slogan “Il patto con gli USA è un tradimento della nostra patria” dichiarando ai media che la presenza militare americana in Afghanistan rappresentava un pericolo per il futuro del nostro Paese. Ha sempre criticato le politiche USA/NATO attribuendo loro la tragedia che il Paese sta attraversando.

Roshan fa ancora sentire la sua voce durante la Loya Jirga del 7 agosto 2020, quando il governo fantoccio di Ashraf Ghani decide di liberare dalla prigione migliaia di pericolosi terroristi talebani: “Ho alzato nuovamente la voce per oppormi alla decisione. Ho definito l’’accordo’ con i talebani un ‘tradimento nazionale’ e ho avvertito che la liberazione di quei prigionieri avrebbe rafforzato i talebani e avrebbe portato a una situazione terribile per l’Afghanistan e il suo popolo. In questa occasione, mentre Ashraf Ghani parlava, mi sono alzata e in pochi secondi sono stata scaraventata a terra da una donna appartenente al personale di sicurezza all’interno della sala. Questo incidente ha avuto un’enorme copertura mediatica ed è stato condannato in tutto l’Afghanistan, mettendo in ombra l’intera Loya Jirga”.

Il suo nome è stato inserito nella lista nera dei talebani e dell’ISIS, ma Roshan non ha mai fatto marcia indietro: “Sia nei miei discorsi in parlamento che nei media locali avevo previsto i tragici eventi che l’Afghanistan si trova ad affrontare oggi. L’ho fatto perché conosco la vera natura di quei terroristi ed ero sicura che le politiche di promozione dei terroristi da parte dell’Occidente avrebbero portato l’Afghanistan verso catastrofi più profonde, soprattutto per le sue donne oppresse”.

L’arrivo al potere dei talebani ha fatto decidere al team che si occupava della sua sicurezza che Roshan non doveva più apparire in pubblico perché troppo rischioso. Successivamente è costretta a lasciare il paese: “Non avrei mai pensato di lasciare l’Afghanistan, il mio amato Paese, ma dall’agosto 2021, con la caduta del regime di Kabul, mi è stato impossibile continuare le mie attività e la mia vita è ad alto rischio. L’unica ragione per cui ho dovuto andarmene è stato per poter sopravvivere e continuare la mia missione, per far sentire in tutto il mondo la protesta del mio sfortunato popolo contro i talebani misogini”.

Belqis Roshan vive attualmente in Germania dove è presente una grande comunità di afghani, ma continua a portare in giro per il mondo la voce delle donne afghane.

Belqis Roshan
Un’altra immagine di Roshan durante la pandemia Covid
Belqis Roshan
Un famoso signore della guerra minaccia Roshan durante un talk show
Belqis Roshan
Belqis Roshan viene aggredita per aver pronunciato lo slogan “Il riscatto ai talebani selvaggi è un tradimento nazionale!” durante la Loya Jirga il 7 agosto 2020. Questa grande assemblea ha votato per il rilascio di 5000 prigionieri talebani.
Belqis Roshan
Intervento di Bilqis Roshan a una seduta del Parlamento nel 2020
Belqis Roshan
Proteste di Bilqis Roshan durante la Loya Jirga del 21 novembre 2013
Belqis Roshan
Durante la pandemia Roshan ha anche co-fondato il Comitato popolare contro il Covid 19 – Komak (che significa aiuto in dari), per assistere le persone colpite raccogliendo donazioni dai suoi sostenitori
Belqis Roshan
Bilqis Roshan durante la sessione del Parlamento nel 2021
Belqis Roshan
Dopo l’attacco a Roshan del 7 agosto 2020, si sono svolte manifestazioni in sua difesa

 

 

Collaborazione tra ANPI e CISDA

Il Coordinamento Nazionale Donne ANPI e il Coordinamento Italiano Sostegno alle Donne Afghane (CISDA) hanno siglato una lettera che sancisce la collaborazione tra le due organizzazioni con l’intento di rendere visibile l’attualità della resistenza delle donne afghane.

Ecco il testo della lettera, con la quale si invitano le sezioni locali e provinciali dell’ANPI a farsi promotrici di eventi in collaborazione con CISDA.

 

Lettera ANPI CISDA

Nonostante tutto…i corsi di cucito (e non solo) continuano

Qualche giorno fa abbiamo ricevuto informazioni dall’organizzazione afghana che sostiene il progetto Sartoria e volentieri lo pubblichiamo. Ricordiamo che al corso di taglio e cucito si affiancano lezioni di alfabetizzazione. Come sempre, per ragioni di sicurezza, abbiamo omesso o modificato nomi e situazioni che potrebbero aiutare a identificare le nostre valorose compagne che continuano a svolgere in Afghanistan attività a favore delle donne.

“Tutti i nostri corsi stanno procedendo senza intoppi, senza grossi problemi. Gli studenti frequentano i corsi con amore ed entusiasmo. Nonostante le circostanze estremamente difficili e impegnative che mettono ogni giorno un’enorme pressione sulle donne, i nostri devoti insegnanti si sono opposti coraggiosamente alle decisioni discriminatorie dei talebani e continuano a insegnare alle ragazze che sono state lasciate indietro. Prendiamo in considerazione tutte le precauzioni, assicurandoci che gli studenti frequentino i corsi individualmente in orari diversi e lascino le aule con discrezione, per non attirare l’attenzione. In questi giorni i talebani hanno reso le condizioni ancora più difficili per le ragazze, arrestando giovani donne e ragazze con il pretesto di aspetto o codice di abbigliamento inappropriati e tenendole in custodia per ore. Una ragazza che protestava nella provincia afghana di Kunduz ha perso la vita dopo qualche tempo sotto la custodia dei talebani. Lo spirito delle donne e delle ragazze in Afghanistan si deteriora ogni giorno e loro si sentono davvero impotenti. Il team della nostra organizzazione si sforza di avere un impatto positivo sulle ragazze afghane attraverso questi corsi. Continueremo i nostri sforzi fino all’ultimo momento per sostenere le ragazze del nostro Paese e fornire loro speranza, aspirazioni e motivazione. Siamo immensamente grati di avervi al nostro fianco”.

La comunicazione dell’organizzazione afghani è proseguita raccontandoci una triste storia emblematica della condizione nella quale sono costrette a vivere le donne e che, purtroppo, non rappresenta un caso isolato.

“Attualmente, una delle nostre studentesse di cucito è scomparsa da più di venti giorni. Abbiamo organizzato un incontro con la madre Fariba (nome di fantasia ndr) per esserle di supporto nella ricerca della figlia. Fariba ha spiegato che la figlia era andata a iscriversi al corso di cucito che si era aperto nel loro quartiere qualche giorno prima, ma purtroppo da allora non è più tornata a casa. Quando il suo fidanzato è venuto a conoscenza della situazione, si è arrabbiato moltissimo e ha chiesto l’annullamento del fidanzamento, elencando tutte le spese sostenute durante il loro fidanzamento e accusando Fariba di inganno.

Fariba ha visitato tutte le prigioni talebane, ma non ha ricevuto alcuna informazione. La madre è estremamente preoccupata perché tutti i parenti hanno tagliato i ponti con la famiglia, sostenendo che non sono più rispettabili a causa della scomparsa della figlia. Si rifiutano di avere qualsiasi contatto.

L’istruttrice di cucito e la responsabile del progetto, hanno fatto ogni sforzo per fornire supporto a Fariba, ma il suo dolore è travolgente e versa solo lacrime. Tutti speriamo che un giorno la figlia di Fariba venga ritrovata.

La situazione peggiora ogni giorno e tutte le donne e le ragazze sono terrorizzate. Tuttavia, tutte le nostre studentesse sono determinate a non arrendersi a queste difficili circostanze. Si avvicinano agli studi con entusiasmo e dicono: “Non ci sottometteremo alle cattive condizioni“.

Possono i talebani smettere di essere fondamentalisti?

Possono i talebani smettere di essere fondamentalisti? Possono restituire libertà e diritti alle donne e alle ragazze afghane?

È quello che speravano l’Onu e la comunità internazionale quando hanno organizzato, il 18-19 febbraio a Doha, il secondo Incontro dei 25 paesi più ricchi del mondo per parlare dei problemi dell’Afghanistan, come avevano già fatto un anno fa, ma questa volta invitando direttamente i talebani a parteciparvi per avviare un processo di avvicinamento e “normalizzazione” in grado di aggirare lo scoglio, per i più insormontabile, del riconoscimento del loro governo.

Nelle intenzioni, un atto di real politik, un riconoscimento di fatto, senza ufficializzarlo, così che l’opinione pubblica non se ne accorgesse – o comunque non se ne sentisse in colpa.

Questa strategia era iniziata nell’aprile 2023 con l’affidamento al Coordinatore speciale delle Nazioni Unite per l’Afghanistan Feridun Sinirlioğlu dell’incarico di fare una valutazione “indipendente” sull’andamento dei rapporti tra il mondo democratico e il governo de facto dell’Afghanistan, cioè sulle condizioni delle donne e della popolazione afghana dopo due anni di crisi economica e umanitaria conseguente al ritorno dei talebani a Kabul.

Verificato che le sanzioni economiche e politiche, messe in atto nei confronti dell’Afghanistan per premere sui talebani e costringerli ad allentare la morsa sui diritti umani delle donne, non avevano minimamente scalfito l’ideologia fondamentalista e nemmeno scosso la loro saldezza politica; che nonostante i miliardi di aiuti arrivati direttamente e indirettamente dalla cooperazione internazionale e dagli stati più ricchi la situazione per il popolo non era granché migliorata mentre i talebani avevano continuato a consolidarsi proprio grazie agli aiuti internazionali e alle buone relazioni con gli stati delle Regione, in barba alle rituali lamentele circa le violazioni delle norme internazionali, anche le Nazioni Unite avevano cominciato a parlare di cambiare strategia.

Non si pensava più di premere direttamente sui talebani per ottenere l’adeguamento del loro governo alle norme internazionali in materia di democrazia, diritti alle donne e inclusività dando loro in cambio il riconoscimento. Si decise invece di mettere in atto un avvicinamento ai talebani, un dialogo con loro, che si pensava efficace perché il confronto con l’Occidente li avrebbe persuasi della bontà della nostra democrazia e della cattiveria della loro sharia, o almeno della convenienza a diventare più malleabili.

Da questa nuova convinzione è nata l’idea di invitare anche i talebani al secondo Incontro di Doha – nonostante le proteste delle organizzazioni democratiche della società civile e delle donne, messe a tacere con il contentino di un invito a qualcuna di loro – ma scelta come? veniva chiesto – per un incontro a margine di quelli ufficiali.

E qui il colpo di scena: i talebani non solo non si sono dimostrati riconoscenti di fronte a questa possibilità di entrare finalmente nel consesso internazionale degli stati per bene ma addirittura hanno snobbato l’incontro, rifiutandosi di partecipare se non fossero stati gli unici rappresentanti del popolo afgano – niente donne, niente altre forze – cioè, in sostanza pretendendo da subito il riconoscimento… e senza nulla in cambio.

Quindi nella controversa questione, che da mesi mette a confronto l’Onu che difende la ragion di stato e le organizzazioni che difendono le donne e i diritti umani, se sia più utile alla causa della democrazia legare il riconoscimento del governo de facto alla concessioni di diritti o andare al dialogo nella speranza di convincerli gradualmente a cambiare, sono stati gli stessi talebani a risolvere il problema, non presentandosi all’incontro in quanto non interessati al dialogo se non alle loro condizioni.

Nella conferenza stampa finale Guterres ha fatto buon viso non manifestando delusione per questo rifiuto, plaudendo all’accordo tra tutti i presenti, prendendo atto che con i talebani funzionano maggiormente gli incontri bilaterali o regionali e augurandosi che in futuro si mostrino più disponibili. Un commento di prammatica, insomma, che ha nascosto il fallimento del meeting.

Ma perché i talebani non hanno accettato la mano tesa dell’Occidente, la possibilità per loro di uscire finalmente dall’isolamento? 

Innanzitutto, perché isolati non sono. Già “dialogano” con Usa e Unione europea e ricevono soldi dai paesi occidentali e sempre più alacremente fanno trattative e accordi economici con Cina, Russia, Iran, con i paesi della Regione e del Medio Oriente, stati che li hanno già, chi più chi meno, riconosciuti di fatto e senza porre difficoltà ideologiche nonostante le dichiarazioni formali.

Ma soprattutto perché, se anche così non fosse, se fossero davvero isolati, i talebani non potrebbero comunque aprire a un governo inclusivo e tanto meno trattare sui diritti delle donne, perché la loro ideologia integralista e fondamentalista non contempla il confronto delle idee e la mediazione, vogliono tutto o niente, l’applicazione integrale della loro visione della religione e della politica o il passaggio dall’altra parte, la chiusura nel loro mondo in attesa di ritornare vincitori.

Quindi è illusorio credere che dare riconoscimento e concessioni possa strappare qualche diritto per le donne. Le posizioni dei talebani non sono scalfibili perché, se non fossero così misogini, intransigenti e fondamentalisti non sarebbero talebani.

Possono fare accordi economici con chiunque e accettare condizioni, ma ciò che li distingue e caratterizza è l’intransigenza nella vita personale e nell’ideologia, l’assoluta schiavitù del corpo e della mente a quei principi religiosi “musulmani” che loro considerano l’unica verità possibile. Se diventassero inclusivi e democratici perderebbero l’identità e la ragion d’essere.

L’ostilità verso le libertà e i diritti delle donne fa parte dell’identità dei gruppi fondamentalisti, che non possono rinunciarvi perché vorrebbe dire rinunciare alla loro identità. Per questo non è fattibile trattare con i talebani, bisogna semplicemente sconfiggerli, eliminare la loro ideologia.

Il fanatismo religioso, la convinzione di essere depositari della parola di dio, è del resto ciò che compensa il popolo dei sacrifici e li persuade ad accettare la sua povertà economica e culturale: non hanno niente ma si sentono privilegiati per il loro rapporto con dio.

Perché cambi questa mentalità è necessario quindi fare una battaglia culturale, che contrasti l’ignoranza presente soprattutto nelle zone più remote e isolate e renda le persone consapevoli della propria dignità e dei propri diritti contro una schiavitù che appare inevitabile.

È ciò che fanno le attiviste di Rawa, che da anni lavorano in questo senso soprattutto con le donne, che sono le più oppresse dalla ideologia patriarcale e che stanno resistendo tutti i giorni nella speranza di creare un consenso popolare capace di ribellarsi ai talebani e rovesciarli.

Così come non si può esportare la democrazia, come pretendevano di fare gli Usa e gli alleati con l’invasione dell’Afghanistan conclusasi con il ritorno dei talebani, perché è solo il popolo che può conquistarla in maniera duratura agendo in prima persona, così adesso è solo il popolo che può decidere di porre fine a questo regime che li opprime.

Noi dobbiamo sostenere le forze democratiche all’interno del paese. A loro, alle donne, ai gruppi e alle organizzazioni che lavorano lì per creare una cultura e una resistenza che contrasti l’ideologia talebana nel profondo, deve andare il sostegno internazionale. Non solo con azioni politiche direttamente rivolte a ciò ma prima ancora con aiuti concreti alla popolazione per far fronte ai bisogni primari che la crisi umanitaria ha reso impellenti. A patto che il sostegno umanitario non passi attraverso le mani dei talebani stessi, che lo destinano a ben altri fini, ma attraverso canali indipendenti.

Appello di HAWCA per il Nuristan sferzato da forti nevicate

Nei giorni scorsi l’Afghanistan è stato sferzato da forti nevicate che hanno provocato frane e devastazione in 12 province, in un paese che è tra i più vulnerabili al mondo agli impatti dei cambiamenti climatici.

HAWCA, organizzazione afghana sostenuta da CISDA,  ci segnala che nella provincia del Nuristan un numero considerevole di case sono state distrutte, provocando oltre 40 morti e numerosi feriti e lancia un appello per sostenere la popolazione colpita.

Appello di HAWCA per il Nuristan

A causa della forte nevicata le strade sono chiuse, rendendo impossibile l’accesso alle zone residenziali. Molti uomini, donne e bambini sono intrappolati e hanno urgente bisogno di assistenza umanitaria.

Purtroppo, tra le persone colpite ci sono diverse famiglie di amici e colleghi con cui abbiamo collaborato in passato. Richiedono aiuto e sostegno immediati.

La popolazione del Nuristan sopporta sempre inverni rigidi e ha una difficile situazione economica, con trasporti limitati. Le donne sopportano un peso lavorativo maggiore in questi settori senza adeguati diritti umani o compensi.

In tali circostanze, richiedono maggiore attenzione e aiuti umanitari, inclusi cibo, acqua, vestiti, articoli per l’igiene, medicinali e assistenza medica. Le persone, soprattutto donne e bambini hanno bisogno di assistenza ed empatia. L’attuale governo non ha alleviato le difficoltà affrontate dalle donne, e quelle senza tutori maschi hanno difficoltà ad accedere alla limitata assistenza disponibile. Il team HAWCA richiede il tuo aiuto per aiutarci a fornire aiuto alla nostra gente, in particolare donne e bambini, e ad alleviare le loro infinite sofferenze.

DONA ORA PER SOSTENERE LA POPOLAZIONE DEL NURISTAN

COORDINAMENTO ITALIANO SOSTEGNO DONNE AFGHANE ETS (C.I.S.D.A)

BANCA POPOLARE ETICA – Filiale di Milano

IBAN: IT74Y0501801600000011136660