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Gender apartheid: il gap del diritto internazionale

Apartheid di genere è un espressione sempre più utilizzata per descrivere l’oppressione sistematica che le donne subiscono in Paesi governati da regimi fondamentalisti. Tuttavia, a differenza di altri crimini riconosciuti dal diritto internazionale, non esiste ancora una convenzione specifica che definisca e sanzioni questa forma di discriminazione come crimine contro l’umanità. È quindi necessaria la creazione di un trattato che stabilisca standard internazionali per la giustizia di genere, riconoscendo ufficialmente il Gender Apartheid.

L’apartheid di genere, analogamente a quello razziale, si fonda su un sistema strutturato e sistematico di discriminazione, in cui una parte della popolazione, in questo caso donne ma anche la comunità Lgbtqia+, viene emarginata, privata dei propri diritti fondamentali e relegata a una posizione subordinata nella società. Si tratta di un meccanismo di potere che non si limita a episodi isolati di ingiustizia, ma si manifesta attraverso leggi, politiche e pratiche istituzionali che normalizzano la disuguaglianza e ne garantiscono la perpetuazione.

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“Stop apartheid di genere”, presentata la petizione per le donne afghane

“Stop fondamentalismi, stop apartheid di genere”. CISDA , Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, ha consegnato al governo italiano i risultati della petizione che chiede il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità, il non riconoscimento del regime talebano, il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche.

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Comunicato – Il governo italiano si impegni contro l’Apartheid di genere

Le notizie di guerra e le preoccupazioni che riempiono i media in questo periodo concorrono a far sembrare ancora più lontano l’Afghanistan e più invisibili le donne sottoposte all’apartheid di genere imposto dai talebani.

Ma le donne afghane non hanno mai smesso di resistere coraggiosamente contro le farneticanti imposizioni di quel governo fondamentalista, non perdendo la speranza nonostante la progressiva completa chiusura di ogni spazio di vita, inventando sempre nuovi modi di aggirare le leggi per sfamare le loro famiglie, studiando di nascosto e leggendo insieme nel chiuso delle loro case e online, continuando a farsi belle sotto il burqa e, più semplicemente, rimanendo in vita nonostante tutti i tentativi di annientarle.

Sebbene i diritti delle donne e delle ragazze afghane siano sempre più esclusi dai problemi che contano per i governi e le istituzioni internazionali – a maggior ragione in questo periodo che vede piccole e grandi potenze impegnate a far diventare normalità quel regime repressivo e violento – alcuni segnali positivi ci sono.

Infatti, oltre ai movimenti democratici e per i diritti umani, sono ormai moltissime le istituzioni internazionali che riconoscono che in Afghanistan è in atto un vero e proprio sistema di apartheid di genere, e alcuni Stati hanno intrapreso azioni per denunciare quel regime ai tribunali internazionali per il mancato rispetto dei trattati che regolano i diritti umani riconosciuti universalmente e dallo stesso Afghanistan.

Perciò crediamo sia doveroso pretendere che anche il nostro governo si impegni in questa direzione, perché lo Stato italiano ha sottoscritto insieme a  molti altri paesi diverse convenzioni internazionali a tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne: la convenzione ONU del 1979 sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne ( CEDAW), il patto internazionale ONU relativo ai diritti civili e politici del 1966, la convenzione europea del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, atti internazionali che pongono a carico dello Stato italiano obblighi a cui non può sottrarsi di fronte alle gravissime violazioni subite dalle donne a livello internazionale.

Il CISDA sollecita quindi con urgenza il governo italiano a un impegno concreto su tutti i fronti istituzionali affinché tali principi siano rispettati, in particolare:

  • negando il riconoscimento di diritto e di fatto al governo fondamentalista dei talebani
  • riconoscendo e denunciando che in Afghanistan è in atto un vero e proprio regime di Apartheid di genere
  • sostenendo l’introduzione del crimine di apartheid di genere nella Convenzione per i crimini contro l’umanità in discussione all’ONU
  • associandosi agli Stati che hanno denunciato i talebani e il loro governo ai Tribunali internazionali
  • impedendo l’agibilità politica ai talebani nei consessi internazionali

Il giorno 8 aprile 2025 il Cisda presenterà una PETIZIONE rivolta al governo con queste richieste attraverso una conferenza stampa in Parlamento (h 13 – Sala Stampa della Camera dei Deputati – Via della Missione 4, Roma), a cui seguirà nei giorni seguenti la consegna delle firme raccolte. 

Interverranno Laura Guercio, giurista del Cisda, Belqis Roshan, senatrice afghana in esilio, Morena Terraschi dell’ANPI provinciale di Roma e le parlamentari rappresentanti di diversi partiti che si sono impegnate a sostenerla.

Nel pomeriggio, sempre a Roma, la petizione sarà presentata al mondo dell’attivismo e della solidarietà in un incontro aperto a tutti dove interverranno rappresentanti di associazioni e di ong con testimonianze e opinioni. Ecco gli estremi dell’appuntamento:

8 aprile ore 17:30

Polo Civico Esquilino in via Galilei 57 – Roma

Hanno confermato la loro partecipazione oltre che la dott.sa Laura Guercio e Belqis Roshan, anche l’attivista curdo-iraniana Mayswon Majidi, la pastora metodista Mirella Manocchio e Lorena Di Lorenzo dell’associazione Binario 15.

Speriamo che questi incontri siano occasioni di sensibilizzazione e conoscenza sul tema dell’apartheid di genere, che non riguarda solo l’Afghanistan ma invece, direttamente o in modo meno esplicito, anche le donne di molti altri Paesi, perché sempre più frequentemente i diritti delle donne sono calpestati da leggi fondamentaliste.

La consegna della petizione non sarà la conclusione della campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI.

Le nostre iniziative per i diritti delle donne afghane e contro l’apartheid di genere continueranno in diverse forme e con l’appoggio della rete di associazioni impegnate con noi a livello nazionale e internazionale.

Afghanistan. Dalla lama della “democrazia statunitense”, alla decapitazione islamista

L’articolo è stato pubblicato su Confronti, marzo 2025

Il numero di marzo è dedicato alle donne, protagoniste assolute di queste pagine. In apertura Enrico Campofreda ha intervistato l’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) che denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi

L’attivista Shaqiba della Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa) denuncia il drammatico peggioramento della condizione femminile sotto il regime talebano. Dopo le prime proteste represse con violenza, le donne afghane sono costrette a manifestare in clandestinità, mentre il Paese è diventato una prigione tra restrizioni, esclusione dall’istruzione e dal lavoro, matrimoni forzati e abusi.

Il contesto attuale in Afghanistan, dopo il ritorno al potere dei talebani nell’agosto 2021, è segnato da una drammatica regressione nei diritti delle donne. Le manifestazioni di protesta femminili, che nelle prime settimane dall’ascesa del regime erano vigorose, sono state brutalmente soffocate con arresti, torture e violenze sessuali. Nonostante il regime talebano abbia cercato di rendere impossibile ogni forma di dissenso pubblico, molte attiviste continuano a lottare in modo clandestino, usando i social media come strumento di denuncia.
La situazione delle donne afghane si è progressivamente deteriorata tanto che, a febbraio scorso, il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, ha annunciato di aver richiesto due mandati d’arresto per il leader supremo dei Talebani, Haibatullah Akhundzada, e il presidente della Corte Suprema afghana, Abdul Hakim Haqqani, accusati di crimini contro l’umanità per persecuzione di genere.

In questa situazione abbiamo intervistato Shaqiba, un’attivista di Revolutionary Association of the Women of Afghanistan (Rawa), che ha recentemente intrapreso un tour in Europa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla drammaticità della condizione femminile nell’Afghanistan talebano. In Italia, Shaqiba è stata ospite del Coordinamento italiano sostegno donne afghane (Cisda), un’associazione che da oltre venticinque anni si batte al fianco delle donne afghane, cercando di portare alla luce le atrocità perpetrate dal regime talebano e sostenendo le attiviste che, a rischio della propria vita, continuano a lottare per i diritti delle donne in Afghanistan.

Dopo le combattive manifestazioni femminili nelle prime settimane del secondo Emirato, le proteste di strada sono ormai impossibili?
Subito dopo l’ascesa al potere dei talebani nell’ago- sto 2021 le donne di diverse aree afghane sono scese in piazza per opporre
Molte di loro sono state arrestate, imprigionate, torturate e, in alcuni casi, sono stati documentati rapporti di stupro e molestie sessuali. I talebani hanno storicamente usato vari mezzi per control- lare e imporre il silenzio fra le persone che catturano o rilasciano.
La strategia di costringere i prigionieri a firmare accordi sotto minaccia di morte o detenzione è una tattica comune per reprimere il dissenso e mantenere il controllo tramite l’intimidazione. Tuttavia, è difficile documentare queste violazioni, poiché i sopravvissuti temono ritorsioni. Alcune donne hanno denunciato crimini durante la detenzione, ma la repressione e le minacce hanno spinto molte a manifestare in spazi chiusi. Le proteste si spostano online, dove le attiviste esprimono il loro dissenso contro un regime misogino. Non c’è nessuna accettazione del sistema, ribadiamo che la ragione per cui le attiviste hanno ridotto le proteste di strada è la coercizione.

Da cosa sono oppresse oggi le donne afghane?
L’Afghanistan è diventato una prigione per le donne, con restrizioni sempre più severe. La disoccupazione, la povertà e le pressioni psicologi- che portano a un aumento dei suicidi femminili. Ogni giorno emergono crimini gravi come esecuzioni pubbliche, femminicidi, matrimoni forzati e vendite di ragazze per miseria. Le studentesse – come nel caso dell’Università Kankor – sono escluse dagli esami di ammissione, le docenti licenziate e gli istituti medici chiusi. Le donne non possono viaggiare senza un accompagnatore maschio [mahram] e le Ong ancora presenti sul territorio sono costrette a rinunciare alle dipendenti femminili. Negli ultimi venticinque anni le donne afghane hanno sofferto sotto la lama della cosiddetta democrazia sostenuta dagli Stati Uniti, ora sono decapitate sotto la maschera dell’Islam.

In che modo, rispetto ai governi precedenti, la protezione delle donne è peggiorata?
Prima del ritorno dei talebani, le donne vivevano già in condizioni precarie. Molti distretti erano sotto il controllo dei fondamentalisti, sebbene go- vernasse Ashraf Ghani e con gli esecutivi sostenuti dagli Stati Uniti. Nell’ottobre 2015, Rukhshana, una giovane di Ghor, è stata pubblicamente lapidata a morte per essere “presumibilmente” fuggita da casa. A quell’epoca i funzionari governativi hanno violentato decine di donne. Auto-immolazione, taglio del naso e delle orecchie alle donne dilaga- vano. A Mazar-e-Sharif una bimba di nove anni venne scambiata con un cane. Parecchi conosco- no la tragica vicenda di Farkhunda che nel marzo 2015 fu assassinata e bruciata a pochi chilometri dal Palazzo presidenziale. La violenza, tra cui suicidi, mutilazioni e matrimoni forzati, era diffusa, mentre i media affermavano che la condizione del- le donne migliorava. È vero che la Costituzione afghana dell’epoca prevedeva la parità fra i generi e che la legge sull’eliminazione della violenza contro le donne è statale, ma questa norma rimaneva solo un pezzo di carta inapplicato e inutilizzato nei tribunali. Tutto ciò accadeva perché diversi jihadisti [signori della guerra come Gulbuddin Hekmatyar, Karim Khalili, Abdul Rashid Dostum] facevano parte dei governi Karzai e Ghani. Al loro fondamentalismo è stato dato un falso volto democratico proprio dalla linea di condotta statunitense. La corruzione e la presenza di jihadisti al potere hanno peggiorato la situazione, culminando nel crollo del governo e nel ritorno del regime tale- bano, che ha eliminato le poche libertà rimaste. Vedove e donne divorziate ora affrontano la stessa sorte delle altre afghane. Le donne che erano sta- te precedentemente separate dai loro mariti sono state costrette a rientrare in casa e le Corti talebane emettono sentenze sulla base della Shari’a.

LE DONNE ERANO GIÀ IN UNA SITUAZIONE PRECARIA, MA ORA L’AFGHANISTAN È DIVENTATO UNA GRANDE PRIGIONE PER LE DONNE.

Cosa riesce a fare la rete di Rawa?
Rawa continua a essere attiva in campo politico, sociale e umanitario. Ora opera in clandestinità e perlopiù organizza corsi domestici di alfabetizza- zione, inglese, scienze e matematica per ragazze in età scolare e donne analfabete. Gestisce inoltre istituti per bambini in aree remote e offre assistenza sanitaria tramite una squadra mobile che interviene nei momenti di crisi, come terremoti, inondazioni e altre calamità. Tra le attività umanitarie figura anche la distribuzione di pacchi alimentari a famiglie povere e disoccupati durante le emergenze. L’obiettivo principale è aumentare la consapevolezza politica di donne e giovani, mobilitandoli e organizzandoli. Coordina proteste contro il regime dei taliban celebrando anniversari come l’8 marzo o il martirio di Meena Keshwar Kamal [fondatrice di Rawa assassinata nel novembre 1987]. Attraverso la sua rivista e il sito web, diffonde notizie sulla situazione interna, pubblica articoli analitici sul ruolo degli Stati Uniti nel sostenere il fondamentalismo e riporta le attività dei suoi membri in tutto il mondo. Per garantire la sicurezza delle attiviste, le iniziative vengono pubblicizzate con discrezione.

Le attiviste di Rawa possono ancora agire all’interno del Paese o sono costrette a vivere all’estero?
Le attiviste possono muoversi in diverse aree del Paese, ma devono prestare grande attenzione alla sicurezza per evitare di essere individuate e arrestate. Nonostante le difficoltà, Rawa ha scelto di rimanere in Afghanistan, accanto a chi ha perso tutto. Lasciare il Paese e vivere all’estero sarebbe l’opzione più semplice, ma il nostro impegno è essere un punto di riferimento per la popolazione, contribuendo alla sensibilizzazione e alla lotta per un futuro migliore.

Perché molti intellettuali e giovani hanno lasciato il Paese e non hanno scelto la resistenza?
Molti intellettuali e persone istruite, che avevano lavorato in importanti istituzioni durante il ventennio dei governi sostenuti dagli Stati Uniti, sono stati successivamente evacuati dopo la riconquista talebana di Kabul. Tuttavia, non hanno pensato alla resistenza, mancando di senso di responsabilità e patriottismo. Molti giovani, spinti dalla mancanza di lavoro, hanno lasciato l’Afghanistan e continuano a farlo, con diverse famiglie che inviano membri all’estero per mantenere con le rimesse i parenti in loco. Ma la scelta di rimanere in Afghanistan e lottare non è limitata al sesso o all’età. Abbiamo visto che tante donne si sono ribellate e hanno combattuto contro il governo talebano più degli uomini. Nelle rischiose circostanze delle proteste gli uomini sono facilmente identificabili, loro non possono celarsi dietro il burqa… Se arrestati rischiano più facilmente la tortura. Ed è il motivo per cui alcune contestazioni maschili restano virtuali, utilizzando i social media.

La crescente precarietà dipende anche dal calo del sostegno esterno e dall’intensificarsi della crisi in Medio Oriente?
Negli ultimi vent’anni di occupazione Nato, in- genti fondi sono arrivati in Afghanistan, ma anziché essere destinati a progetti strutturali come infrastrutture e trasformazioni durature, sono stati sprecati in corruzione e ruberie politiche. Traditori come Abd al-Rasul Sayyaf, Yunus Qanuni, Muhammad Mohaqiq, Karim Khalili e membri dell’Alleanza del Nord che erano al potere, accumulavano grandi ricchezze, mentre la maggioranza della gente diventava sempre più povera. Con l’ascesa dei talebani, oltre alla cacciata delle donne da lavori pubblici e privati, molte aziende e istituzioni hanno chiuso, peggiorando ulteriormente l’economia. Sebbene i talebani ricevano milioni di dollari settimanali da Stati Uniti e altri Paesi, grazie anche al traffico di oppio e alla cessione di risorse minerarie, è la popolazione a pagare il prezzo, soffrendo sotto un regime oppressivo. Nonostante le gravi condizioni, l’attenzione internazionale è di- minuita, e le crisi umanitarie in Afghanistan vengono raramente riportate dai media globali.

Gli hazara, oltre agli attacchi dell’Isis-K, sono vittime di arresti, privazioni e discriminazioni da parte dei talebani. È possibile fermare questo razzismo?
Sostenendo i fondamentalisti alla Sayyaf, Hekmatyar, Rabbani, Massoud, Mohaqiq, Khalili e i taliban, gli Stati Uniti hanno contribuito a favorire le divisioni etniche e settarie in Afghanistan. Questo ha rappresentato uno dei ruoli distruttivi di Usa, Pakistan, Iran nel dividere le etnie interne e incitarle all’odio. La discriminazione religiosa è stata prevalente durante i quarant’anni di conflitto. Il razzismo, la discriminazione, la tortura e l’uccisione delle minoranze possono essere fermati solo se gli americani e i loro alleati smettono di finanziare e sostenere gruppi terroristici. Nei Paesi in guerra le discriminazioni razziale e religiosa sono fomentate per impedire l’unità delle persone, assicurando che i gruppi etnici e confessionali si combattano e i governi-fantoccio traggano vantaggio dalle divisioni. Il razzismo e la discrimina- zione possono essere sradicati solo con l’istituzione d’un sistema democratico secolarista.

Esistono in Afghanistan progetti politici e leader in grado di allontanare il Paese dal fondamentalismo e dal tribalismo?
Alcune organizzazioni politiche e sociali mira- no a coinvolgere i cittadini contro le limitazioni dell’estremismo religioso e dell’esasperazione etnica. Personalmente cito il movimento Rawa e il Partito della solidarietà, entrambi s’oppongono ai fondamentalismi e li combattono senza timori e compromessi

Comunicato Stampa – 8 marzo 2025: è tempo di liberarsi dal patriarcato in tutto il mondo

Il secolo corrente deve essere il tempo in cui le donne, in ogni parte del mondo, prendono in mano le loro sorti e lottano insieme per liberarsi dal patriarcato.

Noi donne del CISDA che da oltre 25 anni lavoriamo a fianco delle donne afghane di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan), sappiamo che la loro lotta non è altro che un tassello delle lotte delle donne che in ogni angolo del pianeta si ribellano all’oppressione e al patriarcato in tutte le sue forme.

Sotto il regime dei fondamentalisti talebani le donne afghane sono oggi tra le più oppresse al mondo: non possono studiare, lavorare, uscire di casa sole, e quando escono devono coprire il proprio corpo da capo a piedi. Un vero e proprio apartheid di genere che ha l’obiettivo di annientare sistematicamente le donne e la loro volontà di lotta, che è un esempio di coraggio e resistenza.

Ovunque il fondamentalismo crea apartheid di genere. L’Afghanistan, a partire dalla fine degli anni ’70, ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti per sostenere la propria egemonia coloniale.

Noi lottiamo con loro, ma sappiamo anche che fino a che ci sarà anche una sola donna schiava e oppressa nessuna sarà libera.

Viviamo un tempo disperante, in cui il sistema capitalista e patriarcale sta facendo passare come inevitabili militarizzazione della società, guerre, cambiamenti climatici, disumanizzazione e genocidio di interi popoli, dei migranti e delle persone razializzate. Il fascismo, ormai dilagante in tutto il mondo occidentale e non solo, ha come primo target le donne, a cui viene chiesto di ridurre il proprio ruolo a quello di fattrici e forza di lavoro gratuita o sfruttata e sottopagata.

Questa disperazione, soprattutto per noi donne, deve trasformarsi in una lotta comune contro la violenza, il femminicidio, il fascismo, le politiche genocide e le guerre, tutti tasselli di un medesimo disegno di un sistema in profonda crisi.

 

Contro l’apartheid di genere in Afghanistan e ovunque nel mondo.

Contro tutti i fondamentalismi che imprigionano le donne