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CISDA – Stop fondamentalismi. Stop Apartheid di genere

L’articolo è stato pubblicato su ANPI Oggi e Domani del dicembre 2024

Dopo quasi tre mesi è terminato il lungo periodo in Italia di Shakiba, militante di Rawa (Associazione Rivoluzionaria Donne Afghane), sostenuta da Cisda dal lontano 1999

La sua presenza in molteplici iniziative sul territorio, con ampia partecipazione ovunque, è stata molto preziosa per poter ascoltare dalla sua voce come vivono le donne in questo momento in Afghanistan ma soprattutto come le attiviste di Rawa, che sono rimaste nel paese, hanno deciso di continuare la lotta politica e di resistenza al regime talebano misogino e fondamentalista.

Sentire dalla sua voce cosa significa lottare e resistere, anche dalla clandestinità, in quel paese è stato molto importante; manifestare è molto pericoloso ma le donne non si fermano, per tutte loro può voler dire essere arrestate, torturate e avolte anche uccise come già successo.

Le costrizioni che i talebani hanno imposto alle donne sono molteplici; non possono studiare, non possono lavorare, non possono uscire sole ma devono essere accompagnate da un uomo, non possono far sentire la loro voce, le donne indigenti arrestate per aver mendicato in base alle nuove e draconiane leggi dei talebani hanno parlato di stupri e percosse “brutali” subite durante la detenzione; insomma qualsiasi cosa è loro preclusa, vivono in un regime di apartheid dimenticate un po’ da tutti ma non da chi vuole fare affari con i talebani a scapito dei diritti umani e riconoscendo così di fatto quel regime

Il paese vive una forte crisi umanitaria, non c’è lavoro, non ci sono soldi, si vive in uno stato di miseria, le inondazioni di quest’autunno hanno aggravato la situazione di interi villaggi che,  governate da talebani, non hanno ricevuto aiuti.

Noi continuiamo a sostenerle sia politicamente che con progetti che loro stesse hanno avviato;   attraverso raccolte fondi e progetti riusciamo ad inviare danaro per le loro attività, dalle scuole segrete per ragazze e donne, a piccoli shelter ecc. Aggiornamenti su tutto questo su www.cisda.it

Ora che Shakiba è tornata in Afghanistan spetta a noi di Cisda continuare ad essere la loro voce e tenere alta l’attenzione sulle condizione di apartheid che stanno vivendo le donne in quel paese

Cosa abbiamo fatto in questo ultimo periodo

Con la rete di associazioni con la quale collaboriamo in Italia e in Europa, abbiamo lanciato una campagna “STOP FONDAMENTALISMI STOP APARTHEID DI GENEREche vuole spingere il nostro Governo – in quanto membro delle Nazioni Unite e di Istituzioni Internazionali – a prendere posizione contro il governo di fatto dei Talebani e a sostenere la proposta di codificazione del reato di Gender Apartheid nei Trattati Internazionali.

Come prima azione della Campagna abbiamo avviato una PETIZIONE in occasione della giornata mondiale per i diritti umani: potete firmarla direttamente sul sito Cisda, sia individualmente che come Associazione, Enti, Partiti ecc. aiutandoci a sostenerla e a diffonderla.

Il CISDA, in collaborazione con alcune giuriste, ha inoltre redatto e inviato una proposta di codificazione del reato di “apartheid di genere” come contributo della società civile ai lavori in corso della Sesta Commissione giuridica dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, per un recepimento nella Convenzione sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’Umanità in fase di discussione da parte dell’ONU.

«Vi racconto come vivono, davvero, le donne in Afghanistan»

L’articolo è stato pubblicato sul Corriere del Ticino il 25 dicembre 2024

Shakiba, membro di RAWA (associazione che a Kabul lotta per i diritti umani), ci parla di un Paese caduto nel caos più totale – «Cosa potete fare voi che vivete in Occidente? Sensibilizzare l’opinione pubblica sul modo in cui i talebani sottomettono il popolo afghano»

Quando le chiediamo di raccontarci com’è cambiata la vita del popolo afghano da quel 15 agosto 2021, la faccia di Shakiba si fa cupa. «La caduta di Kabul». Basta nominarla e subito quel sorriso timido e cortese che, fino a pochi istanti prima, le aveva illuminato il viso, si spegne. Sospira, profondamente.

Poi inizia a raccontarci di quell’incubo senza risveglio che è la quotidianità della popolazione afghana. «Negli ultimi tre anni la situazione è divenuta catastrofica. Gli Stati Uniti hanno consegnato il governo dell’Afghanistan a quegli stessi talebani che dicevano di star combattendo, e dei quali ora vogliono dipingere una versione più moderata». Ma non c’è nulla di moderato nelle politiche dei talebani, sempre più violenti – anzi – nei confronti della popolazione, specialmente femminile. Lo scorso mese di agosto, per fare un esempio, i talebani hanno imposto una nuova legge con la quale vietare alle donne di parlare in pubblico: solo una delle disumane regole, contrarie ai diritti umani, volute dal gruppo fondamentalista.

«I talebani sono fondamentalisti. Sono cresciuti nelle madrase (scuole islamiche, ndr) afghane con la mentalità del terrorismo e della lotta alle donne». Donne alle quali, per fare un altro esempio, non permettono di studiare. Donne che oggi sono costrette a nascondersi per aver accesso all’istruzione. Donne che oggi, nella società afghana, hanno perso ogni diritto. Donne come Shakiba, che oggi si racconta, protetta dall’anonimato, mostrando al mondo che cosa significa, davvero, vivere in Afghanistan oggi. Sotto il regime dei talebani, in un Paese senza libertà.

La voce di RAWA

Con Shakiba ci troviamo negli stabili dell’USI: è qui per raccontare agli studenti – in un paio di corsi proposti dall’ateneo – la propria storia. Non è la prima volta che lo fa: da qualche mese, con il sostegno del CISDA (Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane), gira varie strutture fra Italia e Germania. Poi tornerà in Afghanistan, a combattere per i diritti delle donne e non solo. Lei fa parte di RAWA (Revolutionary Association of the Women of Afghanistan): un’associazione «clandestina» – fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal – che da più di quarant’anni è attiva in ambito politico, sociale e umanitario a sostegno di tutta la popolazione afghana. È per questo che a noi si presenta con uno pseudonimo, chiedendo di non essere fotografata in viso: «Se queste informazioni dovessero arrivare ai talebani, al mio ritorno sarei imprigionata».

Shakiba ci racconta di RAWA: «I nostri obiettivi e le nostre idee si fondano su principi come la libertà, la democrazia e l’indipendenza, ma anche su un governo laico. Per queste ragioni, siamo sempre stati visti come “clandestini”, e siamo sempre sotto continua minaccia», ci racconta. Anche con Ashraf Ghani al potere, il presidente che fu poi rovesciato dai talebani, le donne di RAWA si sono opposte al governo e alle sue politiche «sbagliate». «Manifestavamo e alzavamo la voce attraverso i media, il nostro sito web e la nostra rivista. Siamo state noi a sensibilizzare l’opinione pubblica, mostrando la reale situazione dell’Afghanistan in quel periodo». Superficialmente, racconta, tutto sembrava andare bene. Ma anche prima della caduta di Kabul, la situazione in Afghanistan era tutt’altro che idilliaca. «Alle donne era permesso andare a scuola e lavorare. Ma l’Afghanistan stava già diventando un centro di terrorismo». Migliaia e migliaia le vittime di una guerra mai sopita, mentre i talebani crescevano sempre più forti, finanziati da un mercato illegale, quello dell’oppio, da loro controllato. Al momento della caduta di Kabul, l’80% della produzione mondiale di oppio mondiale passava dall’Afghanistan. «La gente, oggi, conosce ancor meno la reale situazione dell’Afghanistan. I media non descrivono questo posto per quello che è davvero, parlano di turismo».

Ed è qui che entra in gioco RAWA. «È nostro dovere parlare e fare pressioni sui governi in tutto il mondo, per non riconoscere il governo dei talebani, per non finanziarli e non sostenerli». Come? Attraverso i social media. Sì, la protesta e l’opposizione, a poco a poco, si è spostata soprattutto nel mondo virtuale. Prima, quando i talebani erano appena tornati al potere, Kabul era piena di persone in protesta, tra le quali molte donne. Alzavano la voce, si facevano sentire. Ma mese dopo mese, le piazze si sono svuotate. «Oggi sono pochi i gruppi che scendono ancora per le strade. Dopotutto, è risaputo: i talebani hanno il potere, e lo usano anche e soprattutto attraverso le armi, con cui disperdono le persone che manifestano». Se non sono pistole, racconta Shakiba, sono enormi cisterne d’acqua, rovesciate sui manifestanti. Ma c’è di molto peggio. «Protestare è molto pericoloso: le donne che manifestano spesso vengono imprigionate, torturate e violentate nelle carceri». Di qui lo sviluppo social: «Ormai, chi sceglie di manifestare lo fa attraverso i social media. È il modo più semplice, al momento, per far sentire la propria voce e per informare e sensibilizzare le persone, mostrando quella che è la reale situazione dell’Afghanistan». C’è chi scrive poesie, chi saggi. Chi rilascia dichiarazioni, chi propone slogan. Con la speranza che le proprie parole arrivino il più lontano possibile.

«Il lavaggio del cervello»

Fuori dal mondo social, però, la situazione è sempre più fuori controllo. «I talebani cercano di fare il lavaggio del cervello a tutti nelle madrase. Ce ne sono più di 17.000 in tutto il Paese e continuano ad aumentare, giorno dopo giorno. In ogni strada se ne trovano tre, quattro, cinque. Vogliono rendere i bambini di oggi futuri talebani e futuri terroristi. Non è un caso che le madrase siano uno dei pochi posti in cui anche le donne sono ammesse, senza alcun divieto».

Se l’unico studio ammesso è quello religioso, come crescere la società che verrà? Chi guiderà il Paese senza competenze? «Tutto ciò è molto pericoloso per il futuro dell’Afghanistan. Per questo RAWA ha deciso di fondare scuole clandestine nelle quali insegniamo scienze e matematica, ma anche storia e materie sociali, o come usare un computer».

Sono scuole segrete, dove si convive, ogni giorno, con la paura di essere scoperti. «Abbiamo camuffato le nostre scuole, facciamo credere ai talebani che si tratti di madrase, quando in realtà ospitano corsi a domicilio per ragazze e donne, alle quali non insegniamo solo materie scolastiche. Cerchiamo di sensibilizzarle anche sui loro diritti, sulle questioni sanitarie e di diverso genere che pensiamo siano importanti per loro. Facciamo il possibile per non farle vivere nell’ignoranza, sotto queste leggi medievali».

In tutto questo, le donne, però, non sono sole. «Le nostre opinioni sono incoraggiate da molte persone, perché la maggior parte del popolo è stufa del potere del fondamentalismo e non vuole più vivere sotto il controllo di un governo così selvaggio, criminale», confessa Shakiba. «È anche per questo che RAWA è attiva da più di quarant’anni: la gente è al nostro fianco. Le persone sono la ragione per cui siamo state in grado, per tutto questo tempo, di lottare e combattere».

Chi sceglie la fuga

Ma in Afghanistan, a non funzionare, non sono solamente i diritti umani. Quando a così ampie fette di popolazione non è consentito lavorare, portare tutti i giorni il cibo in tavola è, quantomeno, difficile. «Un altro grosso problema è quello della disoccupazione. La maggior parte delle persone ha perso il lavoro e oggi ci troviamo di fronte a una grande percentuale di disoccupati. Negli ultimi tre anni, i talebani hanno rimosso le persone dagli uffici governativi, mettendo a capo i loro uomini». Grandi percentuali della popolazione, insomma, vivono in povertà. Una condizione che mette le donne, specialmente le vedove, in una situazione di profonda crisi nella quale sfamare i propri figli è divenuta una lotta quotidiana.

Come non pensare, allora, alla fuga? Tre anni fa, quando gli americani se ne stavano andando, avevano sconvolto il mondo intero le immagini di afghani che, terrorizzati dal ritorno dei talebani, si aggrappavano ai carrelli degli aerei in procinto di lasciare il Paese. Alcuni, con la forza che solo la disperazione può dare, rimanevano avvinghiati finché i velivoli si sollevavano da terra: pochi secondi dopo, sconfitti dalla fisica, cadevano nel vuoto, verso la propria morte.

Oggi, la situazione non è molto diversa. Alcuni, ancora, provano a lasciare l’Afghanistan. Ma come? «Scappare è molto difficile. Spesso vengono utilizzate le vie del contrabbando, ma si tratta di viaggi estremamente rischiosi. Tanti giovani, soprattutto uomini, percorrono queste strade diretti verso il Pakistan, l’Iran, la Turchia e la Grecia, oppure verso i Paesi occidentali, con il solo scopo di trovare un posto sicuro dove vivere. Migliaia, però, perdono la vita nel tentativo di lasciare l’Afghanistan. In ottobre, più di 250 giovani afghani sono stati uccisi a colpi di pistola al confine tra Iran e Afghanistan».

Andarsene, evidenzia Shakiba, non è solo rischioso: è anche costoso, e burocraticamente complesso. «Solo una piccolissima percentuale di persone riesce a ottenere un visto, spesso grazie all’aiuto di ONG o associazioni in cui magari si ha lavorato in passato. E poi ci sono Paesi che non concedono visti agli afghani, come la Turchia e l’India. L’unico modo per riuscire a scappare molte volte, è quindi il contrabbando. Ma questa, chiaramente, è una situazione molto pericolosa».

La solidarietà del popolo, l’indifferenza dei governi

In Afghanistan c’è amarezza per l’operato delle Nazioni Unite. Fra fine giugno e inizio luglio 2024 – ne avevamo parlato qui – i vertici ONU avevano convocato la terza conferenza di Doha (voluta per stabilire un approccio globale più coordinato e coerente sulla situazione in Afghanistan) piegandosi all’imposizione dei talebani, che quale condizione per la loro presenza chiedevano la rimozione dei diritti delle donne dalla lista dei temi trattati al summit. «A noi era ovvio fin dal primo giorno, fin da quel 15 agosto del 2021, che le Nazioni Unite stessero trattando con i talebani. Hanno consegnato loro il governo, senza alcuna lotta, senza alcuna resistenza», commenta amaramente Shakiba. «I documenti che l’ONU rilascia non servono a nulla. Bisogna fare dei passi concreti. Se l’obiettivo è davvero quello di aiutare il popolo afghano bisogna introdurre delle misure, e smettere di finanziare i talebani. Solo in questo modo la nostra situazione cambierà».

Un resoconto pubblicato a inizio anno dal SIGAR (Office of the Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction, organo del governo statunitense che si occupa di monitorare la ricostruzione dell’Afghanistan), mostra come i contanti statunitensi inviati a Kabul dall’ONU per sostenere le attività umanitarie nel Paese finiscano, spesso, sotto il controllo dei talebani, finanziandone le operazioni.

Quanto all’aiuto da parte degli Stati Uniti, Shakiba è disillusa. L’elezione di Trump come nuovo presidente, a suo dire, non cambierà le carte in tavola. «Per noi non cambierà nulla. Non importa se il presidente è una donna, un afrodiscendente, se è Donald Trump, Kamala Harris o Joe Biden. Chiunque salga al potere, negli Stati Uniti, deve seguire la stessa linea politica. E sebbene presidenti diversi possano prendere iniziative diverse per la propria nazione, la loro politica estera non cambia davvero». Nonostante da parte delle Nazioni Unite un aiuto concreto stenti ad arrivare, Shakiba riconosce le buone intenzioni del popolo, da tutto il mondo. «Quando pensiamo al sostegno che riceviamo, dividiamo sempre i governi dalla gente comune: i primi, a nostro avviso, si comportano in maniera crudele verso l’Afghanistan, mentre il popolo, che ama la libertà, è sempre stato accanto a noi». Anche se, chiaramente, con dei limiti.

«L’unica cosa che le persone, da ogni angolo del mondo, possono fare, è sensibilizzare l’opinione pubblica sulla reale situazione del nostro Paese, facendo pressione sui loro politici affinché non sostengano il governo dei talebani, non lo finanzino e non lo riconoscano. I cittadini dei Paesi europei e occidentali possono solo alzare la voce e stare vicino al popolo afghano, senza dimenticarlo». Giorno dopo giorno, l’Afghanistan si sente infatti sempre più abbandonato. Messo da parte. Vittima di un’immagine, quella di un Paese in mano a talebani “moderati” che non corrisponde alla verità. La verità di un Paese senza libertà.

“Stop fondamentalismi. Stop apartheid di genere”. La campagna del Cisda

“Apartheid di genere significa qualsiasi atto, politica, pratica o omissione che, in modo sistematico e istituzionalizzato, è commesso da un individuo, uno stato, un’organizzazione, un’entità o un gruppo, con lo scopo o l’effetto di stabilire, mantenere o perpetuare il dominio di un genere sull’altro, attraverso la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione o la discriminazione in ambito politico, economico, sociale, culturale, educativo, professionale o in qualsiasi altro ambito della vita pubblica e privata”. È questa la definizione per il crimine di apartheid di genere che il CISDA, con il supporto di un team di giuriste, ha elaborato e inviato direttamente, e attraverso la delegazione italiana, alla VI Commissione dell’ONU che sta lavorando all’elaborazione di un Trattato globale per la prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità.

È un lavoro complesso, sul quale l’ONU si sta confrontando da sei anni, ma alla fine del 2024, nonostante l’ostruzionismo di alcuni paesi, è stato delineato un percorso che, sebbene molto lungo dato che le negoziazioni vere e proprie sul Trattato sono previste nel 2028 e 2029, definisce una tempistica per le proposte che gli Stati membri e la società civile possono sottoporre alla Commissione.

La Campagna Stop Fondamentalismi – Stop Apartheid di Genere

Per sostenere il proprio contributo a questo processo, il CISDA, con la rete di associazioni con la quale collabora in Italia e in Europa, ha lanciato la Campagna STOP FONDAMENTALISMI – STOP APARTHEID DI GENERE, evidenziando la stretta connessione tra fondamentalismi e apartheid di genere. Nell’ambito di questa Campagna è stata aperta una raccolta firme per una Petizione con la quale si chiede Governo italiano di sostenere gli obiettivi di seguito sintetizzati e di farsene promotore presso le istituzioni internazionali:

  • Riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità(al pari dell’apartheid di razza) all’interno dei Trattati internazionali e che tale crimine viene applicato sistematicamente e istituzionalmente in Afghanistan.
  • Non riconoscimento, né giuridico né di fatto, del regime fondamentalista talebanosostenendo l’azione presa da alcuni Paesi di deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia Internazionale per violazioni della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne e quella di deferimento dell’Afghanistan per ulteriori indagini alla Corte Penale Internazionale sulle continue violazioni dei diritti delle donne compiute dai talebani.
  • Sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti; contestualmente negare la rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta.

Ma entriamo nel dettaglio di ciascuno di questi obiettivi e cerchiamo di capire perché sono così fortemente connessi.

Perché l’apartheid di genere è un crimine contro l’umanità

Prima di tutto bisogna ricordare che il concetto di “apartheid di genere” non è ancora codificato nel diritto internazionale come crimine in quanto il crimine di apartheid, come definito nello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, si concentra sulla discriminazione razziale.

Le violazioni dei diritti umani basate sul genere, come la violenza sessuale, lo stupro, la negazione dei diritti riproduttivi e la segregazione di genere hanno invece caratteristiche uniche distinte dalla discriminazione razziale e il loro riconoscimento come crimine consentirebbe di affrontare, a livello giuridico internazionale, le violazioni sistematiche che colpiscono ragazze, donne e individui non conformi al genere, come le persone LGBTQI+.

Nella definizione proposta dal CISDA, gli elementi chiave sono la segregazione istituzionalizzata, l’oppressione e la discriminazione, caratteristiche fondamentali dei regimi storici di apartheid, ma si sottolinea che tali atti possono essere commessi oltre da attori statali, anche da attori non statali, come gruppi organizzati. Si tratta di una precisazione importante che evidenzia il ruolo che gli attori non statali possono svolgere nel commettere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani. A tutto ciò si aggiunge l’inclusione dell’omissione come forma di condotta criminale, in cui le autorità non agiscono per prevenire o punire la discriminazione o la violenza di genere.

Importante è poi la definizione del “soggetto passivo” nella quale è compreso qualsiasi gruppo di persone identificate dal loro genere e gli individui non conformi al genere: una definizione fondamentale per estendere le protezioni oltre il tradizionale concetto binario uomo-donna e andare a perseguire la discriminazione e le azioni violente rivolte alle persone LGBTQI+.

Perché i fondamentalismi creano apartheid di genere

Il CISDA ha voluto collegare strettamente il concetto di “fondamentalismi” (il plurale non è un caso) a quello di apartheid di genere perché ritiene che la discriminazione e l’oppressione sulla base del genere della persona siano diretta conseguenza di un approccio fondamentalista alla società. Approccio che non riguarda esclusivamente l’Islam o le religioni in generale.

Ormai assuefatti ad associare il fondamentalismo all’Islam, dimentichiamo che il termine nasce da un movimento religioso protestante diffuso soprattutto negli Stati Uniti a fine ‘800, che, in opposizione al protestantesimo liberale e a tutte le tendenze razionalistiche e critiche, impone l’accettazione rigida e intransigente dei “fondamentali” del Cristianesimo. E per venire all’oggi, basti pensare ai movimenti estremisti cristiani antiabortisti per comprendere quanto il fondamentalismo non sia esclusiva peculiarità di alcune interpretazioni dell’Islam.

E non è un fenomeno circoscrivibile alla sola religione perché il termine fondamentalismo indica “l’atteggiamento di chi persegue un’interpretazione estremamente conservatrice e un’attuazione rigida e intransigente di una religione, un pensiero politico, scientifico, letterario ecc.”. Per questo CISDA ha scelto di utilizzare il plurale, perché vuole dire STOP a qualsiasi forma di fondamentalismo, sia esso religioso o politico o razziale o ideologico.

 

Concretamente la Campagna, e di conseguenza la Petizione, si focalizza sulla condanna al regime fondamentalista talebano, responsabile della soppressione dei più elementari diritti umani della popolazione civile, in particolare delle donne e degli individui LGBTQI+, frutto del deliberato proposito di tradurre in sistema di governo un’idea fondamentalista che ha come principale obiettivo l’annientamento sistematico e istituzionale delle donne.

L’Afghanistan è il Paese che rappresenta il caso più emblematico di “apartheid di genere”. Qui le donne non possono andare a scuola, lavorare, uscire da sole, frequentare parchi, giardini o bagni pubblici, mostrare il volto in pubblico, cantare, pregare ad alta voce e sono bandite dalla vita pubblica e sociale per rimanere segregate in casa.

Perché sostenere le forze antifondamentaliste, democratiche e progressiste dell’Afghanistan

Anche se in Afghanistan l’apartheid di genere è un crimine perpetrato quotidianamente, l’autodeterminazione della donna vede drammatiche limitazioni ovunque nel mondo, anche nel mondo occidentale. Per questo la condanna ai fondamentalismi va di pari passo con la promozione del valore della laicità, unico argine efficace alla barbarie.

Ed ecco che veniamo al terzo obiettivo indicato nella Petizione del CISDA: il sostegno alle forze afghane antifondamentaliste e democratiche non compromesse con i precedenti governi e i partiti fondamentalisti. Quello della laicità e dell’adesione ai principi democratici delle forze di opposizione a un regime assolutista e fondamentalista è un tema vitale che, in un momento in cui l’Afghanistan è ormai uscito dai radar dei media, è prepotentemente tornato alla ribalta in Siria dove la gioia per la caduta del criminale Bashar al-Assad rischia di trasformarsi in nuovo terrore per la salita al potere al gruppo fondamentalista Tahrir al-Sham.

La storia dell’Afghanistan può dunque essere un monito per chi guarda l’attualità con occhi superficiali: a partire dalla fine degli anni ’70, è un Paese che ha subito ingerenze straniere da parte di potenze internazionali e regionali che hanno finanziato e armato gruppi fondamentalisti. Questi drammatici eventi, comuni a molti paesi, hanno generato decenni di guerre provocando migliaia di vittime civili, corruzione endemica, traffico di droga, devastazione del tessuto sociale e ambientale e migrazioni forzate.

Ma in Afghanistan ci sono anche organizzazioni democratiche che, fin dagli anni ’70, si sono attivate per l’uguaglianza e la giustizia sociale delle donne, per i diritti fondamentali all’istruzione, alla difesa legale, alle cure mediche e per la liberazione dalla povertà e dalla violenza. Organizzazioni, per esempio, come RAWA o HAWCA che CISDA sostiene dalla sua nascita.

Uomini e donne che, nonostante avessero l’opportunità di lasciare il Paese dopo il ritorno dei talebani, hanno deciso di rimanere, sfidando i rischi quotidiani del regime repressivo talebano, e continuano a operare in Afghanistan a fianco delle donne, dei bambini, di una popolazione la cui maggioranza vive in condizioni di estrema povertà oltre che di oppressione e di negazione di ogni diritto umano.

Ed è importante che, insieme al sostegno alle forze democratiche e antifondamentaliste, non venga riconosciuta alcuna rappresentanza politica alle esponenti politiche e agli esponenti politici dei precedenti governi afghani, rappresentanti di una classe politica corrotta. Troppo spesso, infatti, si vedono assurgere al ruolo di difensori dei diritti delle donne afghane personaggi ambigui e compromessi con i precedenti regimi.


L’articolo è precedentemente uscito su Altreconomia.

Haqqani Khalil ur Rahman

È nato il 1 gennaio 1966 ed è fratello di Jalaluddin Haqqani, fondatore della rete Haqqani, e zio di Sirajuddin Haqqani, ministro degli interni. L’11 dicembre 2024 è stato ucciso nel corso di un attentato suicida.

Dal 7 settembre 2021 all’11 dicembre 2024 è stato ministro dei Rifugiati. 

Cosa si dice di lui

Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti nel febbraio del 2011 ha designato Khalil al-Rahman Haqqani terrorista globale, offrendo una ricompensa di 5 milioni di dollari per informazioni in grado di portare alla sua cattura. È anche incluso nella lista dei terroristi delle Nazioni Unite. (fonte VoaNews)

Doug London, che gestiva le operazioni antiterrorismo della Cia in Afghanistan, affermava che Haqqani era stato un partner della CIA quando l’agenzia forniva armi ai ribelli afgani negli anni ’80 per combattere le truppe sovietiche. È stato designato terrorista globale dal governo degli Stati Uniti nel 2011. La narrativa della ricompensa del Dipartimento di Stato per Haqqani afferma che “ha anche agito per conto di al-Qaeda ed è stato collegato alle operazioni terroristiche di al-Qaeda”.(fonte NBC)

La sua storia

Durante la guerra in Afghanistan Haqqani si è impegnato nella raccolta di fondi internazionali per i talebani sostenendone le operazioni. Nel 2002, Khalil ha impegnato i suoi uomini per rafforzare al-Qaeda nella provincia di Paktia, in Afghanistan; nel 2009 ha contribuito alla detenzione dei prigionieri catturati dalla rete Haqqani e dai talebani; nel 2010 ha fornito finanziamenti ai talebani nella provincia di Logar, in Afghanistan. Haqqani ha eseguito gli ordini forniti da suo nipote, Sirajuddin Haqqani, leader della rete Haqqani, designato terrorista nel marzo 2008 ai sensi dell’ordine esecutivo 13224.

Il 9 febbraio 2011, il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, con l’ordine esecutivo 13224, ha designato Khalil Haqqani come terrorista globale tra i più ricercati, offrendo su di lui una taglia di 5 milioni di dollari.

Il 9 febbraio 2011 le Nazioni Unite ai sensi del paragrafo 2 della risoluzione 1904 (2009), ha aggiunto Khalil Haqqani all’elenco dei sanzionati del 1988 (TAi.150) per associazione con Al-Qaeda, Osama bin Laden e i Talebani e/o loro favoreggiamento e finanziamento.

Le Nazioni Unite hanno stabilito che Haqqani si è impegnato in attività di raccolta fondi per conto dei talebani e della rete Haqqani viaggiando a livello internazionale per ottenere sostenitori finanziari. A partire dal settembre 2009 Haqqani ha ottenuto sostegno finanziario dagli stati arabi del Golfo Persico e da fonti dell’Asia meridionale e orientale. Inoltre, Khalil ha agito per conto di Al-Qaeda ed è associato alle loro operazioni militari, compreso il dispiegamento di rinforzi agli elementi di Al-Qaeda nella provincia di Paktia, in Afghanistan.

Nell’agosto del 2021, dopo la caduta di Kabul, Haqqani è stato incaricato alla sicurezza di Kabul durante la transizione del potere. (fonte Wikipedia)

L’11 dicembre 2024 è stato ucciso nel corso di un attentato suicida nella sede del ministero, mentre stava partecipando a una sessione formale, armato come sempre nelle riunioni ufficiali per la sua diffidenza verso le guardie del corpo. Alcune ore dopo l’attacco, i Talebani hanno diffuso sui social media un’immagine del kamikaze, affermando che durante la sessione l’attentatore aveva fatto esplodere la sua carica esplosiva. … L’uccisione di questo alto funzionario talebano ha scatenato le reazioni di diversi attivisti politici e di alti funzionari dei precedenti governi afghani. Alcuni hanno accolto con favore la sua morte, attribuendo alla Rete Haqqani la responsabilità dei numerosi attacchi suicidi che hanno causato migliaia di vittime in Afghanistan, ritenendo la morte di Haqqani una giusta punizione. L’ex presidente afghano Hamid Karzai, invece, ne ha condannato l’uccisione definendolo un “martire” membro di un’importante famiglia jihadista afghana e sottolineando il suo ruolo nella lotta contro l’ex Unione Sovietica. … Contemporaneamente, alcuni utenti dei social media hanno attribuito la morte di Khalil Ur-Rahman Haqqani a divergenze interne ai Talebani, suggerendo che la Rete Haqqani non fosse d’accordo con le direttive emanate da Hibatullah Akhundzada, la Guida suprema dei Talebani, prevedendo che altre figure talebane potrebbero essere uccise in dispute interne, viste le lotte di potere in atto all’interno dei Talebani, in particolare per il controllo della Rete Haqqani, che dispone di ingenti risorse finanziarie e di stretti legami con gruppi terroristici internazionali. (fonte 8AM.Media)

Lettera di Kongra-Star a Geir Pedersen, inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria

La Siria si trova in una fase critica e i recenti sviluppi richiedono una risposta internazionale efficace per evitare il caos e raggiungere una transizione politica completa e sostenibile. In questo contesto, sottolineiamo la necessità di lavorare in conformità con la Risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che costituisce il quadro giuridico delle Nazioni Unite per raggiungere una soluzione politica che ponga fine alle sofferenze del popolo siriano e rispetti i diritti di tutti i suoi componenti. Riteniamo che un elemento essenziale per costruire una Siria democratica e stabile sia garantire la partecipazione delle donne siriane in tutte le fasi di un processo politico basato sulla risoluzione 1325 del Consiglio di sicurezza dell’ONU sulle donne, la pace e la sicurezza.

La Siria oggi affronta una serie di sfide serie, a partire dall’escalation militare in corso, in particolare con i ripetuti attacchi da parte della Turchia sulla Siria settentrionale, come possiamo osservare a Manbij. Questi attacchi non solo minano la sicurezza, ma provocano anche sfollamento di migliaia di persone e rafforzano l’attività delle cellule dormienti dell’ISIS, che rappresentano una minaccia a livello locale, regionale e internazionale.

Le persone che vivono in condizioni drammatiche nei campi profughi a nord di Aleppo (Shehba) dal 2018 a seguito dell’occupazione turca di Afrin, sono state sfollate con la forza per la seconda volta. Questi sfollati, soprattutto donne e bambini, vivono in condizioni umanitarie catastrofiche, poiché ancora non sono arrivati aiuti internazionali e l’Amministrazione Autonoma Democratica nord-est della Siria deve affrontare questa sfida da sola. Gli sforzi profusi dall’Amministrazione Autonoma e da iniziative comunitarie per far fronte all’aggravarsi della crisi non sono sufficienti e si rende indispensabile un rapido intervento internazionale.

Questa crisi è particolarmente dura per le donne e i bambini, che subiscono maggiormente il peso degli attacchi e della violenza. In quanto organismo internazionale preposto al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali avete la responsabilità di adottare misure decisive e immediate per contenere la situazione ed evitare un ulteriore deterioramento.

Vi chiediamo pertanto di:

  1. Esercitare pressioni immediate sulla Turchia per fermare gli attacchi e l’escalation.

Chiediamo alle Nazioni Unite di agire urgentemente per esercitare pressioni sulla Turchia e sui gruppi armati che sostiene affinché cessino i ripetuti attacchi militari nella Siria settentrionale, per garantire la protezione della popolazione civile e preservare la sicurezza regionale. Questi attacchi non solo minacciano la stabilità della Siria, ma contribuiscono anche all’aggravarsi della crisi umanitaria e allo sfollamento di migliaia di civili. Chiediamo anche l’apertura di corridoi umanitari sicuri a Shehba che permettano agli aiuti umanitari di raggiungere le persone colpite e fornire protezione ai civili intrappolati nelle aree colpite.

  1. Mantenere la sicurezza regionale e impedire il ritorno dei gruppi terroristici.

Chiediamo un’azione internazionale decisiva per prevenire la ricomparsa di gruppi terroristici come l’ISIS nelle aree di escalation. Questi gruppi stanno usando l’attuale caos per espandere le loro operazioni e rappresentano una grave minaccia alla sicurezza regionale e internazionale.

  1. Avviare la soluzione politica in conformità con la risoluzione 2254.

Garantire l’accelerazione dei negoziati politici sotto la supervisione delle Nazioni Unite e fornire meccanismi chiari per gestire la transizione in modo equo e sostenibile. Concentrarsi sulla protezione dell’unità e della sovranità della Siria e garantire i diritti di tutte le componenti etniche, religiose e culturali del paese, nonché i diritti delle donne.

  1. Garantire l’inclusione delle donne nella nuova costituzione siriana in linea con la risoluzione 1325.

Garantire la partecipazione delle donne a tutte le fasi dei negoziati e della transizione politica per assicurare il loro ruolo attivo nella costruzione della pace e della giustizia sociale. Rafforzare le misure per proteggere le donne dalla violenza e dallo sfruttamento e sostenere le donne nei ruoli di leadership nella fase successiva.

  1. Affrontare il problema degli sfollati forzati e proteggere gli sfollati.

Fornire un sostegno urgente agli sfollati di Afrin e di altre aree e garantire il loro ritorno sicuro alle loro zone di origine. Fornire protezione internazionale per porre fine alle violazioni e garantire la sicurezza nel nord della Siria.

  1. Aumentare gli aiuti umanitari.

Fornire assistenza umanitaria urgente alle aree che ospitano persone sfollate, in particolare nel nord-est della Siria, per alleviare la pressione sulle infrastrutture e soddisfare i bisogni di base. Sviluppare un piano delle Nazioni Unite per fornire assistenza a lungo termine che contribuisca alla ricostruzione e alla stabilizzazione.

Il popolo siriano ha sofferto per anni sotto il flagello della guerra e del conflitto, e la pace e la stabilità possono essere raggiunte solo attraverso una soluzione politica giusta e democratica che metta l’interesse del popolo al di sopra di tutto e garantisca che tutte le componenti, soprattutto le donne, siano coinvolte nella definizione del futuro del paese.

Cordiali saluti

Kongra Star

9 dicembre 2024

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Il patriarcato non è morto, ma c’è di peggio

Articolo pubblicato su Abitare a Roma

Dopo le infauste dichiarazioni del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara sul patriarcato e sui femminicidi (di cui, secondo il politico leghista, avrebbero colpa – per la parte maggiore – i migranti che arrivano da noi), rilasciate durante un intervento videotrasmesso alla presentazione, presso la Camera dei Deputati, della costituenda Fondazione intitolata alla Memoria di Giulia Cecchettin, molto si continua a discutere della condizione della donna nel nostro Paese, anche in relazione alla piaga sociale (meglio al crimine) delle donne picchiate, abusate e uccise (99 dall’inizio del 2024 ad oggi),  per l’83% da maschi bianchi, italiani e di buona famiglia, che con quelle donne vivevano, avevano convissuto o intrecciato una relazione sentimentale.

Ma ci sono luoghi nel mondo – come, ad esempio, l’Afganistan – dove la situazione delle donne è di molto peggiore che da noi; peggiore in un modo che è difficile immaginare anche se chi quella condizione ce la racconta è davanti a noi, in carne ed ossa, deve vivere anonimamente per non rischiare la vita e per testimoniare della condizione barbara in cui lei stessa e le sue sorelle vivono deve uscire clandestinamente dal suo Paese, anche per questo rischiando la vita.

Ma lo fa perché anche la Memoria è resistenza e perché questa Memoria sia conosciuta e trasmessa, dovunque ed in qualunque modo sia possibile, azione di cui lei e le donne del suo Paese, l’Afganistan oggi talebano, hanno un estremo (e disperato) bisogno.

Ne hanno bisogno perché nonostante tutto, nelle Scuole clandestine, che hanno creato e gestiscono (e di cui appresso leggerete) continuano a lottare costruendo, giorno dopo giorno, momenti di conoscenza e coscienza del proprio essere persone e dei propri diritti; momenti questi molto importanti per le donne afgane.

La donna afgana, la militante politica, di cui in particolare scrivo qui si chiama Shakiba (alias di sicurezza per la sua esistenza in vita), un’attivista di RAWA e appresso trovate una sua intervista, pubblicata qualche giorno fa sul Quotidiano Domani.

Per “capire e capirci”, come spesso scrivo, leggere attentamente le righe che seguono e riflettere a lungo, cercando di non dimenticare quanto apprenderete.

E se potete – e ne avete (o vi costruite) l’occasione – anche voi fate sentire la vostra voce per queste donne che, certo, lottano per i loro diritti ma, nello stesso momento, lo fanno – rischiando la vita quotidianamente – anche per i nostri diritti, che spesso pratichiamo distrattamente, poiché ci paiono acquisiti per sempre, anche se potremmo perderli in ogni momento. Dunque: alziamo la nostra voce per chi non può parlare!

Le Scuole clandestine in Afghanistan: «Insegniamo alle donne a resistere ai Talebani»

Con il ritorno degli studenti coranici il paese è ripiombato nel buio. E alcune associazioni, come Rawa, fanno lezioni di nascosto. Dialogo con Shakiba, attivista afghana per i diritti

C’è un luogo nel mondo in cui l’erosione dei diritti delle donne sembra non avere mai fine. Vengono ridotti all’osso, fino a diventare polvere. Da quando i Talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, anche soltanto essere donna è diventato un crimine.

Alle ragazze è vietato studiare dopo aver compiuto 12 anni, le donne non posso lavorare, soprattutto negli uffici pubblici. I Talebani hanno chiuso le scuole di musica, di arte e di teatro, bruciato gli strumenti musicali. Il cosiddetto ministero per la Promozione della virtù e la prevenzione del vizio ha recentemente approvato una legge in cui vieta alle donne di cantare e far sentire la propria voce fuori di casa.

Una vita sotto controllo:

«Le donne vivono costantemente sotto il controllo di questo governo misogino e fondamentalista, che esercita il potere puntando le armi contro le persone. Dobbiamo uscire di casa coperte dalla testa ai piedi, sempre accompagnate da un uomo. Leggi di questo genere vengono approvate praticamente ogni giorno. Un recente provvedimento impedisce alle televisioni di mostrare figure umane, stanno setacciando anche le librerie per eliminare le immagini».

Shakiba, pseudonimo che usa per nascondere la propria identità e garantire la propria sicurezza, lavora costantemente e in prima persona sul territorio afghano per aiutare il suo popolo, in particolare le donne, a resistere alla condizione in cui si trovano. Fa parte di Rawa, l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan, fondata nel 1977 da Meena, assassinata dieci anni dopo.

Le attiviste di Rawa lavorano nell’anonimato per promuovere resistenza silenziosa e denunciare i crimini che avvengono nel loro Paese. «Molte donne vengono molestate, arrestate, torturate, uccise, avvengono sparizioni forzate in tutto il Paese solo per silenziare la loro voce. Pochi mesi fa alcune ragazze sono scomparse e quando sono state rilasciate alcune di loro si sono suicidate», racconta.

La situazione psicologica è drammatica: «È dura per tutti, non solo per le donne. Nel 2021 siamo tutti rimasti traumatizzati da ciò che è accaduto. E oggi viviamo guardando questi uomini armati dappertutto per strada. La situazione economica del paese è talmente precaria che alcune persone vendono gli organi in mercati particolari, ci sono famiglie estremamente povere che stanno vendendo le loro figlie, per tirare avanti solo pochi mesi. Tante persone stanno andando via, scegliendo strade rischiose per arrivare in Europa».

La resistenza:

Incontriamo Shakiba a Desio, nel corso di una sua visita in Italia organizzata da Cisda per portare la voce delle donne afghane fuori dai confini, fino a noi. Perché, dice, «le persone e i media si sono dimenticati del popolo afghano, pensano che la situazione si stia sistemando, ma non è così, quindi è importante venire qui e raccontarlo».

Da tempo Shakiba prosegue la sua lotta al fianco delle sue compagne. Le loro armi? Educazione, solidarietà, informazione. Concetti che a noi suonano comuni, quasi scontati, ma che a Kabul rappresentano un rischio enorme, ogni giorno.

«Organizziamo attività educative, per aiutare le persone a difendere i propri diritti e decidere per sé stesse. Facciamo lezioni in casa per le ragazze, su tutte le materie, anche scienze, e lavoriamo per accrescere la consapevolezza sociale. Cerchiamo di mantenerle attive ma anche attente. Abbiamo anche una squadra mobile per portare aiuti sanitari ai villaggi più remoti colpiti da alluvioni o terremoti, curiamo soprattutto le donne, ma non solo, e distribuiamo pacchi alimentari alle persone che ne hanno bisogno in tutto l’Afghanistan.

È fondamentale anche condurre azioni politiche, che tuttavia non possiamo mettere in atto in spazi pubblici. Noi e tutti gli altri che si oppongono al regime usiamo molto i social media. Cerchiamo di mantenere anche la celebrazione di anniversari importanti come l’8 marzo o la data di uccisione della nostra fondatrice, anche se tutte queste cerimonie devono essere organizzate clandestinamente. Ma soprattutto documentiamo tutti i crimini contro i diritti umani avvenuti in Afghanistan dall’occupazione sovietica fino a oggi. Il nostro obiettivo è portare un giorno questi criminali davanti ai tribunali internazionali».

Rawa è stata la prima organizzazione a mostrare al mondo i crimini dei signori della guerra, filmandoli con micro camere nascoste sotto al burqa. «È rischioso, ma se vuoi vivere in un paese libero e democratico non c’è altra scelta. Se lasciassi il Paese migliorerei solo la mia vita. Restando, posso contribuire a migliorare quella di tutti».

I Talebani temono l’istruzione:

Uno dei punti chiave del cambiamento è l’istruzione. La stessa che, racconta, fa così paura al governo talebano. «Sono le donne a restare la maggior parte della giornata a casa a occuparsi dei bambini. E quindi se le donne sono educate possono educare anche i loro figli, la famiglia e quindi la società intera. Per questo le schiacciano, violano il loro diritto all’istruzione perché restino ignoranti.

Sanno che se le donne si uniscono e alzano la voce possono creare cambiamento. E per questo con le nostre lezioni a casa noi pratichiamo una forma di resistenza. Loro ci impediscono di studiare, noi resistiamo imparando comunque. Ci sono tante donne che stanno combattendo per i loro diritti, con il rischio di essere arrestate o peggio. Resistono attraverso le loro case, i social media, condividendo arte, poesie, anche questo è un modo di essere attiviste».

E gli uomini? «Molti uomini sono solidali con noi, ma non possono mostrarlo in pubblico, perché verrebbero uccisi immediatamente».

Le donne di Rawa continuano a lottare, per la loro libertà e quella di tutti gli altri. Sono vicine alle persone di Gaza, dell’Iran, a tutti i popoli che stanno soffrendo nel mondo.

«Vogliamo la libertà e fare azioni di resistenza insieme, possiamo fermare tutto questo, ma possiamo farlo solo attraverso la solidarietà. A tutti voi chiediamo di fare pressione affinché i vostri governi non normalizzino il governo talebano, è un governo fondamentalista che non deve essere legittimato, perché questo non aiuterà la popolazione e le donne dell’Afghanistan. Non dimenticateci».