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Contro l’apartheid di genere

In occasione della Giornata internazionale della donna dell’8 marzo di quest’anno le istituzioni internazionali impegnate nella difesa dei diritti umani si sono premurate di confermare il loro sostegno alle donne afghane oppresse dal regime dei Talebani, usando il termine “apartheid di genere” per definire la discriminazione esistente in Afghanistan e in Iran.

Ma l’ex parlamentare indipendente afghana Belquis Roshan, nell’incontro con il Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane avvenuto in occasione della sua visita in Italia ad aprile, ha raccomandato di non farsi “rubare la battaglia per il riconoscimento dell’apartheid di genere dalle organizzazioni internazionali e neanche dall’Onu”. Perché questa presa di posizione? Che cosa intende?

Da un paio d’anni i Talebani, proibendo l’istruzione alle ragazze e il lavoro alle donne e dando il via a un susseguirsi sempre più misogino e violento di proibizioni e limitazioni, hanno mostrato chiaramente non solo di non essere cambiati rispetto al loro passato governo -come avevano voluto credere gli Stati Uniti nell’ambito degli Accordi di Doha del 2020- ma anzi di fare della discriminazione delle donne un aspetto cardine del loro dominio. Da più parti si è cominciato a parlare allora di “apartheid di genere” e dell’opportunità che sia riconosciuto dalla legislazione internazionale come un crimine contro l’umanità.

Dato che appare sempre più illusoria la possibilità di ottenere dai Talebani il rispetto dei diritti delle donne in cambio di aiuti economici, si pensa di fare pressione su di loro attraverso i tribunali e il diritto internazionale.

Sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne

Se tutti gli attivisti e i sostenitori dei diritti delle donne afghane sono concordi nel definire il sistema di oppressione dei Talebani come un “apartheid di genere” in quanto non siamo di fronte a violazioni occasionali ma alla sistematica e istituzionalizzata segregazione delle donne e alla privazione dei loro diritti proprio in quanto genere considerato inferiore, diversi sono gli approcci che si possono avere per affrontare il problema.

Considerata l’entità e la gravità dell’oppressione che operano sulle donne, i Talebani potrebbero già essere perseguiti dalla Corte penale internazionale (Cpi) per il reato di persecuzione di genere. Lo Statuto di Roma della Cpi considera infatti il reato di persecuzione di genere come un crimine contro l’umanità, dove “persecuzione” si ha con “la privazione intenzionale e grave dei diritti fondamentali a causa dell’identità del gruppo o della collettività” e con “genere” si intende “i due sessi, maschile e femminile, nel contesto della società”. Coglie quindi la specificità di questo crimine, ma come atti individuali e compiuti su individui, non come azioni di un governo che opera consapevolmente e sistematicamente contro un gruppo in quanto genere distinto.

Come sostengono molti esperti, però, la definizione di persecuzione di genere non coglie pienamente la natura dell’oppressione subita dalle donne e dalle ragazze in Afghanistan e Iran. Il reato di apartheid, invece, affronta le cause più profonde. La Convenzione internazionale sulla repressione e la punizione dell’apartheid lo definisce come segregazione e discriminazione razziale in un contesto di regime istituzionalizzato di dominio da parte di un gruppo razziale su qualsiasi altro, attuato con l’intenzione di mantenere quel regime.

Quindi nel reato di apartheid si ipotizza la responsabilità dello Stato, ma non si contempla il genere come motivo di discriminazione, solo l’etnia. D’altra parte la Cpi può giudicare e condannare solo le singole persone, ai sensi del diritto penale internazionale che considera responsabili i soggetti, anche per i crimini di gruppo, come è stato ad esempio nel processo di Norimberga. La Cpi sta indagando dal 2006 sulle atrocità commesse in Afghanistan, esaminando i crimini commessi da tutte le parti coinvolte nella guerra del ventennio di occupazione, a cominciare dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. E che, però, potrebbe includere anche i crimini commessi dai Talebani dal 2021. Un procedimento molto lungo, troppo secondo alcuni attivisti.

Per accelerare i tempi la Cpi ha scelto allora di stralciare i reati precedenti per potersi concentrare solo su quelli dei Talebani, suscitando contestazioni in chi non è d’accordo nel “dimenticare” i crimini occidentali. Comunque, a oggi, il procuratore della Corte non ha presentato alcuna accusa contro i Talebani, né vi sono procedimenti avviati dagli Stati presso la Corte internazionale di giustizia.

Nonostante la naturale lentezza del procedimento, Human rights watch, Amnesty international e la Commissione internazionale dei giuristi sono tra coloro che ritengono che la Procura della Cpi dovrebbe aggiungere il crimine di persecuzione di genere all’indagine in corso e che gli Stati, attraverso la giurisdizione universale o altre vie giudiziarie, dovrebbero processare i Talebani sospettati di crimini di diritto internazionale.

Sottoporre gli abusi dei Talebani al controllo giudiziario

Dall’altro lato, la Corte internazionale di giustizia è responsabile della risoluzione delle controversie tra Stati su questioni di diritto internazionale. Questa Corte può esaminare le cause intentate da uno Stato contro un altro Paese membro per violazioni della Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (Cedaw), a cui anche l’Afghanistan ha aderito. Basterebbe la richiesta di un solo Stato per sottoporre gli abusi dei Talebani sotto il controllo giudiziario, come recentemente ha fatto il Sudafrica nei confronti di Israele a proposito del “plausibile genocidio” perpetrato a Gaza.

Quindi fin da subito uno Stato parte della Cedaw potrebbe portare i Talebani in tribunale e la Corte internazionale di giustizia potrebbe avere un ruolo importante. Ma nessuno ha finora fatto un passo del genere, sebbene tutti si dichiarino ogni giorno preoccupati per la situazione delle donne in Afghanistan.

Le divergenze non sono poche. Ad esempio, gli Stati Uniti non hanno ratificato la Convenzione perché Democratici e Repubblicani non sono d’accordo sui costi del trattato e non condividono le stesse norme sulla condizione delle donne. Inoltre la Cedaw è stata criticata per la sua prospettiva eteronormativa sul genere e sulla sessualità e per la mancanza del pieno riconoscimento di coloro che non rientrano nelle tradizionali identità di genere.

Altri invece puntano a far riconoscere a livello legislativo internazionale l’apartheid di genere come nuovo crimine contro l’umanità. Al momento è all’esame delle Nazioni Unite una revisione del Trattato sui crimini contro l’umanità e quindi alcuni chiedono che l’apartheid di genere sia inserito tra questi. Mentre in questo periodo è stata istituita presso l’Onu una commissione specifica che ha il compito di rivedere i criteri con cui viene definita la prevenzione e persecuzione dei crimini contro l’umanità. Da più parti si fa pressione e si sollecita il movimento per i diritti ad approfittare di questa finestra istituzionale per ottenere la modifica del Trattato.

Questa terza strada è preferita e fortemente caldeggiata dalle istituzioni internazionali e dalle donne afghane espatriate che vi lavorano all’interno, spesso utilizzate per mostrare il lato “buono” e democratico dei Paesi occidentali quando vogliono addolcire le loro politiche fondamentalmente aggressive, per mantenere l’opinione pubblica fiduciosa e dormiente.

In testa c’è il segretario generale dell’Onu, António Guterres, che fin dal 2022 ha dichiarato che l’oppressione che si accanisce sulle donne in Afghanistan deve essere considerata apartheid di genere perché la sua natura non è occasionale e limitata ma strutturale, dichiaratamente fondante l’ideologia dei Talebani, che mantengono in stato di inferiorità una parte della popolazione, in quanto genere, così rispondendo a tutte le caratteristiche necessarie per definire l’apartheid come tale.

Anche il Gruppo di Lavoro sulla discriminazione contro le donne delle Nazioni Unite il 20 febbraio del 2024 si è espresso per l’inclusione di queste azioni come crimine contro l’umanità ai sensi dell’Articolo 2 del progetto di revisione del Trattato sulla prevenzione e la punizione dei crimini contro l’umanità attualmente all’esame del Sesta Commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Già a settembre 2023 le Osservazioni fornite dal sottosegretario generale delle Nazioni Unite e dal direttore esecutivo delle Nazioni Unite Sima Bahous alla riunione del Consiglio di sicurezza delle Onu sulla situazione in Afghanistan chiedevano ai governi “di prestare pieno sostegno a un processo intergovernativo per codificare esplicitamente l’apartheid di genere nel diritto internazionale”.

Il Parlamento europeo il 14 marzo ha affermato poi che “l’applicazione da parte dei Talebani della legge della shari’a e l’esclusione di donne e ragazze dalla vita pubblica equivalgono a persecuzioni di genere e apartheid” e che vanno sostenute “le richieste della società civile afghana di ritenere le autorità di fatto responsabili delle loro azioni, un’indagine da parte della Corte penale internazionale, l’istituzione di un meccanismo investigativo indipendente delle Nazioni Unite e l’espansione delle misure restrittive dell’Ue”. Anche l’Italia a marzo è intervenuta in difesa delle donne afghane, nell’evento organizzato dalla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu “No Poverty eradication without the empowerment of women and girls – next steps for the future of Afghanistan”, ma non è andata oltre un generico appoggio e aiuto economico.

gennaio un gruppo di parlamentari britannici ha dato il via a un’indagine sull’apartheid di genere, la prima al mondo di questo tipo, per analizzare la situazione delle donne e delle ragazze in Iran e Afghanistan rispetto alle definizioni legali esistenti sui crimini internazionali e le possibilità di inserirlo nel quadro giuridico internazionale esistente. Dando vita poi a un rapporto che è stato presentato al Parlamento del Regno Unito il 4 marzo 2024 in cui si dice espressamente che “questa grave questione può essere descritta solo come il crimine di apartheid: sostituendo ‘razza’ con ‘genere’, diventa evidente che la definizione legale riflette la situazione delle donne e delle ragazze in Afghanistan e Iran”.

La campagna “End gender apartheid today” è stata forse la prima richiesta rivolta espressamente ai governi per il riconoscimento di questo crimine. Decine di eminenti giuristi, studiosi e rappresentanti della società civile di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera in cui esortano gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare l’apartheid di genere nel progetto di Convenzione sui crimini contro l’umanità.

Anche il Consiglio atlantico degli Stati uniti e il Global justice center, nell’ottobre 2023”, “hanno pubblicato una lettera congiunta e una memoria legale per sollecitare gli Stati membri delle Nazioni Unite a codificare specificamente questo crimine nella bozza di trattato sui crimini contro l’umanità attualmente all’esame della Sesta commissione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite”. Richiesta ribadita dal Consiglio atlantico l’8 marzo di quest’anno e ancora recentemente il 14 marzo.

L’Istituto internazionale per la pace (Ipi) -fondato dall’Onu- ha organizzato un panel sull’argomento. Tra le intervenute, Dorothy Estrada-Tanck ha individuato nella codificazione esplicita dell’apartheid di genere in Afghanistan una priorità per il Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla discriminazione contro le donne e le ragazze, di cui è presidente. “Riconoscere e codificare questo come un crimine contro l’umanità è necessario per nominare e comprendere con precisione l’intera portata degli elementi di questo regime e, soprattutto, per innescare l’azione della comunità internazionale”, ha detto. L’evento è stato co-sponsorizzato dal Global justice center, Rawadari, dal Georgetown institute for women, Peace and security e dalle missioni permanenti di Messico e Malta.

La Federazione internazionale per i diritti umani, composta da difensori dei diritti umani provenienti da tutto il mondo, ha aderito ufficialmente alla campagna adottando una risoluzione per riconoscere “l’apartheid di genere”.

L’Alleanza per i diritti umani in Afghanistan, che include Amnesty international, Front Line defenders, Freedom house, Freedom now, Human rights watch, Madre, Organizzazione mondiale contro la tortura (Omct), la Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) e la Lega internazionale per la pace e la libertà delle donne (Wilpf), esprime richieste più generiche ma comunque sollecita vengano stabilite le responsabilità attraverso “meccanismi che includono la Corte penale internazionale e la Corte internazionale di giustizia”.

Così come il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite riunito nella sessione del 22 febbraio del 2024, che nel Rapporto afferma che la situazione delle donne afghane può configurarsi come apartheid di genere e raccomanda agli Stati di “sostenere i meccanismi internazionali di indagine e di responsabilità e avviare o collaborare con i processi di responsabilità nelle giurisdizioni nazionali per le violazioni passate e attuali da parte di tutte le parti in conflitto in Afghanistan, anche per quanto riguarda la giustizia di genere e gli attacchi alle comunità etniche e religiose”.

Prevarranno le considerazioni opportunistiche?

Tante e autorevoli, come si vede, sono le voci che spingono nella direzione dell’identificazione dell’apartheid di genere, e quelle riportate sono solo una parte. Ciò potrebbe far pensare che la strada sia in discesa, dato il gran numero di Paesi nel mondo che si definiscono democratici o che comunque sono contrari alle politiche ultrareazionarie e ultrafondamentaliste dei Talebani.

Ma non è così. Alla fine sono i singoli Stati che decidono all’interno dell’Onu, compresi ovviamente gli Usa e gli alleati occidentali, cioè quelli che prima hanno occupato l’Afghanistan e poi sono stati i promotori dell’accordo che ha riportato al potere i Talebani perché considerati più “affidabili” dei governi da loro stessi confezionati e sostenuti nei vent’anni di occupazione.

Mentre sostengono che le donne afghane non debbano essere abbandonate, è l’Onu stessa a incentivare un percorso di avvicinamento nei confronti del governo talebano con il dichiarato intento di arrivare al suo riconoscimento completo nel più breve tempo possibile, come hanno dimostrato la Valutazione indipendente sull’Afghanistan che ha portato al Forum di Doha del febbraio scorso e i successivi incontri.

Perciò c’è il rischio che prevalgano le preoccupazioni opportunistiche di inimicarsi tutti quei Paesi, e sono tanti, che per affinità culturale o religiosa con i Talebani o per interessi economico-politici nella regione non vogliono l’isolamento dell’Afghanistan e la conseguente limitazione dei contatti commerciali e politici; quelli che hanno di fatto già riconosciuto più o meno apertamente il governo talebano e quindi preferiscano non prendere una posizione chiara e potenzialmente gravida di reazioni negative per loro. Quanto possono essere credibili nel loro proposito di condannare i Talebani?

Certo il riconoscimento dell’apartheid di genere come crimine contro l’umanità non sarebbe di per sé sufficiente a dare il via all’incriminazione dei Talebani perché comunque è indispensabile, come detto, l’azione di uno Stato per mettere in moto il tribunale internazionale, ma sarebbe un enorme aiuto per tutte quelle organizzazioni che come il Cisda e la Coalizione euroafghana sostengono le donne e le organizzazioni afghane come l’Associazione rivoluzionaria delle donne dell’Afghanistan (Rawa) che coraggiosamente si oppongono quotidianamente ai Talebani e chiedono agli stati democratici di non riconoscere il loro governo.

L’apertura di un processo internazionale al governo talebano con l’accusa di apartheid di genere sarebbe un procedimento lungo che non avrebbe effetti immediati sulla vita delle donne afghane, ma renderebbe loro giustizia e rafforzerebbe la loro resistenza.

Le battaglie per accrescere la democrazia e per il riconoscimento dei diritti a livello istituzionale e legislativo non sono mai state vinte per merito delle istituzioni stesse ma per la spinta che hanno avuto dal basso, da chi premeva per ottenere i cambiamenti.

“Non facciamoci strappare questa battaglia”

Come ha detto Belquis Roshan, il riconoscimento che in Afghanistan vi è un sistema di apartheid di genere è una battaglia molto importante e non dobbiamo farcela strappare dai politici di professione. E nemmeno dalle donne che sono state leader politiche in Afghanistan, condividendo responsabilità di governo, e che ora, scappate dopo l’arrivo dei Talebani, riempiendosi la bocca di parole di democrazia, si sono riciclate in Occidente come rappresentanti del popolo e delle donne rimaste invece a soffrire nel Paese. Donne che appaiono nei media e che sono letteralmente usate negli incontri internazionali ufficiali quando i leader e gli Stati più potenti hanno bisogno di mostrare che ascoltano anche la popolazione civile e non solo i Talebani.

Sono le donne che resistono in Afghanistan e che ogni giorno devono affrontare gli attacchi dei decreti dei Talebani le vere rappresentanti di loro stesse. È a loro che dobbiamo dare voce e a chi continua, anche dall’esilio, a darsi da fare senza farsi fagocitare dalle istituzioni e dagli apparati che danno loro maggior prestigio. È grazie alla resistenza e alla resilienza delle donne afghane che l’argomento dell’apartheid di genere è ora all’ordine del giorno. Non possiamo lasciare che a farne una bandiera siano coloro che hanno portato la guerra in Afghanistan e poi hanno voluto lasciare il Paese in mano ai Talebani.

Pubblicato su Altreconomia, 9 maggio 2024

Beatrice Biliato è un’attivista di CISDA.

Bilquis Roshan in Italia per alcuni importanti incontri

Bilquis Roshan è una nostra compagna afghana. L’abbiamo incontrata più volte nel suo Paese, dove viveva costantemente sotto scorta a causa delle sue continue denunce nei confronti dei signori della guerra al potere, della corruzione e dell’ingiustizia dilaganti, dell’occupazione NATO che portava solo più guerra e insicurezza. Nel suo programma c’erano pace, giustizia per tutti coloro che avevano subito gravi perdite durante i troppi anni di guerre e invasioni dell’Afghanistan (dall’invasione sovietica, alla guerra civile scatenata dai signori della guerra, dai talebani al periodo dell’invasione NATO), giustizia sociale, liberazione delle donne.

Ci hanno sempre colpito la sua forza, il suo coraggio, la sua ironia e le sue risate contagiose; gli incontri con lei sono sempre stati un momento importante delle nostre delegazioni.

Lo scorso marzo Bilquis è stata in Italia.

A Roma ha incontrato alcune parlamentari, che hanno promesso di mantenere alta l’attenzione sull’Afghanistan e soprattutto sulla condizione delle donne, ora costrette a subire un’apartheid di genere. È stata poi accolta nella sede dell’ANPI provinciale, dove si è riunita con le donne della commissione femminile; il suo intervento, centrato sulla resistenza delle donne, è stato seguito con molto interesse.

La visita a Roma si è conclusa con un incontro con le ragazze e i ragazzi della comunità afghana locale che volevano avere informazioni sulla situazione del paese e sulla diffusione delle scuole coraniche.

A Milano ha avuto un incontro con le donne del CADMI (Casa di accoglienza per le donne maltrattate), con cui ha parlato della sistematica violenza nei confronti delle donne.

Un ultimo incontro pubblico prima della sua partenza ha avuto luogo sempre a Milano, in un evento su donne e guerra organizzato in occasione delle celebrazioni per i 10 anni della Casa delle donne. Prima di lasciare l’Italia, Belquis ha fatto un incontro online molto partecipato con le associazioni della Rete euro-afghana; ha illustrato quello che vorrebbe fare, dall’Europa, per mantenere l’attenzione sul suo paese.

La biografia di Belquis

Nata nel 1973 nella provincia di Farah (sud-ovest dell’Afghanistan); negli anni dell’invasione sovietica Bilquis va in esilio con la sua famiglia prima in Iran e, poi, in Pakistan, dove studia in una scuola per rifugiati cercando modi per acquisire consapevolezza politica; questo percorso la porta a decidere di mettersi al servizio delle donne del suo paese.

Nel 2001, Dopo l’occupazione dell’Afghanistan da parte della NATO, Bilquis torna a Farah e inizia a lavorare come direttrice di un centro medico per donne.

Nel 2005 si candida e viene eletta elezioni nel consiglio provinciale di Farah, ma continua a lavorare nel suo territorio.

Nel 2009 viene nuovamente eletta nel consiglio provinciale di Farah e va a Kabul come rappresentante del consiglio alla Mishrano Jirga, la Camera Alta del Parlamento (Senato) dove si adopera per smascherare i crimini dei signori della guerra. In quel periodo frequenta la Facoltà di legge all’Università di Kabul.

Nel 2018 si candida alle elezioni parlamentari e viene eletta alla Wolesi Jirga (Camera Bassa del Parlamento), sempre per la provincia di Farah. Nonostante le continue minacce di morte continua a denunciare crimini e corruzione di ministri e parlamentari.

Alla Loya Jirga (tradizionale Grande Assemblea) del 13 ottobre 2013 è l’unica rappresentante a opporsi alla firma di un patto di sicurezza con gli Stati Uniti e decide di lasciare l’Assemblea con lo slogan “Il patto con gli USA è un tradimento della nostra patria” dichiarando ai media che la presenza militare americana in Afghanistan rappresenta un pericolo per il futuro del suo Paese.

Roshan fa ancora sentire la sua voce durante la Loya Jirga del 7 agosto 2020, quando il governo fantoccio di Ashraf Ghani decide di liberare dalla prigione oltre 5000 terroristi talebani, un accordo che lei considera ‘tradimento della nazione’. In quella occasione è stata buttata a terra e picchiata da una donna del personale di sicurezza. Questo incidente ha avuto un’enorme copertura mediatica ed è stato condannato in tutto l’Afghanistan, mettendo in ombra l’intera Loya Jirga”.

Il suo nome è stato inserito nella lista nera dei talebani e dell’ISIS, ma Bilquis non ha mai fatto marcia indietro.

Dopo il ritorno al potere dei talebani il team che si occupava della sua sicurezza suggerisce a Bilquis di non apparire più in pubblico perché troppo rischioso. Successivamente è costretta a lasciare il paese: “Non avrei mai pensato di lasciare l’Afghanistan, il mio amato Paese, ma dall’agosto 2021, con la caduta del governo fantoccio di Kabul, mi è stato impossibile continuare le mie attività e la mia vita è ad alto rischio. Oggi voglio continuare la mia missione, voglio far conoscere in tutto il mondo il destino del mio sfortunato popolo”.

Belquis Roshan vive attualmente in Germania dove è presente una grande comunità di afghani, ma continua a portare in giro per il mondo la voce delle donne afghane.

RAWA celebra la Giornata internazionale della donna

L’Associazione Rivoluzionaria delle donne Afghane (RAWA) ha organizzato un’iniziativa per l’8 marzo in Afghanistan. Questo incontro si è svolto nonostante le imposizioni dei talebani mirate a vietare le attività delle donne con minacce, pressioni e repressione, mettere a tacere le loro voci di protesta e reprimere il loro spirito combattivo. Tuttavia, le nostre donne resilienti hanno svolto un ruolo significativo nella lotta contro il fascismo e il fondamentalismo, con coraggio e consapevolezza.

È stata espressa gratitudine nei confronti delle ragazze, delle donne e delle madri che hanno partecipato nonostante la nevicata e altre difficoltà logistiche. All’inizio è stata recitata una poesia:

Combattiamo contro la tirannia e le tenebre,
Mano nella mano, marciamo verso la vittoria.
Finché ogni anima assaggerà la dolcezza della libertà,
Cantiamo l’inno della libertà.
Odiamo i veli forzati che avvolgono i nostri volti,
Pugni e acido sui nostri volti, nel dominio della schiavitù.

Dobbiamo ribellarci a povertà, oppressione e discriminazione
Costruiamo un mondo uguale insieme
Sii una donna e insorgi come una donna
Alzati e corri forte
Sii donna e ribellati con forza!

La sala è stata decorata con slogan e immagini sulla lotta e sul sacrificio delle donne in Afghanistan e nel mondo. Questo il discorso iniziale.

L’8 marzo è il giorno simbolico della solidarietà globale delle donne oppresse in tutto il mondo e un’opportunità per continuare insieme la nostra lotta per la liberazione e l’uguaglianza. Purtroppo nella nostra terra governano forze reazionarie che considerano le donne il nemico principale; tutte le loro politiche sono basate su restrizioni e intimidazioni nei confronti delle donne. In questi giorni, l’ondata di repressione, arresti e torture da parte dei talebani addestrati dalla CIA e dall’ISI, in particolare da parte del Ministero per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, ha colpito tutto il paese. Questi fondamentalisti religiosi e fascisti hanno imparato dai loro predecessori a mantenere la società chiusa e arretrata, a reprimere le donne, uno dei pilastri principali della rivoluzione, chiudendole in casa, tagliando loro le ali, e distruggendo i loro sogni.”

Le giovani donne di RAWA hanno poi cantato l’inno, Donne insorgete, che incita alla rivolta contro la violenza e l’oppressione.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Zarlasht, una rappresentante di RAWA, ha descritto in dettaglio le nostre attività politiche del prossimo futuro.

RAWA è vicina alle sofferenze delle donne in cerca di giustizia e alle combattenti di tutto il mondo. L’8 marzo è il giorno in cui chiedere giustizia e uguaglianza e rinnovare l’impegno a organizzare un movimento delle donne forte e unito, capace di sradicare l’oppressione e le discriminazioni della società patriarcale. Non permettiamo alle forze reazionarie e all’imperialismo di svuotare di significato a questa giornata militante e rivoluzionaria per trasformarla in un giorno in cui si regalano fiori e si promette falso amore alle donne per nascondere la misoginia.

Commemorare l’8 marzo ha per noi un valore molto più alto, perché qui, sotto il soffocante terrore dei criminali fondamentalisti talebani, le donne che soffrono sono più che in qualsiasi altra regione del mondo. Le donne afghane sono private dei loro diritti fondamentali: la libertà, l’istruzione e il lavoro, l’imposizione dell’hijab. Gli Stati Uniti e i loro alleati non hanno riconosciuto ufficialmente i talebani, ma in segreto stanno cercando di rafforzarli e sostenerli e, in questo modo, impedire il crollo di questo Emirato di assassini. Anche se le truppe degli Stati Uniti e della NATO si sono ritirate dall’Afghanistan, gli interventi dei paesi occidentali per trasformare l’Afghanistan in un centro di terrorismo continuano e negli ultimi anni l’ISIS e altre bande di terroristi qui si sono potuti organizzare liberamente. Il terrorismo islamico e l’imperialismo sono due facce della stessa medaglia”.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Analizzando la situazione corrente e il tradimento dei governi occidentali, Zarlasht ha affermato:

“Per decenni, gli Stati Uniti hanno sostenuto e alimentato fondamentalisti mujahdeen, i talebani, l’ISIS come tattica per imporre le loro politiche coloniali e predatorie in Afghanistan e continuare a dominare la regione. Con questo scopo li hanno sempre armati fino ai denti e, dopo vent’anni di spargimento di sangue, grazie al sostegno finanziario e diplomatico aperto e clandestino, lasciano che il regime talebano vada avanti. L’auspicio e gli sforzi dell’Occidente e delle Nazioni Unite è quello di creare un ‘governo inclusivo’. Ciò che intendono per ‘inclusivo’ non è altro che tenere insieme un numero di intellettuali pro USA/NATO e di fondamentalisti fidati dell’amministrazione talebana; questo, naturalmente, non porterà il minimo cambiamento nelle politiche criminali degli attuali governanti.

Le politiche disumane del governo imperialista degli Stati Uniti dimostrano ciò che RAWA ha sempre sostenuto: gli USA sono in guerra con il popolo afghano e in pace con i criminali. La storia vergognosa e criminale degli Stati Uniti dimostra che hanno sempre sostenuto i regimi, gli elementi e le istituzioni più odiati e hanno cospirato per rovesciare governi e movimenti popolari. Alla Casa Bianca non importa come funziona il governo in Afghanistan e per quale motivo la nostra gente muore. Zalmi Khalilzad ha dichiarato chiaramente che gli Stati Uniti sono soddisfatti dei talebani e ha detto senza mezzi termini che se le ragazze non possono andare a scuola, è il problema del popolo afgano, non degli Stati Uniti! Ciò che conta per gli Stati Uniti e la CIA è che questo regime fantoccio resti sotto il loro controllo in modo che possano costituire una minaccia per la Russia, la Cina, l’Iran e altri paesi rivali”.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Zarlasht si è appellata agli uomini e alle donne che soffrono perché si preparino ad una battaglia vincente.

Dobbiamo sapere che senza acquisire consapevolezza e combattere con le nostre armi, non sarà possibile vedere il benessere e il successo o assistere a miglioramenti della nostra tragica situazione. Ancora una volta, in occasione dell’8 marzo, chiediamo a tutte le donne dell’Afghanistan di mobilitarsi e lottare per liberarsi dalla morsa dell’imperialismo e dei suoi lacché jihadisti e talebani e dalle tradizioni della società patriarcale. Porre fine alla violenza domestica, alla violenza sessuale, agli abusi e alla violenza contro le donne non sarà possibile solo organizzando seminari con le ONG. Se vogliamo cambiare la situazione, specialmente per noi donne, dobbiamo lavorare per formare un movimento composto da tutte le etnie e gruppi regionali afghani contro il fondamentalismo e l’occupazione…. In un momento in cui le donne afghane sono prigioniere del peggior fondamentalismo, RAWA è solidale con le donne che combattono in Iran, Palestina, Kurdistan, Tunisia, India e in tutto il mondo. Impariamo dal loro coraggio e dalla loro fermezza.”

RAWA 8 marzo 2024 
 
Con il ritorno dei talebani, un gran numero di intellettuali e di donne sono andate in Occidente, ma RAWA è rimasta accanto al suo popolo e si impegna a continuare a lavorare e organizzare le donne nelle condizioni più difficili. Durante l’evento sono state proiettate immagini e video delle più recenti attività politiche di RAWA, della distribuzione di cibo ai bisognosi, dei servizi offerti dai team medici nelle zone più remote, della distribuzione di aiuti in situazioni di emergenza, dei corsi di alfabetizzazione e politici clandestini.

In omaggio alla memoria delle donne rivoluzionarie e alla rivolta delle Donne, Vita, Libertà in Iran sono stati presentati una poesia (La primavera sta arrivando) di Marzia Ahmadi Oskuee, una delle famose martiri dell’organizzazione iraniana dei guerriglieri Fedai del Popolo, e un cortometraggio su Sepideh Qolian, una manifestante iraniana che ha creato un’epica nelle terribili prigioni del regime sanguinario dell’Iran.

RAWA è orgogliosa di essere in contatto con diverse attiviste, movimenti progressisti e organizzazioni nel mondo fin dalla sua istituzione e ha sempre ricevuto da loro solidarietà, consenso e sostegno politico. La maggior parte di queste forze hanno raccolto donazioni e ci hanno aiutato con il loro impegno e le loro iniziative. Anche quest’anno, in occasione dell’8 marzo, abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà e Mursal ne ha condivisi alcuni con l’assemblea.

RAWA 8 marzo 2024 
 
Anche nelle peggiori condizioni, le sostenitrici straniere di RAWA, con grande coraggio, sono state al nostro fianco contro le politiche dei loro governi guerrafondai e in difesa del nostro popolo oppresso. Quest’anno, un gruppo di loro ha partecipato al nostro incontro e ha espresso la sua solidarietà. Alla fine dell’evento, tutte le partecipanti si sono alzate e hanno cantato l’inno Il Sole della Libertà, basato sulla famosa canzone El pueblo unido jamas serà vencido! di Victor Jara, un cantante rivoluzionario cileno assassinato dalla dittatura di Pinochet.

RAWA 8 marzo 2024 
 
RAWA 8 marzo 2024 
 
RAWA 8 marzo 2024

Comunicato stampa – 8 marzo 2024: CISDA a fianco delle donne afghane in lotta

Impedire che un’adolescente si lasci spegnere tra le mura di una casa-prigione; aiutare un’anziana a scrivere le sue prime parole in una stanza nascosta; sostenere tutte le avvocate, sarte, imprenditrici, panettiere, dottoresse, parrucchiere, insegnanti perché possano tornare a lavorare; scendere in piazza nonostante il terrore delle incarcerazioni arbitrarie. Tutto questo fanno le organizzazioni delle donne afghane che, in una clandestinità che porta luce e aria alle donne oppresse dell’Afghanistan dei talebani, continuano a lottare per affermare i propri diritti.

Lottare per e con le donne afghane, come fa CISDA – Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane dal 1999, significa dar voce e non lasciare sole donne che si battono contro tutti i fondamentalismi; significa condividere la lotta di liberazione delle donne con tutti i movimenti femministi nel mondo; significa non abbassare la testa.

L’8 marzo non è una ricorrenza, l’8 marzo è uno dei 365 giorni in cui le donne subiscono violenze, soprusi, sopraffazioni, ingiustizie, ma è anche uno dei 365 giorni in cui le donne di tutto il mondo continuano a lottare.

In questo momento, in cui due guerre devastanti stanno provocando migliaia di morti, le donne sono ancora una volta le prede di una insensata e misogina violenza, oggetto di stupri e omicidi: essere vicine e far sentire la voce delle donne afghane significa essere vicine anche alle donne palestinesi, israeliane, iraniane, ucraine e alle donne di tutto il mondo.

Per questo il CISDA vuole far sentire la propria voce in quanto protagonista di questa lotta e perché la Giornata internazionale della donna non sia solo l’8 marzo, ma ogni giorno della nostra vita.

Una lotta che si rafforza nel ricordo di chi ha dato la vita per la giustizia e la libertà come Meena Keshwar Kamal, fondatrice di RAWA, assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987 della quale riportiamo la poesia più famosa.

Mai più tornerò sui miei passi

Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Un 8 marzo internazionalista

Arriviamo in mattinata, accompagnate in macchina al luogo dell’appuntamento, ed entriamo in una grande sala. Il luogo è lo stesso di sempre, già abbastanza gremito di donne e uomini, ma molte devono ancora arrivare. Chiacchierano, si abbracciano, parlano fra loro contente di rivedersi perché arrivano da tutto il paese. Anche noi salutiamo e abbracciamo le nostre compagne e facciamo conoscenza di nuove realtà. Più tardi tutte prendono posto. Inizia la manifestazione: sul palco si alternano diversi interventi di donne in rappresentanza delle varie province; tra un intervento e l’altro sullo schermo scorrono immagini di chiara denuncia. Musica e spettacoli teatrali si alternano agli interventi. Noi portiamo il saluto di tutto il Cisda e un sostegno alle loro lotte. Alla fine, si canta tutte insieme, canzoni di lotta come “Bella ciao” e “El pueblo unido”, ognuna nella propria lingua, la commozione è palpabile.

Sì, siamo alla celebrazione della giornata internazionale della donna, ma siamo a Kabul, è l’8 marzo, siamo assieme alle nostre compagne di Rawa e non ci sono solo loro. È il modo in cui riescono ad organizzarsi per quella giornata, così come per tutti gli 8 marzo a cui abbiamo partecipato, ovviamente sempre al chiuso perché, anche nei vent’anni di occupazione Nato, le manifestazioni sono sempre state pericolose per le nostre attiviste. I contenuti dei loro interventi sono sempre politici e chiaramente antigovernativi, per cui stare all’aperto per troppo tempo risulterebbe troppo rischioso per tutte.

Ecco, tutto questo non possiamo più farlo. Il Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane), di cui faccio parte e che da oltre 20 anni sostiene le attiviste in Afghanistan, non può più organizzare delegazioni in Afghanistan perché il paese è caduto nelle mani dei Talebani, quei Talebani per i quali nel 2001 abbiamo invaso il paese per liberarlo dal loro giogo e per sconfiggere il terrorismo di Isis.

Non possiamo per il momento tornarci, ma non smettiamo di tenere alta l’attenzione sulle condizioni in cui vivono le donne e sulla condizione del paese. Non possiamo permetterci di stare in silenzio; lo dobbiamo alle nostre attiviste che hanno deciso di rimanere lì per continuare la loro attività con le donne e per un cambiamento del paese. Lo fanno a rischio della propria vita, manifestando il loro dissenso, lavorando in clandestinità e continuando a denunciare, così come hanno fatto fin dalla loro nascita nella metà degli anni ’70.

Voglio condividere con voi la poesia più conosciuta di Meena Keshwar Kamal, fondatrice di RAWA, assassinata dagli agenti del KHAD (il braccio afghano del KGB) e dai loro complici a Quetta, in Pakistan, il 4 febbraio 1987.

Mai più tornerò sui miei passi

Sono una donna che si è destata
Mi sono alzata e sono diventata una tempesta
che soffia sulle ceneri
dei miei bambini bruciati
Dai flutti di sangue del mio fratello morto sono nata
L’ira della mia nazione me ne ha dato la forza
I miei villaggi distrutti e bruciati mi riempiono di odio contro il nemico,
Sono una donna che si è destata,
La mia via ho trovato e più non tornerò indietro.
Le porte chiuse dell’ignoranza ho aperto
Addio ho detto a tutti i bracciali d’oro
Oh compatriota, io non sono ciò che ero.
Sono una donna che si è destata.
La mia via ho trovato e non tornerò più indietro.
Ho visto bambini a piedi nudi, smarriti e senza casa
Ho visto spose con mani dipinte di henna indossare abiti di lutto
Ho visto gli enormi muri delle prigioni inghiottire la libertà
nel loro insaziabile stomaco
Sono rinata tra storie di resistenza, di coraggio
La canzone della libertà ho imparato negli ultimi respiri,
nei flutti di sangue e nella vittoria
Oh compatriota, oh fratello, non considerarmi più debole e incapace
Sono con te con tutta la mia forza sulla via di liberazione della mia terra.
La mia voce si è mischiata alla voce di migliaia di donne rinate
I miei pugni si sono chiusi insieme ai pugni di migliaia di compatrioti
Insieme a voi ho camminato sulla strada della mia nazione,
Per rompere tutte queste sofferenze, tutte queste catene di schiavitù,
Oh compatriota, oh fratello, non sono ciò che ero
sono una donna che si è destata
Ho trovato la mia via e più non tornerò indietro.

Giovanna Cardarelli è un’attivista di CISDA.

Nell’Afghanistan dei Talebani le donne sono sempre più invisibili

Eravamo sedute in mezzo al nulla, quattro anni fa, in un villaggio di polvere e fango dello stesso colore ocra delle montagne, nell’Ovest dell’Afghanistan, dove seguivamo un progetto per le donne. A pochi chilometri c’era una postazione talebana e a una trentina una dell’Isis Khorasan. Non si poteva restare più di due o tre ore nello stesso posto, per non lasciare loro il tempo di organizzare un attacco o un rapimento. Narges mi spiegava la geografia politica del suo Paese: una pelle di leopardo, dove ogni villaggio, ogni città, ogni angolo aveva il suo padrone in lotta con gli altri.

C’erano i distretti completamente in mano ai Talebani, altri contesi con le armi al governo, altri ancora formalmente in mano a Kabul, ma con un “esecutivo ombra” degli studenti coranici. E poi l’Isis Khorasan contro tutti. Una quantità di poteri diversi che esercitavano una pressione violenta e quotidiana sulla popolazione. Una vita in cui si poteva solo scegliere il male minore.

Oggi il palcoscenico si è svuotato: gli unici attori rimasti, i Talebani, governano nell’indifferenza del mondo. La guerra non c’è più, la delinquenza nemmeno, la produzione di droga diminuisce, è vietato portare armi e si può circolare anche di notte. Se ti comporti secondo le regole non hai problemi, ma se sei una donna puoi solo sparire.  Narges oggi vive a Kabul con la sua famiglia. Riesce a lavorare in un ufficio privato, segretamente, quasi sempre da casa. “Esco il meno possibile. Adesso ho davvero paura. Da circa un mese la strada è diventata molto pericolosa”.

Perché? 

Narges: Gli agenti della polizia morale, uomini e donne, girano come cani affamati per le strade, in cerca delle loro prede. Fino a qualche tempo fa ti arrestavano se manifestavi o se l’hijab [il velo, ndr] non era in regola; adesso lo fanno anche se sei completamente coperta accanto al tuo mahram [l’accompagnatore di sesso maschile, ndr]. Lo fanno senza motivo. Perché? Non si sa e non si può sapere. Tutto è diventato arbitrario, casuale e imprevedibile. Non sai come proteggerti: ogni passo all’esterno costa un’ansia infinita.

Che cosa succede se ti arrestano?
Narges: Ti prendono, ti picchiano, ti infilano in macchina e ti portano, in genere, a Pul-e-Charkhy, la più grande prigione di Kabul. Lì puoi essere vittima di qualsiasi violenza. A volte non si sa più niente delle ragazze che vi vengono portate, altre vengono invece rilasciate. Ma non c’è nessun sospiro di sollievo. Per le famiglie l’arresto è una vergogna, un grave disonore che ricade interamente sulla ragazza. La loro vita diventa un calvario, vengono isolate, biasimate e persino vendute. So di due giovani che si sono suicidate dopo essere uscite di prigione, non so se per quello che hanno passato tra le mani dei Talebani o tra quelle dei loro familiari.

Come mai questo ulteriore giro di vite?
Narges: La paura è la più forte delle restrizioni, il più economico sistema di controllo. Arriva ovunque e chiude i pochi spazi rimasti. Ho notato alcune cose negli ultimi anni. Da quando è diventato obbligatorio l’hijab, soprattutto qui a Kabul, le più giovani hanno iniziato a vestirsi in modo tradizionale, strettissimo.

Mi chiedevo il perché, poi ho capito: era l’unica concessione che avrebbero fatto ai nuovi governanti del Paese. Protette da un hijab perfetto potevano andare nei locali, nei ristoranti, passeggiavano con gli uomini, fumavano l’hookah, la pipa ad acqua, e si divertivano. Insopportabile per i Talebani, che hanno inasprito i divieti. Molte sono state arrestate, ma le guerriere della normalità non si sono arrese.

La vita delle donne è diversa nelle province?
Narges: Sì, molto. Gran parte del nostro Paese è stato “talebanizzato” molto prima del loro arrivo a Kabul. Nelle zone rurali, le donne non hanno mai avuto libertà, né diritti. Nei villaggi dell’Helmand, ad esempio, né le ragazze che incontro né le loro madri hanno mai frequentato la scuola. Durante i vent’anni di occupazione delle forze occidentali era possibile studiare, c’erano i servizi per il contrasto alla violenza, i rifugi e la possibilità di lavorare.

Ma tutto questo riguardava una parte limitata della società femminile. Se fossero stati cambiamenti strutturali, non sarebbe stato così facile spazzarli via in un giorno. Per noi che viviamo nelle città, che abbiamo studiato e avevamo un lavoro, l’arrivo a Kabul dei Talebani è stato uno shock ma nella gran parte del Paese non c’è stato alcun cambiamento. La situazione tragica dell’Afghanistan non è solo colpa dei Talebani, questa è una versione comoda per gli ex occupanti, ma è responsabilità di chi per vent’anni non ha fatto nulla.

Perché i Talebani odiano tanto le donne?
Narges: Sono uomini a cui è stato fatto il lavaggio del cervello molto in profondità e molto presto. I bambini nelle madrase vengono lasciati soli, lontani dalla famiglia, da sorelle, madri e zie. Non hanno alcun rapporto con le donne. Non sanno niente di loro se non quello che dice il mullah. Da adulti, sono a disagio, ne hanno paura e non sanno fare altro che opprimerle, diventano così uno strumento politico dell’Islam estremo.

Le donne che incontri hanno qualche speranza per il futuro?
Narges: No, nessuna. Tutti vogliono andarsene, lasciare il Paese. Affrontano qualsiasi pericolo per questo.

Che consenso ha il governo talebano?
Narges: Adesso molto poco. Nei vent’anni di occupazione la popolazione ha sofferto molto e ha sviluppato un profondo risentimento verso le forze straniere. Quando queste se ne sono andate, gli afghani erano pronti ad accettare i Talebani, ma adesso non ce la fanno più.

Con chiunque tu parli, anche con gli sconosciuti, il primo argomento di conversazione sono le critiche nei confronti degli attuali governanti. Farlo è molto pericoloso, ci sono spie ovunque, ma le persone si lasciano andare lo stesso. Sono esasperati, hanno fame e si impedisce alle madri di famiglia di nutrire i propri figli. I divieti per le donne, infatti, creano difficoltà a tutti.

I Talebani resteranno a lungo al governo?
Narges: Loro stessi non hanno speranza di durare molto. Molti si stanno preparando per quando perderanno il potere politico: avviano business, comprano case, preparano una sicurezza per il loro futuro. Mio marito, che è negli affari, lo vede ogni giorno.

Per ora sono stabili però. Che appoggi hanno?
Narges: Principalmente il denaro che gli arriva regolarmente dagli Stati Uniti, che faceva parte degli accordi di Doha. Senza questi soldi non ce la farebbero. Cercano di aumentare gli introiti con le tasse e cresce la corruzione: ma non basta. Non sarà mai abbastanza per sostenersi.

Quali altri sponsor hanno oltre agli Usa?
Narges: Il governo precedente dipendeva al 100% da Washington. Se altri Paesi volevano entrare nel “grande gioco” afghano dovevano rivolgersi ai ribelli. Allo stesso modo, anche oggi ci sono i Talebani iraniani, pakistani, russi. Ognuno ha le sue pedine. E questo non piace agli Stati Uniti: finché non avranno la sicurezza che i Talebani resteranno una forza mercenaria a loro leale continueranno a tenerli sulla corda. Trattano, dialogano ma ancora non vengono ufficialmente riconosciuti. La strada per Kabul è stata aperta all’interno di un piano prestabilito nel quale gli Usa devono mantenere la posizione preminente e limitare le influenze di altri Paesi.

Se gli americani volessero, quindi, potrebbero far cadere il governo talebano?
Narges: Hanno smantellato il governo di Ashraf Ghani in una settimana, potrebbero deporre questo in tre giorni.

E con chi potrebbero sostituirli? Con i vecchi signori della guerra, con un governo condiviso, con il giovane Ahmad Massud, il figlio di Ahmad Shah?
Narges: Potrebbero. Massud e gli altri sono in cerca di sponsor, ma non li trovano. Nessuno vuole sostenerli per ora. I signori della guerra aspettano pazientemente di ritornare in campo e riprendere gli affari. Sanno che non sono esclusi per sempre, ma aspetteranno a lungo. Nessuno ha interesse in questo momento a far cadere i Talebani, soprattutto agli americani non conviene: controllano i governanti di Kabul con il denaro e mantengono la loro influenza. Del nostro inferno non si vede la fine, ma le donne afghane sono molto forti. Abbiamo fatto una cura drastica a base di guerre, violenze, soprusi. Dobbiamo solo impegnarci a sopravvivere.

Pubblicato su Altreconomia 

Cristiana Cella, giornalista, scrittrice, sceneggiatrice. Segue le vicende afghane dal 1980, quando entrò clandestinamente a Kabul, vietata ai giornalisti, per documentare la resistenza della città contro l’invasione russa.  Dal 2009 fa parte del Direttivo dell’Associazione Cisda (Coordinamento Italiano Sostegno donne afghane), ha partecipato a diverse delegazioni in Afghanistan. Ha pubblicato un libro: ‘Sotto un cielo di stoffa. Avvocate a Kabul’, edito da Città del Sole Edizioni.